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Locazione Commerciale Covid Cassazione

Locazioni commerciali e Covid-19: la Cassazione conferma che è obbligatorio rinegoziare i canoni

17 Settembre 2020/in Emergenza Coronavirus, News

Con una approfondita e per certi versi innovativa Relazione, l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione è intervenuto sul tema dell’impatto dell’emergenza Covid-19 sui contratti commerciali. Dopo avere analizzato i recenti interventi emergenziali e i tradizionali rimedi codicistici, la Cassazione ha affermato l’esistenza di un dovere di rinegoziazione in capo alla parte avvantaggiata basato sul principio di buona fede oggettiva. A fronte di tale importante affermazione, restano una serie di importanti criticità, legate al ruolo del giudice in caso di fallimento della rinegoziazione.

Indice

1. Ambito e scopo della Relazione della Cassazione

Con la recente Relazione n. 56 dell’8 luglio 2020, l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione è intervenuto sul tema – divenuto purtroppo di attualità, e destinato a restare tale ancora per diverso tempo – dell’impatto dell’epidemia Covid-19 sui contratti commerciali.

Su questo tema come è noto divampa da diversi mesi un dibattito acceso, e si sta’ sviluppando un crescente contenzioso; del resto non poteva essere diversamente, data la gravità della situazione economica venutasi a creare per effetto dello shock pandemico e la rilevanza dei suoi riflessi sul mondo imprenditoriale.

La Relazione della Cassazione si rivolge in generale a tutti contratti aziendali, ma incentra l’attenzione in particolare sui contratti di locazione commerciale. Si tratta, inutile sottolinearlo, di un ambito di grande rilevanza nello svolgimento delle attività d’impresa – sul quale ci siamo più volte soffermati (Contratti di locazione commerciale: come rinegoziare il canone ai tempi del Coronavirus e Coronavirus: è possibile interrompere il pagamento del canone dei contratti di locazione e affitto d’azienda, per le attività sospese?) – e non a caso proprio i contratti di locazione commerciale sono stati oggetto delle prime pronunce giurisprudenziali che sono state emesse, in via per adesso solo cautelare, in questi convulsi mesi post-epidemici.

Pur non avendo un valore di sentenza, la Relazione della Cassazione è molto importante, in quanto fornisce un indirizzo per molti aspetti innovativo, che costituirà un punto di riferimento ben preciso per tutti gli operatori, compresi i giudici.

Guarda anche la nostra sezione dedicata alla Contrattualistica d’Impresa per le PMI.

2. Il quadro generale: le misure emergenziali

Come è ormai ben noto, le misure straordinarie adottate – dal Governo e dalle Regioni – per il contenimento dell’epidemia da Covid-19 (sul punto: Epidemia Coronavirus: quali attività industriali sono sospese e quali proseguono ai sensi del DPCM 22 marzo 2020 e Emergenza Coronavirus: quali attività commerciali sono sospese, quali proseguono, ai sensi del DPCM 11 marzo 2020) hanno avuto e stanno tuttora avendo un enorme impatto sulle attività di impresa, ed in particolare su quelle (assai numerose) direttamente colpite dalla temporanea (ma molto significativa) sospensione delle attività commerciali e industriali.

Ma le conseguenze dello tsunami epidemico sono purtroppo destinate a incidere ben oltre il periodo di sospensione forzata disposto ex lege nella primavera scorsa, per effetto della sensibile e generale flessione dei consumi che ne è scaturita e del conseguente decremento di redditività subìto da molte imprese, anche per effetto dei maggiori costi e delle limitazioni operative derivanti dall’adozione delle misure di sicurezza che le stesse sono tenute ad adottare (si pensi, per fare un semplice esempio, alla riduzione dei coperti negli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande per effetto delle misure di distanziamento sociale).

A fronte di tale drammatica situazione, la risposta del legislatore dell’emergenza è stata parziale ed insoddisfacente.

Al di là delle agevolazioni fiscali previste dall’art. 65 del DL n. 18 del 17 marzo 2020 (cd. Decreto “Cura Italia”), reiterate ed estese dall’art. 28 del DL del 19 maggio 2020, n. 34 (cd. “Decreto Rilancio”), il legislatore emergenziale non è infatti intervenuto con misure aventi ad oggetto rideterminazione del quantum delle obbligazioni incise dall’evento pandemico, se si eccettua la norma di cui all’art. art. 216, comma 3 del Decreto Rilancio, che ha previsto una riduzione dei canoni locatizi per soli conduttori di impianti sportivi privati.

Né, d’altra parte, appare certo risolutiva la norma – di applicazione generale – di cui all’art. 91 del Decreto “Cura Italia”, che, introducendo il comma 6-bis nell’art. 3 del DL 23 febbraio 2020 n. 6, ha previsto che “il rispetto delle misure di contenimento è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Come infatti affermato anche dalla Relazione della Cassazione, tale norma, oltre a presentarsi di assai incerta interpretazione, data l’infelice formulazione, risulta sostanzialmente inapplicabile nei casi in cui le imprese sono tenute all’adempimento di obbligazioni pecuniarie (quali appunto quelle consistenti nel pagamento del canone di locazione), non essendo configurabile in tal caso una impossibilità di adempiere (in virtù del noto brocardo “genus numquam perit”).

3. L’inadeguatezza dei tradizionali rimedi del Codice civile

La Relazione della Cassazione si sofferma quindi sui tradizionali rimedi previsti dal Codice civile, giungendo alla conclusione – del tutto condivisibile – che gli stessi risultano inadeguati a venire incontro alle concrete esigenze delle imprese.

Ciò in quanto tali rimedi – si pensi in particolare alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c., o per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1467 c.c. – pur astrattamente applicabili alla situazione attuale – atteso che l’evento pandemico rappresenta senz’altro una situazione imprevedibile e di portata tale da alterare l’equilibrio contrattuale – danno luogo allo scioglimento definitivo del contratto.

Viceversa, le imprese hanno generalmente l’interesse a mantenere in essere il rapporto contrattuale, rivedendone temporaneamente le condizioni – per quanto attiene in particolare alle condizioni di pagamento – in attesa che la fase emergenziale, e più in generale il periodo di crisi economico-finanziaria ad esso conseguente, cessino.

Sciogliere i contratti di locazione per effetto della situazione di emergenza economico-finanziaria cerata dal virus pandemico e dalle misure di contenimento dello stesso, significa sostanzialmente, come afferma efficacemente la Relazione, “fare terra bruciata delle relazioni d’impresa”, e quindi favorendo la dispersione aziendale e la desertificazione del tessuto produttivo. Ma non è certo questo ciò di cui hanno bisogno gli imprenditori, in questo difficile periodo.

4. Locazioni commerciali e Covid-19: il dovere di rinegoziazione

In questo quadro, la strada maestra per riequilibrare le prestazioni contrattuali intaccate dall’evento epidemico è la rinegoziazione delle condizioni contrattuali. Ma questa strada non può essere affidata solo al dispiegarsi dell’autonomia privata, dato che locatore e conduttore hanno interessi contrapposti, e che il primo generalmente si trova in una posizione di maggior forza contrattuale.

Sorge quindi la domanda: esiste il diritto dei conduttori di immobili commerciali – e il relativo obbligo in capo ai locatori – a fronte dell’a sopravvenienza epidemica di rinegoziare i canoni originariamente previsti? In altri termini: è configurabile una rinegoziazione obbligatoria dei rapporti contrattuali interessati dall’impatto dell’epidemia Coronavirus?

Su questo tema si è articolato un acceso dibattito, che ha visto la dottrina schierarsi su due tesi contrapposte. La giurisprudenza in questi mesi si è pronunciata in modo favorevole, ma in modo isolato e approssimativo, anche perché finora solo nell’ambito di procedure cautelari, come nel caso della pronuncia del Tribunale di Bologna che abbiamo analizzato (Locazione commerciale e Covid-19: il Tribunale di Bologna concede l’inibitoria all’incasso dei titoli in garanzia del pagamento del canone).

Nella Relazione, la Cassazione afferma decisamente l’esistenza di un vero e proprio obbligo giuridico della parte avvantaggiata dalla sopravvenienza epidemica – in questo caso il locatore – a rinegoziare il contenuto del contratto – in particolare l’ammontare del canone – in modo da mantenere in essere il contratto, a condizioni diverse. Tale obbligo deriva dal principio di buona fede oggettiva in fase di esecuzione del contratto, ai sensi dell’art. 1375 c.c., che ha valore di ordine pubblico e che a sua volta si collega al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.

Dunque, qualora le prestazioni contrattuali siano divenute squilibrate per effetto di un evento esterno incontrollabile – quale è stato sicuramente il Coronavirus – le parti devono rinegoziare il contenuto del contratto, in modo da adeguarlo alle mutate circostanze. Ma cosa significa rinegoziare?

La Relazione evidenzia correttamente che è configurabile un obbligo di risultato, ovvero un obbligo di concludere in modo positivo le trattative in modo da raggiungere un contratto modificativo del precedente; ciò in quanto non può certo essere chiesto ad un contraente “di acconsentire ad ogni pretesa della parte svantaggiata o di addivenire in ogni caso alla conclusione del contratto”, fino al punto di “subire un apprezzabile sacrificio, personale o economico”.

Il dovere di cooperazione del contraente avvantaggiato dalla sopravvenienza implica invece che lo stesso deve iniziare la trattativa e condurla in buona fede, proponendo “soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell’economia del contratto”, con atteggiamento costruttivo e non ostruzionistico.

Se invece la parte – in questo caso il proprietario dei locali – si rifiuti di intavolare le trattative, oppure, pur iniziandole, le svolga in modo “malizioso”, senza cioè una seria intenzione di addivenire alla modifica del contratto originario, si rende inadempiente nei confronti dell’altra parte.

5. L’inadempimento del dovere di rinegoziazione

Ma cosa accade se tale dovere di rinegoziazione non viene adempiuto? Cosa accade quindi se il locatore, di fronte alla richiesta del conduttore di rivedere l’importo del canone, si rifiuta di prendere in considerazione tale richiesta, oppure intraprende una trattativa non seria, di mera facciata, facendo dunque fallire la trattativa stessa?

Anche su questo punto – delicatissimo e di centrale importanza – la Cassazione svolge considerazioni molto importanti e condivisibili.

Secondo la Relazione, in tal caso il contraente svantaggiato – quindi nel nostro caso il conduttore – non ha a disposizione solo il rimedio del risarcimento del danno – che è insufficiente in quanto inidoneo ed assecondare le esigenze di prosecuzione del rapporto contrattuale – ma può adire il giudice, ai sensi dell’art. 2932 c.c., per ottenere una sentenza costitutiva dell’obbligo di rinegoziare. In tal modo, e per l’effetto, il giudice può sostituirsi alla parte inadempiente, rimodulando con sentenza il contenuto del contratto originario.

Pertanto, il Giudice dovrà verificare se la richiesta del conduttore – verosimilmente di riduzione del canone – sia equa, ovvero proporzionata al mancato godimento dei locali nel periodo di chiusura forzata dell’attività e/o al calo di fatturato e ai maggiori costi da sostenere; in ultima analisi, se tale richiesta sia parametrata all’effettiva entità del pregiudizio effettivamente subìto dal conduttore, e/o all’effettivo calo di introiti e alle maggiori spese dallo stesso sostenute per effetto dell’emergenza pandemica, e decidere di conseguenza.

Ciò è tuttavia consentito al giudice, ad avviso della Relazione, solo se “sia possibile, nel caso di specie, predeterminare l’esito puntuale cui sono finalizzate le trattative”. In altri termini, secondo la Cassazione, il giudice può individuare le nuove condizioni contrattuali, determinando con sentenza l’accordo di rinegoziazione non raggiunto dalle parti, solo qualora i criteri per l’intervento del giudice siano rinvenibili nel contratto originario, cioè siano stati individuati e forniti dalle parti stesse, nel testo originario del contratto, o comunque emergano dalla successiva fase di trattativa, non andata a buon fine.

Solo in tal caso, infatti, al giudice è consentito, ad avviso della Relazione, operare sul contratto, modificandone i termini in modo da riequilibrarne la prestazione alterata dagli effetti della pandemia, tenuto conto delle specificità di ogni singola fattispecie concreta.

Sotto questo profilo, a nostro avviso la Relazione la riflessione della Cassazione – fin qui esemplarmente argomentata – risulta eccessivamente sintetica, e, conseguentemente, insufficiente.

E’ chiaro che il ruolo del Giudice a fronte della rinegoziazione non effettuata o fallita costituisce un aspetto molto delicato e problematico. E’ altresì evidente che il giudice deve disporre di parametri e linee guida sufficientemente chiarie precisi per procedere alla rideterminazione del contenuto contrattuale, onde evitare che la sua discrezionalità sfoci nell’arbitrio.

Tuttavia, limitare la possibilità del giudice di rimodulare il canone di locazione all’ipotesi in cui le parti abbiano già previsto parametri precisi, significa assegnare al giudice un margine d’intervento in chiave di rideterminazione del contenuto contrattuale squilibrato dall’evento pandemico troppo ristretto, che rischia di privare di tutela gran parte dei contraenti colpiti dal drammatico evento; contraenti ai quali non resterà, in virtù delle considerazioni già svolte, che l’alternativa della caducazione del rapporto contrattuale, con le conseguenti inevitabili ricadute sul tessuto produttivo.

Dovrebbe invece essere consentito al Giudice, allo scopo di calcolare l’incidenza effettiva dell’impossibilità di utilizzo del bene nell’economia del singolo rapporto contrattuale e di pervenire ad una rideterminazione equilibrata del canone, di valutare anche tutta una serie di elementi non considerati dalle parti nell’ambito del contratto originario e/o della successiva contrattazione fallita, quali ad esempio bilanci, dichiarazione dei redditi, analisi di mercato, etc. E’ evidente che, per tale via, l’intervento del giudice si fa vieppiù complesso, in rapporto alle specificità del caso concreto; ma si tratta di una conseguenza inevitabile, se si vuole che il ruolo del giudice abbia una effettiva rilevanza.

6. Conclusioni

L’intervento dell’Ufficio del Massimario della Cassazione è molto importante, in quanto spazza via tutte le perplessità e ritrosie da parte della dottrina e della giurisprudenza circa l’esistenza di un dovere delle parti di rinegoziare, in base al principio di buona fede, i termini di un contratto di durata divenuto squilibrato per effetto del verificarsi di una sopravvenienza, quale quella pandemica.

All’affermazione di tale importante principio non è, tuttavia, seguita – forse anche a causa dei limiti della tipologia di intervento dell’Ufficio del Massimario – una riflessione sufficientemente approfondita circa l’ambito e i termini dell’intervento dell’autorità giudiziaria in caso di fallimento della rinegoziazione. Ambito e termini che sono, dunque, rimessi a successivi sviluppi in ambito giurisprudenziale.

In attesa che la giurisprudenza raggiunga esiti interpretativi sufficientemente consolidati, è auspicabile, come già da più parti sottolineato, un serio intervento legislativo che, che, preso atto della contingenza epidemica, da un lato incentivi gli accordi bonari tra le parti – anche sotto il profilo fiscale e degli adempimenti connessi – e dall’altro stabilisca parametri certi e chiari per l’intervento giurisdizionale in chiave modificativa dell’originario contenuto contrattuale.

In attesa di tale intervento, un ruolo molto rilevante spetta senz’altro agli organismi di mediazione – tenuto conto che, tra l’altro, la materia locatizia rientra tra quelle in cui l’esperimento del tentativo di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ai sensi del D.Lgs. n. 28/2010, tanto più alla luce di quanto previsto dal recente art. 3 D.L. n. 60/2020 a proposito delle controversie collegate alle misure di contenimento dell’epidemia da Covid-19 – e, in ultima analisi, agli avvocati, sui quali grava il delicato compito di suggerire alle parti assistite un equo componimento dei diversi interessi in gioco.

 

 

Avv. Valerio Pandolfini

Avvocato Recupero Crediti

 

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Le informazioni contenute nel presente articolo hanno carattere generale e non sono da considerarsi un esame esaustivo né intendono esprimere un parere o fornire una consulenza di natura legale. Le considerazioni e opinioni di seguito riportate  non prescindono dalla necessità di ottenere pareri specifici con riguardo alle singole fattispecie descritte. Di conseguenza, il presente articolo non costituisce un(né può essere altrimenti interpretato quale) parere legale, né può in  alcun modo considerarsi come sostitutivo  di una consulenza legale specifica.

Tags: Contratti Commerciali, Coronavirus
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