Gli amministratori nella S.r.l.: assetto, funzionamento, nomina, delibere, conflitto di interessi, compenso, cessazione
Le norme del Codice civile in tema di amministratori S.r.l. sono alquanto laconiche, lasciando così spazio all’applicazione analogica delle norme sulle S.p.A. e soprattutto all’autonomia dello statuto, che nella prassi prevede generalmente disposizioni dettagliate con riferimento a funzionamento, nomina, eleggibilità, decadenza, onorabilità e professionalità, cessazione e compenso degli amministratori di S.r.l. Analizziamo in sintesi le regole più rilevanti in materia.
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1. L’organo amministrativo nelle S.r.l.
1.1. La struttura dell’ organo amministrativo
Ai sensi dell’art. 2475 c.c, le S.r.l. possono essere amministrate da:
- da un organo monocratico (amministratore unico);
- da un organo pluripersonale di natura collegiale (consiglio di amministrazione, CdA);
- da un organo pluripersonale, i cui membri però non agiscono collegialmente.
Quando l’amministrazione della S.r.l. è affidata a più soggetti, questi costituiscono il CdA; dalla nomina di una pluralità di amministratori discende, dunque, la loro collegialità, salvo diverse previsioni dello statuto.
L’atto costitutivo può, peraltro, prevedere che l’amministrazione sia ad essi affidata disgiuntamente (art. 2257 c.c.) oppure congiuntamente (art. 2258 c.c.).
Secondo il sistema di amministrazione disgiunta, le decisioni gestorie spettano a ciascuno di coloro che sono a tributari delle funzioni amministrative, senza che occorra il consenso di altri; secondo invece il modello di amministrazione congiunta, le decisioni devono essere assunte congiuntamente tra alcuni solo di coloro che hanno la veste di amministratori oppure tra tutti coloro che sono nominati alla carica di amministratori della società.
In caso di amministrazione disgiunta, gli amministratori hanno un diritto di opposizione (articolo 2257, comma 2 c.c.) rispetto alle decisioni che un altro amministratore intenda assumere, prima che l’operazione sia compiuta; in tal caso, occorre che lo statuto precisi se questa opposizione è decisa dai soci (nel qual caso la maggioranza richiesta evidentemente si forma sommando le rispettive quote di partecipazioni agli utili) oppure dagli amministratori (nel qual caso la maggioranza richiesta si forma per teste).
In caso di amministrazione congiunta, in caso di urgenza, a ciascun amministratore spetta comunque di agire per evitare un danno alla società (art. 2258, ultimo comma c.c.), a meno che una conseguenza del genere sia esclusa dallo statuto.
Spesso nella prassi sono adottate varie commistioni tra i due modelli di amministrazione congiunta e disgiunta; ad esempio, si può adottare l’amministrazione disgiunta per le materie di ordinaria amministrazione (che attengono all’attuazione dell’oggetto sociale) e l’amministrazione congiunta per le materie di straordinaria amministrazione (cioè le decisioni strutturali e/o quelle di maggior valore). Lo statuto può altresì contaminare i vari modelli di amministrazione, prevedendo che alcune materie siano devolute alla competenza del CdA o di singoli amministratori, e prevedendo, in quest’ultimo caso, la necessità o meno del loro operare congiunto o disgiunto.
1.2 Il funzionamento del CdA: a) il metodo collegiale
Quando l’organo amministrativo opera in modo collegiale, le decisioni vengono adottate non in via individuale da parte di ciascun soggetto amministratore (seppur in via congiunta con altri amministratori), ma a seguito di un confronto tra le idee e le opinioni di ciascuno, nel corso di apposite riunioni fisiche (consigli). In altri termini, collegialità significa che i membri del CdA:
- vengono convocati con preavviso (in modo da potersi adeguatamente preparare alla discussione) in un certo luogo e in una certa ora, per discutere su un certo ordine del giorno;
- in quel contesto assistono a un’esposizione delle tematiche oggetto di discussione da parte di un amministratore, il quale si fa carico di illustrare agli altri i problemi che occorre affrontare;
- discutono circa i vari aspetti delle soluzioni da adottare, e, una volta formatisi un convincimento a seguito della discussione, votano per la soluzione che appare più consona, e che verrà adottata a seguito della maggioranza dei consensi.
Il Codice civile, peraltro, nulla dispone in merito al funzionamento del CdA nelle S.r.l.. Se tale aspetto non è espressamente disciplinato nell’atto costitutivo, si applica analogicamente l’art. 2388 c.c. in tema di S.p.A.. Pertanto:
- il CdA è validamente costituito con la presenza della maggioranza degli amministratori in carica (inclusi gli amministratori in conflitto di interesse), qualora lo statuto non preveda un numero maggiore (o minore) di presenti;
- le deliberazioni del CdA sono prese, salvo diversa disposizione statutaria, a maggioranza assoluta dei presenti e non dei votanti, per cui nel quorum deliberativo sono conteggiati anche gli astenuti; tale quorum può essere derogato dallo statuto sia in aumento che in diminuzione;
- in caso di irregolare convocazione (ad es. per mancato rispetto dei termiti statutari) la giurisprudenza ritiene valida la deliberazione consigliare, purché alla stessa partecipi la maggioranza degli amministratori; la mancata convocazione comporta tuttavia l’ annullabilità della deliberazione, salvo che si tratti di riunione totalitaria;
- è ammissibile un CdA costituito da due membri, nonché la clausola secondo cui, nel caso di voti bilanciati, prevale il voto del presidente;
- salvo il caso del conflitto di interesse (che tuttavia attiene all’amministrazione e non alla rappresentanza) si applica l’art. 2388, comma 4, c.c. in tema di invalidità delle deliberazioni e loro impugnabilità.
La redazione del verbale, pur avendo una mera funzione certificatoria (dichiarazione di scienza), è obbligatoria in quanto attraverso di essa si dimostra lo svolgimento di tutte le attività prescritte (convocazione del CdA, regolare costituzione, regolare discussione approvazione o bocciatura delle proposte e relative maggioranze). Il verbale è redatto e sottoscritto dal presidente e dal segretario che hanno provveduto alla sua redazione.
Il verbale deve indicare il luogo e la data della riunione, l’ordine del giorno, il nome dei presenti, le singole manifestazioni di voto e il risultato della votazione. È consentito che nel verbale i singoli interventi siano non completamente trascritti ma riportati per riassunto, a condizione che gli stessi siano pertinenti all’ordine del giorno.
Come per le assemblee, il verbale dei CdA deve inoltre essere analitico e deve indicare il nome dei votanti e le relative posizioni; ciò è finalizzato anche a valutare i soggetti che hanno diritto alla impugnazione, gli eventuali conflitti di interesse e, soprattutto, le responsabilità che dalle decisioni del CdA possono generarsi. Per tale motivo non è ammesso nei CdA il cd. voto segreto.
Se stabilito in sede di nomina, il CdA può anche operare mediante consultazione scritta o consenso espresso per iscritto su qualsiasi supporto (cartaceo o magnetico) e con l’apposizione della sottoscrizione in forma originale o digitale. La trasmissione della consultazione e del consenso potrà avvenire con ogni sistema di comunicazione, ivi compresi il telefax e la posta elettronica.
1.3 Il funzionamento del CdA: b) il metodo non collegiale
L’atto costitutivo della S.r.l. può tuttavia prevedere che l’amministrazione della società sia affidata ad un organo amministrativo pluripersonale, i cui membri non agiscano collegialmente; fermo restando che, in ogni caso, per le decisioni concernenti l’approvazione del progetto di bilancio d’esercizio e del progetto di fusione e l’aumento di capitale sociale che sia stata demandata dall’assemblea all’organo amministrativo, la collegialità è imprescindibile.
In effetti, il metodo collegiale si addice ai casi in cui i membri del CdA non sono in frequente contatto tra di loro, sono tendenzialmente numerosi, e non vivono minuto per minuto la realtà aziendale; al di fuori di tali casi, qualora – come spesso accade nelle S.r.l., caratterizzate da un carattere spiccatamente personalistico – il CdA è composto da pochi soggetti, che lavorano fianco a fianco tutti i giorni, si conoscano perfettamente e continuamente interagiscono tra di loro, la seduta collegiale che si rivela inutile.
Lo statuto può quindi consentire che il CdA operi, anziché in modo collegiale (cioè con la contemporanea presenza fisica dei suoi membri, nel medesimo contesto spaziale oppure in collegamento audio-video), in modo che ogni membro assuma la propria decisione in un contesto di spazio-temporale diverso dal contesto in cui assumono la propria decisione gli altri membri.
In tal caso, dunque, ogni componente del CdA assume la propria decisione non in una sfera di collegialità ma nell’ambito della sua personale sfera individuale, facendola pervenire alla società; l’insieme di tali decisioni individualmente assunte diviene poi deliberazione del CdA, qualora esse siano in numero tale da integrare il quorum prescritto.
Tale procedura decisionale individuale si può articolare, secondo una duplice modalità:
- la consultazione scritta;
- il consenso espresso per iscritto.
In entrambi casi, dai documenti sottoscritti dagli amministratori devono risultare con chiarezza l’argomento oggetto della decisione e il consenso alla stessa (art. 2475 comma 4 c.c.), non avendo alcun rilievo l’atteggiamento silente o comportamenti concludenti. I due sistemi, tuttavia, differiscono per le modalità con cui l’espressione della decisione viene sollecitata al membro del CdA.
Nel caso della consultazione scritta, uno dei componenti del CdA (generalmente il presidente) effettua una sorta di consultazione tra tutti gli altri componenti per verificarne il consenso rispetto all’assunzione di una data decisione; le decisioni scritte dei singoli amministratori vengono raccolte entro un dato termine, e si constata se si sia formato il consenso di un numero di consiglieri tale da integrare la maggioranza richiesta dallo statuto per l’assunzione delle deliberazioni da parte dell’organo amministrativo.
Nel caso invece del consenso espresso per iscritto, si prescinde da una preventiva consultazione; ogni amministratore formula la propria decisione scritta su una data problematica, e la somma delle decisioni individuali diviene la decisione dell’organo, se sufficienti per statuto a formare il quorum necessario. La decisione così formatasi “in via remota” deve essere comunicata a tutti gli amministratori (sia che abbiano concorso all’assunzione della decisione collettiva con decisione individuale di contenuto favorevole o contrario, sia che siano “astenuti” non mettendo per iscritto o non comunicando alla società alcuna loro volontà) e della procedura seguita e del contenuto della decisione assunta si deve fare verbalizzazione sull’apposito libro delle decisioni degli amministratori (art. 2478, comma 1, n. 3 c.c.).
2. La rappresentanza degli amministratori
Gli amministratori hanno, per legge, il potere di gestione della società, cioè di occuparsi dell’esercizio dell’attività di impresa. Ad essi il comma 1 dell’art. 2475-bis c.c. attribuisce la rappresentanza generale della società, cioè il potere di agire nei confronti di terzi in nome della società stessa, dando luogo all’acquisto di diritti ed all’assunzione di obbligazioni da parte in capo alla società (rappresentanza sostanziale) nonché la capacità di stare in giudizio per la società (rappresentanza processuale).
Tutti gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società, ad eccezione delle limitazioni poste dall’atto costitutivo o dall’atto di nomina. Nel Registro delle imprese deve essere indicato a quali amministratori è conferita la rappresentanza generale della società, precisando se congiuntamente o disgiuntamente.
La società è vincolata dagli atti posti in essere dagli amministratori che hanno la rappresentanza della stessa, anche se tali atti travalicano l’oggetto sociale. Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2475-bis c.c., le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dall’atto costitutivo o dall’atto di nomina, anche se pubblicate nel Registro delle imprese, non sono opponibili a terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società. Tali limitazioni sono dunque opponibili ai terzi solo qualora la società dimostri che questi si siano accordati con l’amministratore per danneggiare la società. In ogni caso, in tali casi gli amministratori sono responsabili nei confronti della società.
Sono invece opponibile ai terzi i limiti legali del potere di rappresentanza degli amministratori; ad es., la società può chiedere l’annullamento del contratto concluso dall’amministratore in conflitto di interessi, qualora tale conflitto sia stato riconosciuto dal terzo (art. 2475-ter, comma 1 c.c.).
Si ritengono opponibili a terzi:
- la firma congiunta di uno o più amministratori per il compimento di alcuni atti;
- la necessità di preventiva autorizzazione del CdA per il compimento di determinati atti;
- la dissociazione del potere di rappresentanza da quello di gestione.
Diversa è la situazione della rappresentanza conferita con procura; in questo caso, infatti, qualora la procura sia stata depositata presso il Registro delle imprese, la società può sempre opporre ai terzi i limiti della rappresentanza (art. 2206,comma 2, c.c.).
3. La nomina degli amministratori di S.r.l.
Ai sensi dell’art. 2475 comma 1 c.c., salva diversa disposizione dell’atto costitutivo, l’amministrazione della S.r.l. è affidata ad uno o più soci nominati con decisione presa dall’assemblea (art. 2479 c.c.). Tale norma prevede quindi che:
- la nomina degli amministratori rientra tra le competenze dell’assemblea dei soci e non può essere delegata a terzi;
- l’amministrazione della società spetta, ove non sia diversamente previsto dall’atto costitutivo, a soggetti che contemporaneamente rivestono la qualità di soci.
Sotto quest’ultimo profilo, spesso gli statuti delle S.r.l. prevedono la presenza nell’organo amministrativo di soggetti diversi da coloro che sono iscritti nel libro dei soci.
L’atto costitutivo indica, di regola, il modello di amministrazione prescelto (mono personale o pluripersonale e, in quest’ultimo caso, se si tratta di organo collegiale o meno), il numero (se si tratta di organo amministrativo pluripersonale) e la nomina di colui/coloro a cui è affidata l’amministrazione della società.
L’atto costitutivo può altresì indicare una pluralità di modelli amministrativi (ad es. consiglio di amministrazione, amministratore unico, amministrazione congiunta o disgiunta) nonché la loro composizione (ad es. indicando un numero minimo e un numero massimo di componenti del CdA) nell’ambito dei quali ai soci, di regola, spetta di scegliere (in forma collegiale) quello che concretamente, volta per volta, si intende utilizzare.
Ad eccezione di quanto previsto per le società quotate, la normativa vigente non pone limitazioni per la nomina degli amministratori, fermo restando che, ai sensi dell’art. 2368 c.c., lo statuto può prevedere norme particolari per la nomina delle cariche sociali.
L’atto costitutivo può quindi prevedere che:
- gli amministratori siano nominati dai soci in sede extra-assembleare;
- la delibera di nomina debba essere assunta con quorum particolari (ad es. all’unaminità o a scrutinio segreto);
- uno o più amministratori vengano nominati da un socio particolare o da gruppi di soci.
In ordine alla ineleggibilità, decadenza, onorabilità e professionalità degli amministratori di S.r.l., il Codice civile nulla dispone. Le nomine degli amministratori di S.r.l. non sono quindi soggette a causa di ineleggibilità (o di decadenza), e non appaiono applicabili per analogia le regole dettate per la S.p.A. dall’art. 2382 c.c. (per il quale non può essere nominato amministratore, e si nominato decade dal suo ufficio, l’interdetto, l’inabilitato, il fallito o chi è stato condannato a una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l’incapacità a esercitare uffici direttivi).
Cause di ineleggibilità e decadenza, uguali o diverse da quelle dettate previste per la S.p.A., possono essere tuttavia introdotte dallo statuto, il quale può altresì prevedere requisiti di onorabilità e professionalità ed indipendenza, eventualmente anche con riferimento a previsioni di codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati. In questo caso l’inosservanza delle previsioni statuarie comporta la decadenza della carica, ai sensi dell’art. 2382 c.c.
Il numero dei componenti del CdA è stabilito dallo statuto, il quale può anche indicare soltanto un numero massimo e minimo di componenti: in questo caso la determinazione del numero dei componenti spetta all’assemblea (art. 2380-bis c.c.). Lo statuto può prevedere la nomina di un numero pari di consiglieri, accordando prevalenza al voto del presidente allo scopo di evitare possibili stalli decisionali; qualora sia prevista la nomina di due consiglieri, la decisione dovrà essere assunta necessariamente con il voto favorevole di entrambi i consiglieri.
Si ritiene che una s.r.l. possa essere amministrata anche da una società di capitali, purché:
- l’amministratore persona giuridica designi a sua volta, per l’esercizio della funzione di amministratore, un rappresentante persona fisica appartenente alla propria organizzazione, il quale assume gli stessi obblighi e le stesse responsabilità civili e penali previsti a carico degli amministratori persone fisiche, ferma restando la responsabilità solidale della persona giuridica amministratore;
- le formalità pubblicitarie relative alla nomina dell’amministratore siano seguite sia nei confronti dell’amministratore persona giuridica che nei confronti della persona fisica da essa designata.
La struttura dell’organo amministrativo è uno degli elementi alla luce dei quali valutare gli assetti amministrativi della società: la dimensione ottimale del CdA dovrebbe quindi essere determinata secondo un principio di proporzionalità, che consenta di adattare il numero dei componenti alla realtà, alle esigenze, al settore e alla distribuzione delle partecipazioni della società.
Ai sensi dell’art. 2475, comma 2, c.c., entro trenta giorni dalla notizia della loro nomina (e non dalla loro accettazione), gli amministratori devono chiederne l’iscrizione nel registro delle imprese, indicando per ciascuno di essi il cognome ed il nome, il luogo e data di nascita, il domicilio e la cittadinanza, nonché a quali dea essi è attribuita la rappresentanza della società, precisando se disgiuntamente o congiuntamente.
Se gli amministratori omettono tali indicazioni, essi sono assoggettati individualmente alle sanzioni amministrative previste dal comma 1 dell’art. 2630 c.c (da 206 a 2065 Euro). Nelle Srl dotate di collegio sindacale, in caso di omissione degli amministratori l’adempimento pubblicitario, spetta ai sindaci.
Se l’amministratore è altresì rappresentante della società, egli deve comunicare ai sensi dell’art. 35, comma 3, DPR n. 633/72, entro 30 giorni dalla propria nomina, all’Agenzia delle Entrate il proprio codice fiscale.
La nomina è efficace dalla delibera dell’assemblea (o dei soci a ciò delegati), mentre l’iscrizione presso il registro delle imprese ha effetti dichiarativi. Pertanto:
- prima dell’iscrizione la nomina non è opponibile a terzi, salvo che la società dimostri che gli stessi ne fossero in qualche modo a conoscenza (ad es. attraverso la notifica agli stessi della delibera di nomina);
- dopo l’iscrizione, eventuali cause di invalidità della nomina degli amministratori che abbiano la rappresentanza della società non possono esser fatte valere nei confronti di terzi che vi abbiano in buona fede confidato; questi non possono quindi opporre alla società la loro ignoranza, mentre spetta alla società l’onere d provare la mala fede dei terzi in merito alla conoscenza dei vizi.
4. Il rapporto fra amministratore e società
Ad avviso della giurisprudenza prevalente (Cass. Sez. Un. n. 1545/2017), gli amministratori sono legati alla società da un rapporto un rapporto di natura non contrattuale (e quindi non di lavoro parasubordinato o subordinato), ma societario, definito di c.c. di immedesimazione organica, che trova la sua fonte regolamentare negli atti societari tipici (statuto, delibera assembleare).
Nulla vieta, peraltro, che il rapporto tra amministratore e società sia disciplinato anche da un vero e proprio contratto, ad esempio un c.d. accordo di management, avente ad oggetto la prestazione dell’attività amministrativa e le pattuizioni di dettaglio inerenti agli obblighi applicabili durante il rapporto amministrativo nonché al cessare della carica.
Qualora tuttavia l’amministratore svolga, oltre ai compiti connessi con la funzione (partecipazione al CDA, alle delibere, alle decisioni strategiche), anche attività operativa per la società, si viene contemporaneamente a costituire in capo al medesimo soggetto anche un rapporto di lavoro. In proposito, si ritiene che lo stesso soggetto possa cumulare l’incarico di amministratore di società e di lavoratore subordinato, qualora si possano ravvisare gli indici della subordinazione, ossia l’assoggettamento, nonostante la carica sociale, al potere direttivo, organizzativo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società.
In particolare, l’amministratore di una S.r.l. può essere assunto dalla società con contratto di lavoro subordinato purché ricorrano le seguenti condizioni (da accertare nel singolo caso concreto):
- il potere deliberativo (come regolato dall’atto costitutivo e dallo statuto), diretto a formare la volontà dell’ente, deve essere affidato all’organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso e/o ad un altro organo sociale espressione della volontà imprenditoriale, il quale esplichi un potere esterno;
- l’amministratore deve essere assoggettato, nonostante la carica sociale, all’effettivo potere di supremazia gerarchica (potere direttivo, organizzativo, disciplinare, di vigilanza e di controllo) di un altro soggetto ovvero degli altri componenti dell’organismo sociale a cui appartiene;
- l’amministratore deve svolgere, in concreto, mansioni estranee al rapporto organico con la società; in particolare, deve trattarsi di attività che non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe che gli siano state conferite.
Si ritiene che la carica di Presidente del CdA non sia, in sé, incompatibile con lo status di lavoratore subordinato, in quanto anche il Presidente, come qualsiasi membro del CdA, può essere soggetto a direttive, decisioni e controlli dell’organo collegiale, anche qualora allo stesso venga conferito il potere di rappresentanza, in quanto ciò non comporta automaticamente il riconoscimento di poteri deliberativi. Del resto, ai sensi dell’art. 2381 c.c. al Presidente del CdA non spettano poteri amministrativi, bensì di:
- convocazione del CdA;
- fissazione dell’ordine del giorno;
- coordinamento dei lavori;
- fornire informazioni adeguate ai consiglieri in merito alle materie iscritte nell’ordine del giorno.
Tale compatibilità può tuttavia venir meno se, conformemente a quanto previsto dallo statuto della società, il CdA deleghi proprie attribuzioni al Presidente.
La carica di amministratore unico è invece incompatibile con un rapporto di lavoro subordinato con la società, in quanto esso esprime da solo la volontà della società come anche i poteri di controllo, comando e disciplina; in tal caso, pertanto, non vi è distinzione tra la posizione di lavoratore in qualità di organo direttivo della società ed esecutore di prestazioni lavorative personali. In altri termini, l’amministratore unico, in presenza anche di un rapporto di lavoro subordinato con la società dal medesimo gestita, diviene di fatto datore di lavoro di sé stesso.
Per quanto concerne l’amministratore delegato, la compatibilità tra tale carica e lo status di lavoratore subordinato dipende da quanto previsto nella delega conferita dal CdA. Se infatti l’amministratore delegato è munito di delega generale (con facoltà di agire senza consenso del CdA), la sua carica è incompatibile con un rapporto di lavoro subordinato, non sussistendo il presupposto dell’eterodirezione, necessario per configurare un rapporto di lavoro subordinato.
Se invece all’amministratore vengono attribuite deleghe specifiche e limitate, e/o un mero potere di rappresentanza, lo stesso può intrattenere con la medesima società un rapporto di lavoro subordinato; al fine della valutazione della compatibilità in esame, occorre peraltro valutare i rapporti tra l’organo delegato e il CdA, il numero degli amministratori delegati e la facoltà di azione congiunta o disgiunta dei delegati.
5. L’impugnazione delle delibere del CdA
Ai sensi dell’art. 2388 c.c., le delibere del CdA che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate solo dal collegio sindacale e dagli amministratori assenti o dissenzienti entro 90 giorni dalla data della delibera. In ogni caso, sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione delle deliberazioni.
La norma prevede quindi una disciplina piuttosto restrittiva circa l’impugnabilità delle delibere consiliari, sia dal punto di vista soggettivo che dal punto di vista oggettivo, in ossequio alle esigenze di stabilità degli atti societari. In particolare, è esclusa in linea generale la legittimazione dei terzi ad impugnare le delibere consiliari, in quanto esse non producono generalmente effetti diretti per i terzi; gli effetti esterni sono, infatti, solitamente determinati da atti compiuti in esecuzione delle delibere del CdA.
Con riferimento alla legittimazione degli amministratori ad impugnare non è necessario che l’amministratore mantenga tale carica per tutta la durata del procedimento; è infatti legittimato anche l’amministratore la cui carica scada durante il procedimento o venga revocato dopo una determinata deliberazione. Essenziale è solo la permanenza dell’interesse ad agire in capo all’amministratore, che potrà facilmente riconoscersi nell’intento di evitare un’azione di responsabilità sociale.
Tuttavia, qualora le delibere consiliari siano lesive dei diritti dei soci, ai sensi dell’art. 2388, comma 4 c.c., questi sono legittimati all’impugnazione; in tal caso, il termine di 90 giorni non decorre dalla data della delibera, né dalla data dell’iscrizione della stessa nel libro delle adunanze – in quanto i soci non sono necessariamente a conoscenza delle delibere dell’organo amministrativo, né sono tenuti ad informarsi in merito alle stesse consultando il libro delle adunanze – bensì dall’iscrizione della delibera presso il Registro delle Imprese, ovvero dal giorno in cui il socio stesso abbia contezza della deliberazione consiliare. Diverso è il caso in cui il socio sia anche amministratore: in tale ipotesi, non sussiste infatti alcuna giustificazione idonea a garantirgli una estensione del termine di impugnazione oltre la data in cui la medesima delibera è stata adottata.
Una seconda fattispecie particolare è costituita dal caso in cui la delibera del CdA venga adottate in violazione delle disposizioni relative agli interessi degli amministratori, di cui all’art. 2391 c.c. (v. par. seguente [link]). In tal caso, la legittimazione ad impugnare la delibera spetta, ricorrendo determinate circostanze, anche agli amministratori che abbiano prestato il loro consenso, non avendo avuto però un quadro sufficientemente esaustivo dell’operazione ai fini del loro giudizio (si pensi ad esempio al caso in cui la violazione della disciplina in tema di interessi degli amministratori consista nel non aver l’amministratore interessato dato notizia alcuna dell’interesse o al caso in cui l’informazione fornita non fosse sufficientemente adeguata e completa).
La finalità della decorrenza del termine di 90 giorni per impugnare deriva dal fatto che sugli amministratori e sui sindaci (cioè, i soggetti legittimati ad impugnare le delibere) incombe il dovere di partecipare alle adunanze del CdA, nonché il dovere di agire in modo informato. La coincidenza tra il dies a quo e la data della deliberazione, senza che rilevi la data di verbalizzazione, trova giustificazione anche nel principio di stabilità: posticipare il decorso del termine di impugnazione della delibera avrebbe infatti il solo effetto di lasciare in sospeso l’effettiva stabilità della deliberazione consiliare per un periodo di tempo troppo lungo.
Il procedimento di impugnazione delle delibere consiliari invalide è regolato in maniera sostanzialmente analoga a quella delle delibere assembleari, in virtù del rinvio espresso all’art. 2378 c.c.
Dalla dichiarazione di invalidità di una deliberazione dell’organo amministrativo discende:
- l’obbligo degli amministratori di prendere i provvedimenti conseguenti;
- la salvezza dei diritti acquisiti dai terzi in buona fede, in base ad atti compiuti in esecuzione di una delibera consiliare impugnata e dichiarata invalida o di una delibera impugnata e poi sostituita prima della (eventuale) dichiarazione giudiziale di non conformità;
- l’estensione a tutti i soci degli effetti della dichiarazione di invalidità pronunciata dal giudice.
Si applica inoltre l’art. 2377, comma 8 c.c. secondo cui l’annullamento della deliberazione non può aver luogo se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto. La sostituzione, rilevante ai fini dell’improcedibilità dell’impugnazione e dell’estinzione del relativo procedimento, è esclusivamente quella in cui la nuova delibera faccia cessare tutti gli effetti giuridici di quella precedentemente assunta; pertanto, il procedimento non si estingue automaticamente, ma prosegue al fine di accertare la validità e l’idoneità della nuova delibera a far cessare integralmente gli effetti della precedente delibera sostituita.
In caso di invalidità della delibera consiliare gli amministratori può sussistere la responsabilità degli amministratori, ai sensi dell’art. 2395 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno.
6. Il conflitto di interessi degli amministratori
L’art. 2391 c.c. prevede che, nel caso in cui uno o più amministratori siano portatori, anche per conto di terzi, di un interesse in merito ad una determinata operazione della società, la delibera del CdA relativa a tale operazione societaria è validamente assunta solo allorché sussistano contemporaneamente tre condizioni:
- la notizia dell’interesse;
- la motivazione dell’interesse;
- il superamento della c.d. prova di resistenza.
La prima condizione consiste nell’obbligo dell’amministratore portatore di un interesse in una determinata operazione, per conto proprio o di terzi, di darne notizia agli altri amministratori ed al collegio sindacale. Ai fini dell’obbligo di disclosure, rileva ogni interesse di natura economica, morale o personale, e non solo l’interesse dell’amministratore in conflitto con quello della società. L’amministratore deve, inoltre, precisare la natura, i termini, l’origine e la portata dell’interesse di cui è portatore, in modo che gli altri amministratori e il collegio sindacale possano effettuarne una corretta valutazione.
La finalità della norma è infatti quella di assicurare la trasparenza, in modo da evitare l’adozione di delibere consiliari che non rispecchino pienamente l’interesse sociale. A tale scopo, viene previsto un meccanismo di tutela preventiva, per evitare che la situazione di conflitto dia corso all’azione in conflitto dell’organo amministrativo.
L’art. 2391, comma 1 c.c., prevede un obbligo ulteriore per il caso in cui portatore dell’interesse sia l’amministratore delegato: egli deve non solo dare notizia dell’interesse, ma anche astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale. Tale obbligo ulteriore dell’amministratore delegato riguarda un momento successivo a quello dell’adozione della delibera, cioè all’esecuzione della delibera stessa e, pertanto, non incide in alcun modo sulla validità della delibera collegiale.
In caso di inadempimento di tale previsione da parte del delegato, la giurisprudenza prevalente ritiene applicabile la disciplina generale in materia di rappresentanza (artt. 1394 – 1395 c.c.), analogamente a quanto affermato in relazione agli atti compiuti ultra vires dall’amministratore delegato, in assenza di una previa deliberazione del CdA. Pertanto, il contratto potrà essere annullato se conosciuto o riconoscibile dal terzo, mentre in caso di contratto con sé stesso è annullabile tranne il caso in cui il rappresentato lo abbia autorizzato specificatamente ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d’interessi.
A tal proposito, la giurisprudenza ha chiarito che gli artt. 1394 e 2391 c.c. si pongono in una relazione di reciproca esclusione, avendo ciascuno un proprio ambito di operatività. Si è evidenziato inoltre che, nel caso in cui il conflitto d’interesse emerga in fase deliberativa, la tutela offerta alla società può risultare minore, in concreto, rispetto all’ipotesi di contratto concluso dall’amministratore al di fuori di una deliberazione consiliare; infatti, qualora il CdA deliberi il compimento di una operazione in presenza di un conflitto d’interessi, tale operazione potrà essere annullata solo nel caso in cui sia stata impugnata e dichiarata non conforme la delibera consiliare sottostante e a condizione che sia provata la mala fede dei terzi coinvolti.
Affinché la delibera del CdA potenzialmente pregiudizievole sia valida occorra inoltre che la stessa motivi adeguatamente le ragioni e la convenienza dell’operazione per la società. Tale motivazione deve essere precisata scrupolosamente sia con riferimento al business della società, sia rispetto alla specifica operazione societaria. La delibera deve quindi chiarire, inequivocabilmente, che l’interesse dell’amministratore non ha influito in alcun modo sull’operazione.
L’obbligo di motivazione sussiste anche nel caso in cui la notizia fornita dall’amministratore non sia corretta o esauriente, in tal caso, tuttavia, l’inadeguatezza della notizia può facilmente ripercuotersi sulla motivazione, rendendola inidonea a giustificare il compimento dell’operazione. Infatti, la valutazione dell’interesse dell’amministratore, e del potenziale impatto negativo di esso sull’interesse della società, sarebbe inevitabilmente inficiata da una rappresentazione scorretta o incompleta dell’interesse dell’amministratore.
L’assenza o insufficienza della motivazione (come d’altronde l’assenza delle altre condizioni) rende impugnabile la delibera potenzialmente dannosa per la società. Il sindacato sulla motivazione della delibera non può naturalmente incidere sulle scelte puramente manageriali degli amministratori, ma dovrà aver ad oggetto la ragionevolezza ex ante della motivazione, nonché la sua adeguatezza rispetto alla fattispecie concreta (si faccia il caso, ad esempio, di clausole di stile preconfezionate che affermino apoditticamente l’opportunità e la convenienza dell’operazione).
Ai fini della validità della delibera, infine, è necessario che la stessa non sia stata assunta con il voto determinate dell’amministratore interessato (c.d. prova di resistenza). La finalità della previsione risiede nel principio di economicità dei procedimenti giudiziali, nonché nel contemperamento tra esigenze di tutela ed interesse alla stabilità degli atti societari.
7. Il compenso degli amministratori di S.r.l.
Diversamente dalle S.p.A., dove l’onerosità dell’incarico di amministratore è prevista dall’art.2389 c.c., per le S.r.l., mancando un’autonoma previsione legislativa, la remunerazione della carica degli amministratori è regolamentata dallo statuto o, in mancanza, da una specifica delibera societaria. In tale ultimo caso, l’approvazione dei compensi corrisposti agli amministratori, contestuale a quella del bilancio di esercizio, è legittima soltanto nel caso in cui l’assemblea vi abbia provveduto in modo espresso.
Gli amministratori non possono invece auto–determinarsi il proprio compenso; l’attribuzione agli amministratori del potere di decidere in ordine ai propri compensi li porrebbe infatti in antitesi nei confronti della società, spingendoli ad auto-assegnarsi emolumenti sproporzionati e riducendo le aspettative di utili dei soci di minoranza.
Qualora l’amministratore sia anche socio e, in questa sua seconda qualità, esprima il voto nella decisione dell’assemblea dei soci con la quale vengono determinati gli emolumenti degli amministratori, si trova in una situazione di conflitto di interessi; in tal caso pertanto la decisione, se assunta con la partecipazione determinante del socio-amministratore e suscettibile di recare danno alla società, è annullabile (art. 2479-ter comma 2 c.c.).
Il compenso degli amministratori può essere corrisposto integralmente in denaro ovvero solo in una sua parte. La componente in denaro può essere fissa e/o variabile, ossia parametrata al raggiungimento di determinati obiettivi o all’andamento di particolari indici economici di bilancio. Per quanto concerne i benefici in natura, questi consistono, ad esempio, nell’uso di beni aziendali per scopi privati, in gettoni di presenza o nella stipula di un’assicurazione per la responsabilità civile degli amministratori con premio pagato dalla società
L’art. 2389, comma 2, c.c. prevede altresì che il compenso possa essere costituito in tutto o in parte dalla partecipazione agli utili, da intendersi come utili netti risultanti dal bilancio d’esercizio, in assenza di diversa previsione espressa, o dall’attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato aumenti di capitale.
L’art. 2389, comma 3, c.c. prevede che la remunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche, in conformità dello statuto, è stabilita dal CdA, sentito eventualmente il parere del collegio sindacale. Il CdA può quindi prevedere delle remunerazioni aggiuntive, rispetto a quelle previste dall’assemblea o dallo statuto, a tali soggetti, per valorizzare il particolare impegno o la speciale professionalità dei membri con deleghe o degli appartenenti a particolari comitati interni, o anche del presidente e vicepresidente del CdA.
In presenza di compensi di fonte assembleare molto contenuti, la delibera del CdA può diventare il principale titolo giustificativo dei compensi degli amministratori, senza le garanzie di pubblicità della delibera assembleare. La discrezionalità del CdA sui compensi può essere tuttavia limitata dalla la possibilità che lo statuto preveda la facoltà dell’assemblea di determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche. Inoltre, gli amministratori hanno comunque l’obbligo di indicare, nella nota integrativa, l’ammontare cumulativo dei compensi (art. 2427, comma 1, n. 16 c.c.), salvo che il bilancio sia redatto in forma semplificata.
Una volta che l’assemblea ha riconosciuto all’amministratore il diritto a percepire un emolumento tale diritto, in quanto individuale, non è più eliminabile da parte della società e può venir meno o modificato soltanto con il consenso dell’amministratore.
L’amministratore può anche rinunciare al proprio compenso, purché tale rinuncia sia espressa (e non tacita). In particolare, la giurisprudenza ha ritenuto che la rinuncia al diritto di credito dell’amministratore non possa essere ravvisata nella mera inerzia dello stesso a richiedere il riconoscimento o il pagamento del compenso. Tale inerzia può determinare solo la prescrizione del diritto, secondo i termini ordinari prescritti dalla legge.
Lo statuto (o una delibera assembleare) può prevedere che l’incarico di amministratore sia gratuito. Ciò accade per lo più qualora vi sia perfetta coincidenza personale fra soci e amministratori della società, titolari della medesima percentuale di capitale sociale; in tal caso, i soci sono compensati con gli utili e possono rinunciare a ricevere un compenso ulteriore per l’attività svolta come amministratori.
In mancanza di diversa previsione statutaria, l’attività dell’amministratore si presume onerosa, essendo riconducibile al mandato, che si presume appunto oneroso (art. 1709 c.c.); pertanto, in mancanza di predeterminazione del compenso in via statutaria o assembleare, l’amministratore ha diritto alla determinazione giudiziale del proprio compenso.
La legge non detta criteri per la quantificazione del compenso spettante all’amministratore in assenza di una previa determinazione da parte dell’assemblea. In tal caso, la valutazione è rimessa alla discrezionalità del giudice, in base alle circostanze del caso (ad es., in base al parametro del fatturato della società, del numero di dipendenti e della redditività della società).
Peraltro, qualora l’amministratore abbia accettato la determinazione del proprio compenso decisa dall’assemblea, non può successivamente chiedere all’autorità giudiziaria un incremento del compenso stesso.
8. La durata dell’incarico degli amministratori
Mentre per le S.p.A. l’art. 2383, comma 2 c.c., prevede che gli amministratori non possano essere eletti per un periodo superiore a tre esercizi, il codice nulla prevede per gli amministratori di S.r.l.; pertanto, la durata della carica degli amministratori di S.r.l. deve essere stabilita dall’atto costitutivo, il quale può fissare una durata inferiore al triennio, pari o superiore ad esso, nonché a tempo indeterminato.
Qualora l’assemblea deliberasse una nomina per durata eccedente rispetto a quella dell’atto costitutivo, prevarrà quest’ultima, mentre nel caso in cui nulla fosse previsto nello statuto la nomina si intende a tempo indeterminato (che ovviamente coinciderebbe con la durata della società).
Lo statuto può altresì prevedere la possibilità o meno di rielezione degli amministratori dopo la scadenza del mandato; in assenza di previsione statutaria si ritiene che gli amministratori siano rieleggibili, essendo tra l’altro legittima la nomina a tempo indeterminato, o per l’intera durata della vita della società.
Anche in ordine alla sostituzione degli amministratori cessati dalla carica, in mancanza di previsioni dello statuto si ritiene applicabile in via analogica l’art. 2386 c.c. dettato per la S.p.A., secondo cui:
- se nel corso dell’esercizio vengano a mancare uno o più amministratori, gli altri devono provvedere a sostituirli (con deliberazione approvata, se esiste, dal collegio sindacale), purché la maggioranza sia sempre costituita da amministratori nominati dai soci (c.d. “cooptazione“ );
- gli amministratori restano in carica fino al più prossimo evento decisionale dei soci;
- se viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dai soci, quelli rimasti in carica devono provocare una decisione dei soci affinché gli stessi provvedano alla sostituzione dei mancanti;
- gli amministratori scadono insieme con quelli in carica all’atto della loro nomina;
- se vengono a cessare l’amministratore unico o tutti gli amministratori, la decisione dei soci concernente la nomina dell’amministratore o dell’intero organo amministrativo deve essere provocata d’urgenza dal collegio sindacale, il quale può compiere nel frattempo gli atti di ordinaria amministrazione; in assenza di collegio sindacale, dell’onere potrebbero alternativamente essere gravati l’amministratore unico o il presidente del CdA dimissionario oppure il membri dell’organo amministrativo o il socio più diligenti.
9. La clausola simul stabunt simul cadent
In base alla clausola statutaria simul stabunt simul cadent, il venir meno di un dato numero di amministratori determina la decadenza dell’intero organo amministrativo.
In tal caso:
- gli amministratori non rinuncianti rimangono in carica fino a quando l’organo amministrativo non si è ricostituito;
- gli amministratori rinuncianti cessano immediatamente fino a quando rimanga in carica la maggioranza degli amministratori, mentre le cessazioni per rinuncia successive sono efficaci dal momento in cui l’organo amministrativo si è ricostitutito.
L’art. 2386, comma 4 c.c., dettato per la S.p.A., e applicabile per analogia anche alla S.r.l., dispone che se lo statuto prevede tale clausola, l’assemblea per la nomina del nuovo CdA deve essere convocata d’urgenza dagli amministratori rimasti in carica.
La finalità della clausola simul stabunt simul cadent è di evitare che, a seguito della cessazione di alcuni consiglieri, la gestione della società sia attribuita ad un organo amministrativo che non rispecchi gli equilibri interni originariamente cristallizzati nella delibera assembleare di nomina.
Sebbene la clausola in esame non costituisca un’ipotesi di revoca dell’amministratore per giusta causa (visto che la cessazione dall’incarico consegue, automaticamente e semplicemente, alla cessazione di uno o più amministratori), l’amministratore revocato per effetto del meccanismo innescato dalla clausola simul stabunt simul cadent non ha, in generale, diritto al risarcimento del danno, a differenza di quanto previsto dall’art. 2383, comma 3, c.c. Infatti, gli amministratori, accettando l’incarico all’atto di nomina, esprimono anche la volontà di assoggettarsi allo statuto sociale e, ove prevista, alla clausola in oggetto, che prevede appunto la cessazione anticipata dall’incarico non assistita da alcun risarcimento del danno.
Nonostante che la legittimità della pattuizione in esame sia ormai consolidata, la stessa può essere utilizzata in modo abusivo o strumentale, ovvero esclusivamente per ottenere la revoca anticipata di un amministratore con la compiacenza degli altri membri del CdA, aggirando così la norma che prevede il diritto al risarcimento del danno in capo all’amministratore revocato senza giusta causa.
La giurisprudenza prevalente ritiene che l’utilizzo della clausola simul stabunt simul cadent abusivo (cioè per scopi diversi da quelli per i quali è riconosciuto il diritto a rinunciare alla carica) o strumentale (cioè per eludere l’obbligo risarcitorio connesso alla revoca senza giusta causa), è contrario al principio di buona fede ed espone la società all’obbligo di risarcire l’amministratore revocato, nei casi di revoca senza giusta causa.
In particolare, il diritto al risarcimento del danno deve essere riconosciuto agli amministratori, decaduti in forza della clausola simul stabunt simul cadent, quando le dimissioni di uno di essi (che hanno determinato la cessazione dall’incarico anche degli altri amministratori) siano dettate unicamente o prevalentemente dallo scopo di eliminare amministratori sgraditi, in assenza di giusta causa e, quindi, eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (e del risarcimento del danno conseguente alla anticipata cessazione dalla carica) che spetterebbero loro se fossero cessati dalla carica non per effetto della clausola, ma per revoca.
10. La cessazione degli amministratori
Nelle S.r.l., il rapporto di amministrazione cessa per diverse cause che possono anche essere previste nell’atto costitutivo. In generale essa avviene per:
- scadenza del termine;
- rinuncia all’incarico;
- decadenza;
- revoca;
- decesso.
10.1 La scadenza del termine
La cessazione degli amministratori per scadenza del termine si applica in relazione agli amministratori nominati per un tempo determinato. In tal caso, gli amministratori cessati restano tuttavia in carica fino a quando non si provveda alla loro sostituzione.
Alla sostituzione degli amministratori uscenti provvede l’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio, consentendo agli stessi amministratori di redigere i progetto di bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica. Peraltro, l’assemblea potrà provvedere alle nuove nomine anche qualora decidesse di non approvare il bilancio.
Qualora l’assemblea non provveda alla nomina dei nuovi amministratori, gli amministratori uscenti restano comunque in carica (c.d. prorogatio), con poteri sia di ordinaria che straordinaria amministrazione. Si ritiene che la prorogatio valga fino a quando non si sia ricostituita almeno la maggioranza dei nuovi amministratori (diversamente infatti la mancata accettazione di un solo amministratore potrebbe far sì che rimangano in carica i consiglieri in scadenza).
10.2 La rinuncia all’incarico
Per quanto attiene alla rinuncia all’incarico da parte degli amministratori, in caso di mancata previsione statutaria, si ritiene applicabile per analogia la norma dettata in tema di S.p.A. dall’art 2385 c.c., secondo cui:
- l’amministratore che rinuncia al suo ufficio deve darne comunicazione scritta agli altri amministratori e, ove esista, al presidente del collegio sindacale;
- la rinuncia ha effetto immediato se rimane in carica la maggioranza degli amministratori, o, in caso contrario, dal momento in cui la maggioranza degli amministratori si è ricostituita in seguito all’accettazione della nomina da parte dei nuovi amministratori;
Qualora lo statuto non richiami la cooptazione, alla nomina del nuovo amministratore provvedono i soci convocati dagli amministratori non dimissionari. Nel caso invece di amministratore unico, quest’ultimo non potrà che rassegnare le proprie dimissioni a tutti i soci, provvedendo al contempo alla relativa convocazione assembleare.
10.3 La decadenza
La decadenza degli amministratori è causata dal sopraggiungere di una causa di ineleggibilità o incompatibilità, o quando si verificano cause di ineleggibilità e decadenza previste nell’atto costitutivo.
L’atto costitutivo delle S.r.l. può, peraltro, prevedere specifiche cause di decadenza, oppure richiamare le cause di decadenza previste dall’art. 2382 c.c per le S.p.A.; in tal caso, queste si applicano a prescindere dalle previsioni dell’atto costitutivo che può soltanto ampliarne e non restringerne i contenuti.
In merito agli effetti dell’intervenuta causa di decadenza, si ritiene che la stessa abbia efficacia immediata, a prescindere dal fatto che rimanga o meno in carica la maggioranza degli amministratori; la maggioranza degli amministratori, se l’atto costitutivo lo prevede, potrà decidere per la cooptazione, mentre la minoranza potrà convocare immediatamente l’assemblea.
10.4 La revoca (rinvio)
Nelle S.r.l., la revoca degli amministratori può avvenire per deliberazione assembleare o in via giudiziale: sul tema si rimanda all’approfondimento pubblicato in altro articolo.
10.5 Il decesso
Nel caso di decesso degli amministratori la cessazione ha effetto immediato, con l’obbligo, nel caso di amministratore unico, di immediata sostituzione in capo all’assemblea. La mancata sostituzione dell’amministratore unico è causa di scioglimento della società.
Nel caso il decesso di un membro del CdA, lo stesso sarà sostituito attraverso cooptazione (qualora tale procedura sia prevista dall’atto costitutivo) o dall’assemblea convocata dagli amministratori superstiti.
Gli eredi degli amministratore defunto non subentrano automaticamente nella carica del de cuius.
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Avv. Valerio Pandolfini
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Di conseguenza, il presente articolo non costituisce un (né può essere altrimenti interpretato quale) parere legale, né può in alcun modo considerarsi come sostitutivo di una consulenza legale specifica.