Il trasferimento dei lavoratori nella cessione o affitto di azienda
L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività economica. L’azienda può essere oggetto di trasferimento, nella sua totalità o in una sua articolazione funzionalmente autonoma (ramo di azienda).Può accadere che le Parti qualifichino come cessione di (ramo di) azienda il trasferimento solo di una parte dei beni aziendali, a scopi elusivi, cioè per evitare l’applicazione della disciplina relativa al trasferimento dei singoli beni che costituiscono l’azienda, ad esempio per evitare la necessità del consenso del terzo contraente ceduto (in particolare in ambito dei rapporti di lavoro). La giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri per stabilire se debba ritenersi sussistente una cessione di azienda o di singoli beni, fermo restando che occorre verificare caso per caso se venga effettivamente trasferita una attività organizzata. In ogni caso, la Cassazione tende ad interpretare in senso ampio il concetto di azienda ai fini della qualifica rispetto alla cessione dei singoli beni.
1.La finalità della disciplina sui rapporti di lavoro in caso di trasferimento di azienda
In tema di trasferimento di azienda, la sorte dei rapporti di lavoro è uno degli aspetti più rilevanti e delicati.
In caso di cessione o affitto di azienda, il Codice civile prevede una specifica disciplina in tema di trasferimento dei lavoratori subordinati dell’azienda cedente (o affittante), a tutela dei lavoratori stessi.
L’art. 2112 c.c. garantisce infatti al lavoratore la continuità del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario (o affittuario) dell’azienda nella quale presta attività lavorativa, prevedendo che i rapporti di lavoro di tutti i dipendenti addetti all’azienda (o al ramo d’azienda) passano automaticamente dal cedente (o affittante) al cessionario (o affittuario), senza necessità del consenso del singolo lavoratore, in deroga all’art. 1406 c.c.
L’art. 2112 c.c. prevede inoltre una tutela rafforzata dei crediti che il lavoratore aveva al momento del trasferimento dell’azienda, in quanto stabilisce che cedente e cessionario sono responsabili in solido, indipendentemente dal fatto che il debito nei confronti del lavoratore risulti dalle scritture contabili del cedente.
Il lavoratore trasferito al cessionario conserva tutti i diritti derivanti dal pregresso rapporto di lavoro (quali ad esempio l’anzianità) e il cessionario è tenuto ad applicare gli stessi trattamenti economici e normativi previsti dai CCNL vigenti alla data della cessione. Il trasferimento d’azienda non è considerato di per sé giustificato motivo di licenziamento; la cessione non può dunque costituire un espediente per ridurre il personale dipendente in organico dell’azienda.
La nozione di trasferimento di azienda contenuta nell’art. 2112 cod. civ. è molto ampia, grazie anche all’interpretazione estensiva della giurisprudenza. Tale nozione include infatti ogni operazione che comporti il mutamento, anche parziale, della titolarità di un’attività economica organizzata, al di là del mezzo giuridico impiegato.
Rientra quindi nell’ambito del trasferimento di azienda ai fini dell’art. 2112 c.c. anche l’affitto e l’usufrutto di un ramo di azienda, come pure fenomeni successori, fusioni, scissioni, cambi di appalto con cessione di elementi materiali, etc.
E’ invece escluso dall’ambito applicativo della norma in esame il passaggio di controllo di una società di capitali, mediante trasferimento del pacchetto azionario o delle quote, in quanto esso non incide sulla soggettività giuridica dell’azienda, come pure la trasformazione della società.
Non trova inoltre applicazione l’art. 2112 cod. civ. qualora il trasferimento d’azienda sia disposto da imprese in crisi oppure qualora penda una procedura concorsuale, ove sia raggiunto, in seno alla procedura di cui all’art. 47, L. n. 428/1990 un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione.
2.La disciplina dell’art. 2112 cod. civ. sui rapporti di lavoro in caso di trasferimento di azienda e le conseguenze della sua violazione
In sintesi, l’art. 2112 cod. civ. prevede quindi la seguente disciplina:
- tutti i lavoratori applicati alla azienda o al ramo oggetto del trasferimento passano automaticamente al cessionario (o affittuario), con prosecuzione dei relativi rapporti di lavoro, senza interruzioni, purché preesistenti al trasferimento;
- cedente(o affittante) e cessionario (o affittuario) sono responsabili in solido tra loro per tutti i crediti che i lavoratori avevano al tempo del trasferimento), anche se i crediti non siano risultanti dai libri contabili, a prescindere dalla conoscibilità da parte del cessionario (non trova dunque applicazione l’ art. 2560 cod. civ., a cui sono assoggettati invece i debiti verso enti previdenziali, esclusi dalla solidarietà di cui all’art. 2112 cod. civ.);
- il licenziamento intimato dal cedente (o affittante) in ragione del trasferimento d’azienda è nullo, ai sensi dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, con conseguente condanna alla reintegra del lavoratore e condanna solidale di cedente (o affittante) e cessionario (o affittuario) al pagamento di un’indennità risarcitoria, oltre al versamento dei contributi maturati;
- il cessionario (o affittuario) deve applicare il medesimo contratto collettivo applicato dal cedente (o affittante) fino a scadenza, salvo che il cessionario (o affittuario) già applichi un diverso contratto collettivo (del medesimo livello); in tal caso il cessionario (o affittuario) potrà applicare il proprio contratto collettivo, anche se contenga condizioni peggiorative per i lavoratori.
La disciplina di cui all’art. 2112 c.c. presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d’azienda, e non si applica quindi qualora il rapporto di lavoro sia esaurito o non si sia ancora costituito a tale momento.
La giurisprudenza ha peraltro precisato che la disciplina sulla solidarietà tra cedente e cessionario non si applica ai contributi previdenziali (come il TFR), i quali, costituendo debiti inerenti all’esercizio dell’impresa, restano soggetti alla disciplina generale sul trasferimento dei debiti in caso di cessione di azienda di cui all’art. 2560 c.c, e non dell’art. 2112 c.c. Dunque, relativamente a tali crediti unico soggetto obbligato nei confronti del lavoratore è il cedente l’azienda, mentre il cessionario risponde solo ove gli stessi risultino dai libri contabili obbligatori. Per i crediti previdenziali maturati nel periodo successivo al trasferimento d’azienda risponde poi solo il datore di lavoro cessionario.
Ai lavoratori che passano alle dipendenze dell’impresa cessionaria si applica il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l’azienda cedente soltanto nel caso in cui l’impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo; in caso contrario, la contrattazione collettiva dell’impresa cedente viene sostituita da quella applicata nell’impresa cessionaria, anche se contenga condizioni peggiorative per i lavoratori rispetto alla prima.
I lavoratori hanno peraltro diritto di recedere per giusta causa del contratto di lavoro qualora nei 3 mesi successivi al trasferimento avvenga una modifica delle condizioni di lavoro rilevante, sostanziale, incidente in modo peggiorativo, in senso quantitativo o qualitativo, su aspetti economici, normativi e professionali del lavoratore.
In caso di violazione della disciplina di cui sopra, un dipendente ceduto può impugnare l’atto con cui gli è stato imposto il passaggio alle dipendenze del cessionario (affittuario). Anche un dipendente escluso dal trasferimento può far valere i propri diritti di prosecuzione del rapporto direttamente verso il cessionario (affittuario), impugnando l’atto e chiedendo al tribunale di pronunciare una sentenza costituiva del rapporto di lavoro in capo al cessionario.
Il termine per impugnare in via stragiudiziale il trasferimento è di 60 giorni dalla data del trasferimento stesso (ovvero dalla conoscenza dell’atto notarile di trasferimento da parte del lavoratore). Entro i successivi 180 giorni il lavoratore deve promuovere il giudizio o comunicare al datore di lavoro l’istanza di tentativo di conciliazione o di arbitrato, fallito il quale il giudizio dovrà iniziarsi entro 60 giorni.
Un dipendente escluso o licenziato dal cedente a causa del trasferimento ha inoltre diritto di precedenza sulle nuove assunzioni disposte dal cessionario entro un anno dalla data del trasferimento.
3. La consultazione sindacale
L’art. 47 della L. n. 428/1990 prevede una particolare procedura di consultazione sindacale, in caso di trasferimento di un’azienda o di un ramo d’azienda in cui siano occupati più di 15 lavoratori.
La dimensione occupazionale dei 15 dipendenti si riferisce al periodo che precede il trasferimento, escludendo i dipendenti con rapporto occasionale e saltuario e quelli assunti con contratto di apprendistato e di inserimento; i lavoratori a tempo parziale devono essere considerati in proporzione all’orario svolto. Nel caso in cui il trasferimento interessi solo una parte dell’azienda, il limite dei 15 dipendenti opera in riferimento all’intera azienda.
In tal caso infatti cedente e cessionario devono comunicare per iscritto alle RSU, almeno 25 giorni prima che sia perfezionato l’atto da cui deriva il trasferimento o che sia raggiunta un’intesa vincolante tra le parti, se precedente, una serie di informazioni, allo scopo di consentire al sindacato di conoscere la capacità di gestione del cessionario e le sue intenzioni con riferimento ai piani di investimento, ai programmi produttivi, ai livelli occupazionali e alle condizioni di lavoro dei dipendenti. In particolare, L’informazione deve riguardare:
- la data (certa o presunta) del trasferimento;
- i motivi del programmato trasferimento d’azienda;
- le sue conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori;
- le eventuali misure previste nei confronti dei lavoratori.
Entro 7 giorni dal ricevimento di tale comunicazione, i sindacati possono chiedere un esame congiunto. La consultazione si intende esaurita se, decorsi 10 giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo con i sindacati.
Il mancato rispetto della procedura ex art. 47 L. n. 428/1990 non incide sulla validità dell’atto di cessione ma costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori. Per tale ragione, di solito le parti subordinano l’efficacia del contratto di cessione d’azienda all’esperimento del procedimento di consultazione sindacale ora descritto (condizione sospensiva).
La giurisprudenza prevalente esclude infatti che l’inosservanza delle procedure suddette provochi illegittimità o vizi la procedura di trasferimento d’azienda e che quindi le stesse costituiscano un requisito di validità del negozio traslativo dell’azienda. Tuttavia, un orientamento minoritario ritiene che tale violazione provochi la temporanea inefficacia del trasferimento, con l’effetto di sospendere il perfezionamento dell’atto traslativo dell’azienda o del suo ramo quantomeno finché la procedura non sia stata regolarmente esperita.
4. La nozione di ramo di azienda agli effetti della disciplina dei rapporti di lavoro
Una delle tematiche più discusse in materia è quella relativa alla corretta individuazione del ramo di azienda ceduto. La cessione di un ramo d’azienda non può infatti costituire un mezzo per estromettere lavoratori eccedenti dall’impresa del cedente (affittante); si tratta quindi di capire quali caratteristiche debba avere un ramo di azienda affinché la sua cessione ( o affitto) sia riconducibile alla disciplina del trasferimento di cui all’art. 2112 c.c.
In ambito giuslavoristico, il concetto di azienda ha assunto connotazioni particolari non proprio coincidenti con quelli tipici di altri ambiti quali, ad esempio, il diritto commerciale. L’art. 2112 cod. civ. – nel testo modificato dal D.lgs. n. 276/2003, in attuazione della Direttiva 2001/23/CE – definisce l’azienda come l’”articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”. La norma prevede altresì che “le disposizioni del presente articolo si applicano al trasferimento di parte dell’azienda intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”.
Ai sensi dell’art. 2112 c.c. è quindi considerato trasferimento di azienda quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria.
Coerentemente, la giurisprudenza ha chiarito che per ramo d’azienda deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, e quindi, costituisca, comunque, una preesistente entità produttiva, funzionalmente autonoma.
Ciò comporta che non rientra nella disciplina del trasferimento di azienda la c.d. esternalizzazione (o outsourcing), intesa come forma di dismissione di segmenti produttivi, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità. Tale situazione rientra nella fattispecie del dell’appalto di opere o servizi, nel quale non vi è alcun passaggio né di mezzi né di persone, e quindi neppure di uomini, ma l’appaltatore assume, con organizzazione dei mezzi necessari, gestione a proprio rischio, e soprattutto con proprio personale, il compimento di un’opera o servizio all’interno dell’azienda.
Dunque, elemento costitutivo del trasferimento di ramo d’azienda è l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali e organizzativi e, quindi, di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione.
In altri termini, il ramo deve essere una preesistente realtà produttiva autonoma e non una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo. Ciò comporta che per stabilire se nel caso di specie si possa parlare di ramo d’azienda o meno, non bisogna basarsi sull’organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione, ma sull’organizzazione consentita già dal preesistente complesso produttivo costituito dal ramo ceduto.
Tuttavia, è configurabile il trasferimento di ramo di azienda anche nel caso in cui sia ceduto solo un gruppo di lavoratori e non anche i beni materiali, purché tale gruppo sia professionalmente coeso e che i suoi componenti abbiano legami organizzativi preesistenti alla cessione e specifico know how (ad es. utilizzo di copyright, brevetti etc.), in modo da poter essere individuati come un’unità funzionale in grado di produrre beni o servizi e non come mera sommatoria di dipendenti. In tale ultimo caso, infatti, non si può parlare di trasferimento d’azienda o di ramo, ma di mera cessione di rapporti di lavoro che ai sensi dell’art. 1406 c.c. richiede il consenso del contraente ceduto (cioè del singolo lavoratore).
Dunque, come ribadito dalla giurisprudenza, in caso di trasferimento del ramo d’azienda, l’autonomia del ramo può sussistere anche in presenza di una struttura dematerializzata o leggera, costituita in prevalenza da rapporti di lavoro organizzati in modo idoneo, anche potenzialmente, allo svolgimento di un’attività economica. Per configurare, tuttavia, una legittima ipotesi di trasferimento ex art. 2112 c.c., è necessario che si sia in presenza di un complesso organizzato di persone, dotate di particolari competenze e stabilmente coordinate ed organizzate tra loro, così da rendere le loro attività interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili: in sostanza, l’oggetto della cessione deve essere caratterizzato dall’organizzazione del capitale umano e dal valore dei beni immateriali ceduti.
La giurisprudenza prevalente ritiene inoltre che non sussiste alcun divieto di cessione in favore di un soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell’attività produttiva e dei rapporti di lavoro. In altri termini, non sussiste in capo al cedente l’onere di verificare le capacità e potenzialità imprenditoriali del cessionario. , né esiste un divieto di cessione nel caso in cui sia prospettata la mancanza di solidità economica dell’azienda cessionaria che, ad esempio, fallisca di lì a poco.
Infatti, il legislatore ha predisposto una serie di cautele (che vanno dalla previsione della responsabilità solidale del cedente con il cessionario, in relazione ai crediti maturati dai dipendenti, all’intervento delle organizzazioni sindacali), ma non pone alcun limite ulteriore nel rispetto dell’articolo 41 Cost. Nessun altro limite, dunque, neppure implicito, è stato posto alla libertà dell’imprenditore di dismettere l’azienda. Da ciò consegue che la validità della cessione non è condizionata alla prognosi della continuazione dell’attività produttiva, e, di conseguenza, all’onere del cedente di verificare le capacità e potenzialità imprenditoriali del cessionario.
Qualora il trasferimento di ramo d’azienda sia stato dichiarato illegittimo dal Giudice e, conseguentemente, il lavoratore (illegittimamente ceduto) abbia messo la propria prestazione lavorativa a disposizione del cedente che la rifiuti senza motivo, la giurisprudenza prevalente ritiene che il datore di lavoro abbia l’obbligo di corrispondere al lavoratore la retribuzione, e non di risarcire un danno.
5. L’applicazione dell’art. 2112 c.c. in caso di affitto di azienda
La norma di cui all’art. 2112 c.c. in tema di rapporti di lavoro trova altresì applicazione, secondo la giurisprudenza prevalente, anche in caso di restituzione del complesso aziendale alla scadenza dell’affitto (c.d. retrocessione). Si ritiene, infatti, che la retrocessione dell’azienda affittata equivale ad una seconda cessione, nell’ambito della quale l’originario cedente diviene cessionario.
Pertanto, in caso di retrocessione dell’azienda per cessazione del contratto di affitto, l’originario concedente subentra automaticamente nei rapporti di lavoro, rispondendo altresì in via solidale dei debiti maturati dall’affittuario verso i lavoratori, anche con riferimento a quelli assunti dall’affittuario.
Il concedente è quindi esposto a responsabilità solidale per tutti i debiti dell’affittuario nei confronti dei dipendenti, ivi compresi i debiti di natura assicurativa o previdenziale. Tale norma è inderogabile dalle parti.
Ciò, tuttavia, non si verifica qualora l’affittante, a seguito della retrocessione dell’azienda (ovvero di restituzione dei beni aziendali affittati), non continui la medesima attività dell’azienda affittata, cioè non continui a svolgere la medesima attività imprenditoriale mediante l’utilizzo del medesimo complesso di beni. In particolare, non si applica l’art. 2112 c.c. qualora, a seguito della retrocessione dell’azienda, l’affittante (retro-cessionario):
- cessi definitivamente l’attività (a seguito di messa in liquidazione, vendita dei beni, assenza di introiti, interruzione dei rapporti di lavoro, etc.);
- interrompa temporaneamente l’attività (ad es. per ristrutturazione del locale);
- continui ad utilizzare l’azienda ma per un’attività differente dalla precedente (sempre che i beni aziendali possano essere effettivamente utilizzati per una diversa attività).
La deroga all’art. 2112, ovvero l’esenzione da responsabilità solidale, è invece esclusa nell’ipotesi in cui il proprietario-retrocessionario, anziché proseguire direttamente l’attività in precedenza esercitata dall’affittuario, sostituisca a questi un altro soggetto, dovendosi in tal caso ritenere una indiretta utilizzazione dei beni da parte del concedente a mezzo del nuovo concessionario, proprio in funzione di quella determinata attività di cui l’azienda è strumento.
Una ulteriore deroga alla solidarietà di cui all’art. 2112 c.c. si ha in caso di fallimento dell’affittante; in tal caso, infatti, ai sensi dell’art. 104-bis ultimo comma L.F., dei debiti sorti durante il tempo in cui l’azienda è stata locata non risponde anche la procedura fallimentare, ma solo all’affittuario.
Sul tema, già pubblicati: La cessione di azienda: qualifica del contratto, forma; La cessione di azienda: trasferimento dei debiti e dei crediti, subentro nei contratti.
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Avv. Valerio Pandolfini
Assistenza legale per le imprese
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