Gli amministratori senza delega (non esecutivi): poteri, obblighi, responsabilità
Come è noto, spesso l’organo amministrativo delle società di capitale è di tipo collegiale (consiglio di amministrazione, CdA). Le funzioni proprie del CdA possono essere delegate ad uno o più componenti dello stesso, in termini individuali (amministratore delegato, o CEO) o collegiali (comitato esecutivo). Ciò determina una differenziazione delle posizioni, rispettivamente, dei consiglieri esecutivi, da un lato, e degli altri amministratori , dall’altro. Agli amministratori ai quali non sono state attribuite deleghe, e che quindi partecipano all’organo di amministrazione societaria quali semplici componenti del CdA, la legge impone specifici obblighi di trasparenza, informazione, iniziativa e intervento.
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1. Amministratori deleganti e amministratori delegati nel CdA
Come è noto, spesso l’organo amministrativo delle società di capitale è di tipo collegiale (consiglio di amministrazione, CdA) ed è composto da un numero di amministratori che, in aderenza alle previsioni statutarie (o, in assenza, liberamente), è deciso dai soci con riferimento alla dimensione della società, al business aziendale e altri fattori.
Le funzioni proprie del CdA possono essere delegate ad uno o più componenti dello stesso, tanto in termini individuali (amministratore delegato, o CEO) quanto in termini collegiali (comitato esecutivo) (art. 2381, secondo comma, c.c.).
Ciò determina una ripartizione all’interno del CdA tra funzioni esecutive-gestionali e funzioni di indirizzo e valutazione, sulla base di distinzione al suo interno tra amministratori deleganti ed amministratori delegati.
La delega attua un conferimento di funzioni e di compiti che comporta una legittimazione concorrente tra delegato e delegante.
Essa trova legittimazione in una clausola dello statuto o in una delibera assembleare e viene attribuita con delibera consiliare che ne determina il contenuto ed i limiti, fermo restando che alcune funzioni non possono essere oggetto di delega, ovvero:
- la redazione del bilancio di esercizio (art. 2423 c.c.);
- gli aumenti di capitale ai sensi dell’art. 2443 c.c.;
- gli adempimenti in presenza di perdite rilevanti (artt. 2446 e 2447 c.c.);
- l’emissione di obbligazioni convertibili (art. 2420-ter c.);
- la redazione dei progetti di scissione (art. 2506-bis c.) e di fusione (art. 2501-ter c.c.).
L’amministratore non esecutivo può altresì far parte dei comitati endo-consiliari, aventi un ruolo essenzialmente istruttorio, e talvolta consultivo, rispetto alle attività di discussione, deliberazione e amministrazione del CdA. Ciò può determinare un significativo rafforzamento della governance, soprattutto se si tratti di soggetto in possesso di competenze ed esperienza specifiche (come può essere per un avvocato o un commercialista) in ambito di gestione dei rischi e dei sistemi di controllo e compliance (per il comitato “controllo e rischi” o comitato “rischi” o “audit committee”), o di politiche di remunerazione (per il comitato “remunerazione” o “human resources committee”), o di governo societario (per il comitato “governance”) o di selezione di profili di esponenti aziendali (per il comitato “nomine”).
2. I poteri degli amministratori privi di deleghe
Il CdA, infatti, non si spoglia delle funzioni delegate, ma ha una competenza concorrente e sovraordinata rispetto alle funzioni degli organi delegati, i quali non hanno, come il CdA, poteri originari, bensì soltanto poteri derivati e delegatigli dal CdA stesso.
In questo senso, l’art. 2381 comma 3 c.c. attribuisce al CdA il potere di:
- impartire direttive agli organi delegati, ovvero istruzioni vincolanti dirette a indirizzare l’attività dei delegati e consentire un miglior coordinamento tra l’attività di questi e quella del CdA;
- avocare a sé operazioni rientranti nella delega, sostituendosi agli amministratori delegati nel compimento di operazioni rientranti nella sfera dei poteri di questi ultimi; l’avocazione può essere espressa, in caso di deliberazione del CdA, o implicita, qualora il CdA realizzi direttamente l’atto compreso nei poteri delegati;
- revocare in qualsiasi momento la delega o le decisioni assunte dagli organi delegati o di modificarne il contenuto, fatti salvi i diritti dei terzi.
Tali poteri possono essere esercitati solo collegialmente e non dai singoli consiglieri individualmente.
3. I doveri degli amministratori privi di deleghe
3.1 Il dovere di informazione
Ai sensi dell’art. 2381 comma 5 c.c., gli organi delegati devono riferire al CdA e al collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni sei mesi, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate.
Tale relazione è finalizzata a colmare l’inevitabile asimmetria informativa tra amministratori delegati e amministratori deleganti; come è noto, infatti, i primi gestiscono la società quotidianamente e a tempo pieno, sono a capo della struttura e sono pertanto in grado di conoscere i fatti e le criticità gestionali, mentre i secondi partecipano soltanto alle riunioni del CdA (che possono essere più o meno frequenti) e hanno necessariamente a disposizione minori informazioni sulla società. Da qui l’essenzialità di una corretta informazione endoconsiliare, ossia all’interno del CdA e tra amministratori delegati e deleganti, al fine di garantire la trasparenza e la correttezza dell’attività gestionale. In questa ottica, il legislatore ha istituzionalizzato un sistema di flussi informativi tra organi delegati ed organi deleganti.
La norma di cui all’art. 2381 comma 5 c.c., definisce il set informativo di base che gli organi delegati devono mettere a disposizione del CdA. Tale norma deve essere tuttavia letta in combinato disposto con l’art. 2381, sesto comma, c.c. il quale stabilisce che gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato, prevedendo che ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che nel CdA – e quindi a beneficio di tutti gli amministratori, senza creare asimmetrie informative tra gli stessi – siano fornite informazioni relative alla gestione della società.
L’autonomia di cui gli organi delegati svolgono le loro funzioni non implica infatti che il CdA nel suo complesso e i singoli consiglieri individualmente possano disinteressarsi delle funzioni delegate; i consiglieri deleganti hanno anzitutto un dovere di informazione, a sua volta finalizzato a consentire agli stessi di esercitare gli obblighi doveri di valutazione e controllo (v. par. 3.3). In questo senso, ciascun amministratore può e deve chiedere agli organi delegati che in CdA siano fornite informazioni relative alla gestione della società, sia su aspetti generali, sia su questioni specifiche che si ritenga necessario approfondire; nello stesso senso, ha il potere-dovere di chiedere ogni integrazione che ritenga opportuna alla relazione degli organi delegati di cui all’art. 2381 comma 5 c.c., qualora la stessa sia eccessivamente sintetica, reticente, incompleta o comunque non esauriente.
I componenti del CdA non possono quindi assumere un atteggiamento passivo di mera ricezione dell’informativa resa per legge ma devono valutarne la completezza e l’esaustività, e hanno l’obbligo di attivarsi per chiedere approfondimenti o integrazioni, qualora riscontrino eventuali lacune o notizie o dati non attendibili da parte dei delegati.
Il potere-dovere di informazione di cui all’ultimo comma dell’art. 2381 c.c. è attribuito a tutti gli amministratori; si tratta infatti di una prerogativa individuale che spetta a ciascun componente del CdA a prescindere dal ruolo e/o dalla posizione ricoperti, Non vi sono limiti relativamente all’oggetto, né alle modalità temporali di esercizio di tale potere; gli amministratori hanno diritto ad acquisire ogni tipo di informazione, ed eventuali richieste da parte degli stessi possono essere ripetute nel tempo, ogni qualvolta se ne presenti l’opportunità.
Tuttavia, le richieste di informativa devono essere indirizzate agli organi delegati, sui quali, pertanto, grava il dovere di riferire o, comunque, di assicurare che gli amministratori ricevano le informazioni richieste. La richiesta di informazioni può essere destinata al delegato anche al di fuori della riunione del CdA, fermo restando che quest’ultima sarà comunque la sede nella quale andranno rese a chi abbia avanzato la richiesta (se del caso, previa richiesta di convocazione del CdA da parte di quest’ultimo). I singoli amministratori non sono invece titolari di un autonomo potere d’indagine, e non possono procedere ad atti d’ispezione o accesso senza la mediazione degli organi delegati, né tantomeno risultino autorizzati ad assumere direttamente le informazioni tramite richieste rivolte ai dipendenti e/o al personale della società.
Gli amministratori non esecutivi non devono avere remore nel formulare il proprio eventuale giudizio critico di insoddisfazione in merito alla tempestività, completezza e uniformità dell’informazione, valutando di volta in volta l’opportunità di:
- chiedere un rinvio della discussione e una successiva convocazione del CdA non appena sia reso disponibile un set informativo adeguato, ovvero
- l’integrazione della documentazione – o informazioni e spiegazioni verbali – nella stessa seduta, ove tali integrazioni siano suscettibili di essere fornite in modo tale da permettere una valutazione e una decisione adeguatamente consapevole e informata (il che avviene, in primo luogo, qualora le informazioni mancanti siano di rapida comprensione e non richiedano una preventiva metabolizzazione).
Gli amministratori deleganti sono responsabili anche per il controllo e valutazione dell’esistenza di una adeguata procedimentalizzazione dei flussi informativi endoconsiliari. Pertanto, spetta agli stessi di verificare che i flussi informativi endoconsiliari siano adeguatamente procedimentalizzati e osservati dai delegati.
Occorre peraltro evidenziare che il CdA viene a trovarsi in una posizione di sostanziale debolezza rispetto agli organi delegati, per quanto riguarda la gestione dei predetti flussi informativi. Non vi è, infatti, alcun strumento che possa essere utilizzato per far fronte all’eventuale inerzia se, non addirittura, al rifiuto dei delegati nel fornire l’informazione richiesta. L’unico mezzo utilizzabile per sanzionare l’operato dei delegati è rappresentato dalla revoca degli stessi; tale rimedio è tuttavia spesso inadeguato, sia perché la definitiva rimozione della carica dell’amministratore delegato inerte non è sempre opportuna, sia perché, soprattutto, tale misura non permette comunque al CdA di raggiungere lo scopo desiderato, ovvero appunto di ottenere l’informazione richiesta.
I segnalati limiti della disciplina appaiono ancora evidenti, non appena si ponga mente alla circostanza che i titolari delle funzioni delegate dispongono di un potere assai ampio di scelta tanto per quello che concerne la selezione delle informazioni da mettere a disposizione degli altri amministratori, quanto in ordine alle modalità con cui presentare una simile informativa. Non può inoltre escludersi che gli amministratori delegati decidano di offrire al CdA un numero eccessivo di dati e informazioni, o informazioni eccessivamente analitiche o difficilmente decifrabili sia pur nel contesto di una riunione consiliare. In questi casi, la previsione di specifici doveri di controllo degli amministratori privi di delega potrebbe non essere sufficiente ad evitare un automatico e generalizzato coinvolgimento degli stessi deleganti nelle responsabilità gestorie gravanti sugli organi delegati.
3.2 I poteri-doveri del Presidente del CdA
Nel modello di amministrazione informata, nel quale l’adeguatezza dei flussi informativi rappresenta uno strumento imprescindibile della governance societaria, il presidente del CdA è chiamato a svolgere un ruolo centrale. Ai sensi dell’art. 2381 comma 1 c.c., infatti, al presidente del CdA è attribuito il potere di:
- convocare il CdA;
- fissare l’ordine del giorno;
- coordinare i lavori;
- provvedere affinché tutti i consiglieri ricevano adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno, in prospettiva della riunione consiliare.
A tali poteri-doveri si aggiungono quelli connaturati alla funzione stessa di presidente di un organo collegiale, ovvero quelli di regolare la discussione e il voto, di ricevere le richieste e le dichiarazioni di astensione dei consiglieri presenti, di proclamare il risultato delle votazioni, di curarne la verbalizzazione, di dichiarare sciolta la riunione, etc.
Il potere di convocazione attribuito al presidente consente a quest’ultimo di esercitare una notevole influenza sull’attività dell’organo delegato; tale influenza può manifestarsi, ad esempio, attraverso la frequente convocazione del CdA – che ha il potere di impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega (v. par. 3.1) – con lo scopo di aumentare il controllo del consiglio sui consiglieri delegati e far adottare a questi alcune decisioni ovvero impartire a questi direttive con una certa frequenza.
Sebbene i poteri attribuiti dalla legge al presidente consentano astrattamente a quest’ultimo quanto sopra illustrato, la fisiologia del rapporto tra presidente e organi delegati è, nella generalità dei casi, differente e generalmente la convocazione del CdA avviene di concerto tra il presidente e l’organo delegato. Inoltre, per individuare le materie da inserire all’ordine del giorno e ottenere le informazioni da fornire ai consiglieri, il presidente deve rivolgersi agli amministratori delegati e alle strutture apicali della società; sono questi, infatti, i soggetti al corrente delle tematiche da trattare e in possesso delle informazioni necessarie al CdA per valutare le decisioni da intraprendere.
L’elemento fondamentale in cui si realizza l’informativa pre-consiliare è quello dell’ordine del giorno, che ha la funzione di rendere edotti gli amministratori circa i temi su cui il consiglio è chiamato a discutere e deliberare; esso permette al presidente di portare all’attenzione del CdA le attività gestionali su cui stanno operando autonomamente gli organi delegati. L’ordine del giorno rappresenta quindi un elemento essenziale ai fini del corretto funzionamento del CdA ed una priorità logica rispetto all’obbligo dei consiglieri di agire in modo informato ed al correlato potere-dovere di chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite specifiche informazioni. La preventiva conoscenza delle materie su cui il CdA è chiamato a deliberare consente infatti a ciascun amministratore la ponderazione degli argomenti stessi in via preventiva e l’assunzione in consiglio di posizioni decisorie e di controllo informate.
L’individuazione delle materie da inserire all’ordine del giorno è compito particolarmente delicato; il presidente del CdA deve infatti, valutare attentamente il numero di delibere che il consiglio è tenuto a esaminare in rapporto al tempo riservato alla riunione – per assicurare che la dialettica consiliare non sia penalizzata da un eccessivo numero di argomenti concentrati in un tempo insufficiente – e , misurare la rilevanza delle deliberazioni da sottoporre al CdA, in modo tale da assicurare un esame più approfondito alle tematiche più rilevanti, nonché l’eventuale presenza di delibere relative a argomenti riservati, che richiedono di prestare attenzione alla circolazione delle informazioni tra i consiglieri.
Si ritiene comunque che, alla luce della natura collegiale del CdA, ciascun consigliere possa chiedere l’inserimento nell’ordine del giorno di questioni non inserite nello stesso dal presidente, anche qualora tale facoltà non sia prevista dallo statuto.
Al presidente del CdA spetta poi il coordinamento dei lavori del consiglio; tale compito si articola in una serie di adempimenti non tipizzati quali l’apertura della seduta del consiglio, la moderazione della discussione relativa a ciascun argomento all’ordine del giorno attraverso la definizione dell’ordine e della durata degli interventi, la sollecitazione della votazione delle singole questioni e la proclamazione dei risultati delle votazioni, la chiusura della seduta consiliare. La condotta del presidente deve tendere a ridurre le asimmetrie informative generalmente esistenti tra i consiglieri, stimolando i soggetti in possesso di maggiori informazioni a condividerle con il plenum, per garantire una collegialità informata.
Particolarmente significativo è infine il potere-dovere del presidente del CdA di provvedere affinché vengano fornite a tutti i consiglieri adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno. Al presidente è infatti assegnato il delicato ruolo di garantire i flussi informativi; affinché ciascun consigliere possa agire in modo informato è necessario che gli vengano fornite le informazioni necessarie per valutare e poi decidere delle questioni poste all’ordine del giorno, e il compito di fornire tali informazioni ai consiglieri spetta appunto al presidente del CdA.
Il presidente ha quindi il fondamentale compito di garantire il rispetto delle regole della collegialità, assicurando un’informazione preliminare a tutti i consiglieri rispetto alle questioni deliberative all’ordine del giorno. Al presidente spetta infatti il compito di raccogliere ed esaminare in anticipo rispetto agli altri amministratori le informazioni ricevute dall’amministratore delegato, le quali successivamente saranno rimesse all’intero CdA.
Il dovere di informazione del presidente attiene alle materie iscritte all’ordine del giorno e, pertanto, a ciò che deve essere trattato dagli amministratori in CdA, distinguendosi sotto questo profilo dall’informativa di carattere periodico gravante sugli organi delegati ai sensi del quinto comma dell’art. 2381 c.c.
Le informazioni a corredo dell’ordine del giorno devono essere funzionali rispetto allo scopo di realizzare in capo ai consiglieri una sufficiente conoscenza che permetta loro di assumere decisioni ponderate, ovvero adeguate sia sotto il profilo quantitativo e qualitativo che sotto quello temporale. L’informativa dovrebbe essere anticipata rispetto al CdA., in quanto i consiglieri dovrebbero poter intervenire nella riunione essendo già in possesso di tutti gli elementi utili per deliberare sulle materie all’ordine del giorno; ciò soprattutto qualora essa riguardi operazioni complesse, quali ad esempio l’acquisizione di un complesso aziendale, l’apertura di una sede all’estero, la proposta di modificazioni profonde della struttura societaria quali fusioni o scissioni etc..
Come gli altri consiglieri del CdA, anche il presidente, singolarmente, non ha né poteri di gestione né tantomeno il potere di acquisire dati e informazioni dalle strutture direttive e gestionali della società; per adempiere al proprio dovere, il presidente è quindi tenuto necessariamente, a coordinarsi con i soli organi delegati per la fissazione dell’ordine del giorno. Il Presidente, infatti, salvo il conferimento di specifiche deleghe gestorie allo stesso attribuite, non è tenuto ad avere una conoscenza diretta e specifica di tutte le materie da inserire nell’ordine del giorno; l’informazione relativa alle materie da trattare deve essere regolata dall’amministratore delegato che, diligentemente, deve metterla a disposizione del CdA per il tramite del presidente, sulla base di un reciproco rapporto di interazione e cooperazione. Egli ha dunque l’obbligo di agire informato e di richiedere all’organo delegato che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società.
3.3 I doveri di controllo
Oltre ad acquisire adeguati flussi informativi attinenti all’operatività dei titolari delle deleghe, i componenti dell’organo collegiale delegante hanno compiti di controllo, valutazione e approvazione.
Ferma restando la possibilità del CdA di impartire direttive agli organi delegati e avocare le operazioni rientranti nella delega (v. par. 4), ai sensi dell’art. 2381 comma 3 c.c. il CdA nel suo complesso – cioè inteso come organo collegiale e non i singoli amministratori deleganti – ha il potere-dovere di:
- valutare il generale andamento della gestione; a tal fine, i deleganti hanno l’obbligo di chiedere ogni integrazione necessaria a formulare un giudizio critico, qualora la relazione dei delegati sia incompleta o non esauriente;
- valutare, sulla scorta delle informazioni ricevute dagli organi delegati, l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; il concetto di adeguatezza dell’organizzazione dell’impresa non è definibile in senso assoluto, in quanto non esiste un assetto organizzativo ideale valido per qualsiasi impresa; analogamente al dovere degli amministratori delegati di curare che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche la valutazione di adeguatezza degli assetti da parte del CdA deve essere pertanto effettuata con riferimento alla natura e alle dimensioni dell’impresa;
- esaminare i piani strategici, industriali e finanziari della società; la formulazione della norma è particolarmente ampia e in grado di comprendere sia i business plan, sia i budget annuali e pluriennali e, probabilmente, anche i piani di gruppo, usualmente elaborati nel contesto dei gruppi di imprese.
Agli organi deleganti spetta dunque un ruolo di valutazione deli atti posti in essere dagli amministratori delegati che, seppur da assolvere sulla base di una relazione di questi ultimi, mira a evitare al contempo una eccessiva restrizione delle prerogative e dei margini d’azione dei primi e un loro totale estraniamento dalla conduzione dell’impresa sociale. Tale attività di valutazione consiste nella formulazione di un giudizio sul generale andamento della gestione; ciò comporta l’obbligo di
Per quanto attiene alla valutazione dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, la valutazione prescritta in capo ai consiglieri deleganti non può consistere in una mera presa d’atto delle informazioni sugli assetti organizzativi ricevute dagli organi deleganti, ma deve invece consistere in un esame critico degli stessi. Deve trattarsi, cioè, di un controllo di merito da parte del CdA, che deve valutare se gli assetti predisposti dagli organi delegati siano effettivamente adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa. Tale valutazione, sebbene non debba necessariamente tradursi in una delibera consiliare, deve consistere nell’espressione di un giudizio sugli assetti organizzativi predisposti dai delegati e, eventualmente, di direttive volte a una ridefinizione degli stessi o ad una loro modifica.
3.4 Il dovere di intervento
L’amministratore privo di ha altresì un dovere di intervento attivo. Ai sensi dell’art. 2392 comma 2 c.c., gli amministratori deleganti hanno infatti il dovere di intervenire per impedire il compimento di fatti pregiudizievoli o attenuarne le conseguenze dannose, quando ne siano effettivamente a conoscenza.
Qualora dunque gli amministratori deleganti vengano a conoscenza di atti o fatti che ragionevolmente possano far sorgere il sospetto (cioè, uno stato di consapevolezza che precede la conoscenza) che siano stati compiuti o stiano per essere compiuti atti illeciti o dannosi per la società, essi hanno l’obbligo di intervenire, utilizzando i poteri agli stessi spettanti, in primis il potere d’informazione prescritto dall’ultimo comma dell’art. 2381 c.c.
Gli amministratori deleganti sono, in linea generale, legittimati a fare affidamento sull’informazione ricevuta dagli amministratori delegati, sino a quando non emergano elementi e/o indizi tali da compromettere l’attendibilità delle informazioni ricevute; essi sono tenuti ad attivare le proprie prerogative informative solo in presenza di determinate circostanze, non potendosi prospettare a loro carico un dovere costante e generalizzato d’iniziativa.
L’attivazione dei poteri-doveri di iniziativa e di intervento degli amministratori deleganti è dunque subordinata all’esistenza di indici rivelatori di anomalie nella gestione o dai quali possa desumersi che l’informazione ricevuta dagli amministratori delegati sia irregolare, carente o contraddittoria, ingenerando così il sospetto del compimento di fatti pregiudizievoli in danno della società (c.d. segnali di allarme).
In particolare, l’informazione proveniente dagli organi delegati può considerarsi:
- irregolare, se i flussi informativi non rispettano le scadenze prescritte o in caso di omissione o di ritardo da parte dei delegati nel rendere l’informazione dovuta;
- carente, se le informazioni fornite dai delegati risultano lacunose o, comunque, inadeguate a offrire una rappresentazione completa ed esaustiva;
- contraddittoria, se le informazioni rese disponibili contengono incongruenze o, in ogni caso, non forniscono un quadro sufficientemente chiaro ed univoco.
La valutazione circa la sussistenza o meno di tali predetti requisiti deve essere effettuata anche in una prospettiva dinamica, cioè, confrontando l’informazione ricevuta con quella precedentemente messa a disposizione dai delegati; ciò vale in particolare con riguardo all’apprezzamento dell’eventuale lacunosità dell’informazione ricevuta, per evitare di addossare ai deleganti un compito di verifica eccessivamente gravoso.
In ogni caso, la valutazione in merito all’adeguatezza dell’informazione ricevuta è rimessa al prudente apprezzamento degli amministratori deleganti, sulla base della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, ai sensi dell’art. 2392 co. 1 c.c.
In particolare, la giurisprudenza ha ritenuto che sorga un obbligo in capo agli amministratori deleganti di attivarsi in presenza delle seguenti circostanze:
- informative carenti e/o contraddittorie da parte dei delegati;
- compimento da parte dei delegati di atti estranei all’oggetto sociale (c.d. atti ultra vires);
- irregolare tenuta delle scritture contabili da parte dei delegati;
- gestione personalistica della società da parte dei delegati;
- indebitamento richiesto dai delegati in presenza di liquidità disponibili;
- spoliazione di risorse aziendali da parte dei delegati, posta in essere attraverso prelievi dalle casse sociali;
- finanziamenti a favore di società in dissesto;
- dimissioni degli amministratori e del collegio sindacale;
- formali richiami rivolti all’organo amministrativo da parte del collegio sindacale circa le perdite rilevate e l’erosione del capitale sociale;
- parere negativo del collegio sindacale con riguardo al bilancio di esercizio, espresso nella relazione ai soci ai sensi dell’art. 2429 c.c.;
- carenze nell’esercizio delle funzioni da parte della capogruppo.
In tali ipotesi, gli amministratori privi di delega possono (e devono):
- rivolgersi agli organi delegati (e al presidente del CdA) per ottenere una maggiore informativa;
- far annotare il proprio dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del CdA;
- sollecitare la revoca della deliberazione illegittima;
- sollecitare la convocazione dell’assemblea da parte del CdA;
- sollecitare un intervento del CdA volto a impartire direttive ai delegati, revocare o modificare la delega (ad esempio limitandola ai soli atti di ordinaria amministrazione) ovvero ad avocare allo stesso CdA singole operazioni rientranti nella delega;
- impugnare le deliberazioni assunte;
- segnalare durante le riunioni del CdA i fatti al collegio sindacale, sollecitandone un intervento in relazione ai poteri che l’ordinamento riconosce a quest’organo;
- segnalare i fatti al PM sollecitandone un intervento ai sensi dell’art. 2409 c.c..
Qualora ometta di esercitare tali poteri, l’amministratore privo di deleghe è responsabile qualora, non avendo egli adempiuto all’obbligo di agire in modo informato, si sia prodotto per la società un pregiudizio, che un suo intervento tempestivo, diligente e aderente alle previsioni di legge, avrebbe potuto evitare.
In caso di deleghe atipiche, ovvero di attribuzione di funzioni gestorie in assenza di autorizzazione dei soci, il dovere di controllo in capo agli amministratori deleganti è più continuo ed assiduo; in questo caso, infatti, i deleganti non possono sottrarsi al regime di responsabilità solidale invocando di avere osservato le procedure per l’esercizio di controllo tipizzate e procedimentalizzate previste dall’art. 2381 comma 3 c.c., ma devono esercitare una vigilanza più assidua e penetrante, quale quella nei confronti dei collaboratori dell’impresa.
3.5 Il dovere di attivarsi per superare la crisi e per il recupero della continuità aziendale
Il secondo comma dell’art. 2086 c.c., nel testo modificato dall’art. 375 del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (“CCII”), introdotto dal D.lgs. n. 14/2019, stabilisce che gli amministratori devono attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.
La norma prevede quindi un dovere di reagire tempestivamente al primo apparire dei sintomi della crisi; si tratta di un dovere di ordine generale, riguardante qualsiasi impresa (collettiva), che abbraccia ogni strumento che possa rivelarsi utile per il superamento della crisi e l’auspicato recupero della continuità aziendale: dalla composizione negoziata a tutti gli altri strumenti per la regolazione della crisi disciplinati dal CCII, ovvero gli accordi in esecuzione dei piani attestati di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti (con le due varianti dell’accordo agevolato e ad efficacia estesa), la convenzione di moratoria, il concordato preventivo in continuità aziendale e liquidatorio, il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione.
Tale dovere investe l’organo amministrativo nel suo complesso; se sono stati nominati amministratori delegati, essi devono quindi immediatamente investire della questione il CdA e riferire del proprio operato ai componenti dell’organo collegiale, i quali sono a loro volta tenuti a rispettare l’obbligo di agire informati ai sensi dell’art. 2381, ultimo comma, c.c.
Gli amministratori devono valutare il segnale di crisi al fine di comprendere se la criticità emersa sia solo provvisoria (e pertanto destinata a risolversi tramite l’ordinaria prosecuzione dell’attività: si pensi, ad es., alla presenza debiti scaduti destinati ad essere coperti da un imminente e sicuro incasso), oppure se, al contrario, essa sia suscettibile di ulteriori sviluppi negativi. Soltanto in quest’ultimo caso, scatta l’obbligo di reagire, individuando lo strumento più idoneo per evitare l’aggravarsi del dissesto.
Fermo restando l’obbligo di attivarsi tempestivamente (senza indugio), gli amministratori godono di ampia discrezionalità nella scelta del rimedio idoneo a favorire il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale, sempre che tale scelta non sia manifestamente inadeguata e non appaia del tutto irragionevole.
In particolare, non vi è un obbligo degli amministratori di perseguire ad ogni costo la continuità aziendale, anche quando le condizioni economico-patrimoniali dell’impresa e la situazione del mercato non lo giustifichino; in tal caso, si renderà invece opportuno convocare l’assemblea per proporre lo scioglimento e la liquidazione volontaria della società. Infatti, anche se il legislatore intende favorire sbocchi positivi della crisi d’impresa, tali da consentire il mantenimento in attività dell’azienda con riflessi positivi sull’occupazione, non sono giustificati tentativi di salvataggio azzardati. Gli amministratori devono quindi saper valutare con la diligenza richiesta dall’adempimento del loro incarico fino a qual punto si spinga il dovere di adoperarsi per il recupero della continuità aziendale di un’impesa in crisi e dove, invece, scatti il loro obbligo di non aggravare il dissesto ritardando senza ragione la liquidazione giudiziale.
Ciò premesso, il margine di discrezionalità degli amministratori circa la scelta delle misure idonee per reagire alla crisi si riduce al progredire delle fasi della crisi stessa.
In una situazione di crisi soltanto probabile (c.d. twilight zone), gli amministratori conservano il potere di ordinaria e straordinaria gestione, ed hanno ampia discrezionalità circa le azioni da intraprendere, fermo restando l’obbligo di non arrecare un ingiusto pregiudizio ai creditori; in questa fase, le scelte gestorie assunte dagli amministratori dunque insindacabili, se non nei limiti della manifesta irrazionalità (secondo il principio della business judgment rule).
A tal proposito, la scelta degli strumenti di reazione all’allarme, e la decisione circa il contenuto specifico che viene dato allo strumento scelto, affinché non risulti irragionevole, deve essere proporzionale al sacrificio imposto ai soci; in questo senso, mentre la decisione di accedere alla composizione negoziata della crisi (consentita, appunto, anche in presenza di una crisi meramente potenziale), può ritenersi sempre giustificata (e dunque rimessa alla insindacabile valutazione degli amministratori), il ricorso ad uno degli strumenti di risoluzione della crisi previsti nel CCII è da considerarsi precluso agli amministratori, in quanto:
- tali strumenti hanno come presupposto oggettivo la presenza di un vero e proprio stato di crisi, e la loro attivazione in una fase di mera pre-crisi potrebbe in concreto tradursi in un potenziale pregiudizio per la società e i creditori;
- in una fase di crisi solo probabile la gestione della società deve essere ancora svolta perseguendo lo scopo di lucro, mentre tali strumenti implicano il perseguimento in via prioritaria dell’interesse dei creditori.
Nel caso in cui, invece, i segnali di allerta facciano emergere una situazione di vera e propria crisi, gli amministratori sono tenuti ad orientare la gestione in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività. Pertanto, gli amministratori, sebbene non debbano ancora limitarsi a una gestione meramente conservativa del patrimonio sociale, nell’esclusivo interesse dei creditori, devono orientare le scelte nella direzione del recupero della continuità aziendale e della capacità dell’impresa di produrre reddito, operando un bilanciamento tra i due interessi contrapposti: quello dei soci al valore del proprio investimento e quello dei creditori alla soddisfazione del proprio credito.
In questa fase, dunque, la discrezionalità degli imprenditori non è più pienamente protetta dalla business judgment rule: le decisioni gestorie assunte dagli amministratori potranno essere sindacate ex post, secondo il metro della compatibilità delle stesse rispetto alla sostenibilità economico/finanziaria. Lo stesso criterio deve essere utilizzato anche per la scelta circa l’attivazione o meno di uno strumento di soluzione della crisi: il contenuto dello strumento adottato (la manovra economico/finanziaria) dovrebbe essere congegnata avendo riguardo alla sostenibilità, senza porre sacrifici per i soci che non siano funzionali e/o proporzionali a tale scopo.
Qualora poi venga rilevato, attraverso gli adeguati assetti organizzativi, un segnale che implica uno stato di insolvenza, ma comunque sussistano concrete prospettive di risanamento, gli amministratori conservano il pieno potere gestorio, ma esso deve essere funzionale al prevalente interesse dei creditori sociali. La possibilità di riportare l’impresa in bonis e garantire la prosecuzione dell’impresa giustifica infatti una “fiducia” agli amministratori, legittimando (eventualmente anche per il tramite di un’istanza di accesso alla composizione negoziata, la conseguente sospensione dell’operatività delle cause di scioglimento eventualmente connesse alla perdita del capitale) a proseguire l’attività e a mantenere il controllo sulla gestione.
Tuttavia, in questo caso non è più sufficiente compiere scelte prudenti in un’ottica di bilanciamento degli interessi di soci e creditori (e cioè in conformità allo scopo della sostenibilità economico/finanziaria), ma è necessario che le decisioni gestorie siano conformi al prevalente interesse di questi ultimi; la gestione deve essere orientata non al recupero del valore dell’investimento dei soci, ma al migliore soddisfacimento delle ragioni dei creditori esistenti al momento dell’insolvenza (ancorché reversibile), seppure nella continuazione dell’impresa.
Dunque, in presenza di una insolvenza reversibile, vi è l’obbligo degli amministratori di avviare, quanto meno, un procedimento di composizione negoziata; ciò in particolare in tutti casi in cui (come generalmente avviene) la società ha perso integralmente il capitale. In queste ipotesi, infatti, la migliore soddisfazione delle ragioni creditorie implica la prosecuzione dell’attività (in un’ottica di risanamento), per cui è necessario bloccare gli effetti della causa di scioglimento.
Infine, in caso di insolvenza ormai irreversibile, gli spazi di manovra degli amministratori si riducono drasticamente: agli amministratori resta solo la scelta tra liquidazione giudiziaria o l’accesso ad uno degli strumenti di regolazione dell’insolvenza previsti dall’ordinamento, nell’ambito dei quali, il patrimonio deve essere gestito nell’interesse prioritario dei creditori, in un’ottica di liquidatoria.
Di fronte ad una allegazione di inadempimento o di inesatto adempimento dell’obbligo in questione, sarà onere dell’amministratore dimostrare di avere adempiuto in modo soddisfacente allo stesso. In proposito, relativamente agevole può essere la prova di aver intrapreso le iniziative finalizzate a superare la crisi di impresa (sempre che vi siano state); in questo caso, infatti, le misure adottate dall’amministratore (composizione negoziata, domanda di concordato o trattative per uno qualsiasi degli strumenti di regolazione della crisi di impresa) possono essere documentate, né è agevole sindacare la decisione di intraprendere l’uno piuttosto che l’altro strumento di regolazione, soprattutto qualora (come generalmente accade) la scelta sarà stata assunta con l’ausilio di un professionista terzo, al giudizio del quale l’amministratore, attesa la particolare complessità della materia, non potrà che rimettersi in larga misura.
In ogni caso, difficilmente l’amministratore potrà andare esente da responsabilità qualora – a seguito di messa in liquidazione della società – non vi sia stato il tentativo di intraprendere alcuno dei numerosi strumenti di regolazione della crisi di impresa previsti dal CCII , a meno che questi dimostri che la crisi ha avuto una genesi così improvvisa e inaspettata da non consentire alcuna iniziativa per farvi fronte.
3.6 Il dovere di trasparenza. Gli interessi degli amministratori
Gli amministratori privi di deleghe sono inoltre tenuti in ogni caso rispettare gli obblighi imposti a tutti gli amministratori dall’art. 2391 c.c. Tale norma, con l’obiettivo di garantire massima trasparenza, impone all’amministratore interessato di comunicare l’esistenza in una determinata operazione della società di ogni interesse per conto proprio o di terzi, agli altri amministratori ed al collegio sindacale.
La comunicazione deve essere esaustiva, in quanto deve precisare la natura, i termini l’origine e la portata dell’interesse, in modo da consentire una valutazione consapevole dell’operazione. L’informazione deve essere tempestiva e può essere resa anche in occasione della riunione di consiglio, alla presenza dei componenti del collegio sindacale
Se l’interesse riguarda un amministratore delegato, questi deve astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale. In tal caso, come in tutti i casi in cui l’operazione rientri nella competenza o sia comunque sottoposta alla deliberazione consiliare, ricade sul CdA l’obbligo di motivare adeguatamente le ragioni e la convenienza per la società. Se invece l’interesse concerne l’amministratore unico, quest’ultimo ne deve dare notizia alla prima assemblea utile.
Gli obblighi di trasparenza e informazione degli amministratori operano anche quando l’operazione che coinvolge un interesse degli stessi non è pregiudizievole per la società.
Secondo l’opinione prevalente, l’amministratore in conflitto di interessi può esercitare il diritto di voto avendo presente l’interesse della società, nel rispetto del generale dovere di diligenza degli organi gestori.
Nel caso in cui una delibera del CdA o del comitato esecutivo violi egli obblighi di informazione e di adeguata motivazione sopra richiamati, e sia assunta con il voto determinante dell’amministratore portatore di interesse, la stessa può essere impugnata dagli amministratori e il collegio sindacale, nel termine di 90 giorni dalla data della delibera.
Se sono stati adempiuti gli obblighi informativi, la legittimazione a impugnare non spetta agli amministratori che hanno consentito alla delibera, i quali sono eccezionalmente legittimati in caso di omessa informativa.
L’omissione, l’insufficienza o il ritardo dell’informazione espone l’amministratore alla responsabilità per danni, ai sensi dell’art. 2391, quarto comma, c.c.;
Per quanto riguarda le S.r.l., l’art. 2475-ter c.c. prevede una disciplina parzialmente diversa del conflitto di interessi degli amministratori, stabilendo:
- al primo comma il principio generale dell’annullabilità dei contratti conclusi dagli amministratori che hanno la rappresentanza della società in conflitto di interesse, per conto proprio o di terzi con la medesima, su domanda della società, se il conflitto era conosciuto o conoscibile dal terzo;
- al secondo comma la disciplina dell’impugnazione delle decisioni assunte con il voto determinante dell’amministratore in conflitto di interessi con la società, riconoscendo la legittimazione agli amministratori o ai sindaci o al revisore legale quando nominati e subordinando l’esperibilità dell’azione al verificarsi di un effettivo danno patrimoniale.
La fattispecie di cui all’art. 2475-ter c.c. è pertanto caratterizzata dalla esistenza di un interesse personale divergente da quello della società, a differenza di quanto previsto per le S.p.a., ove la disciplina, in punto di obblighi di informazione e motivazione, trova applicazione in presenza di un qualsiasi tipo di interesse, ancorché non in contrasto con quello della società; l’impugnazione della decisione nella S.r.l. è quindi condizionata alla sussistenza di un danno effettivo e non meramente potenziale.
Ulteriore differenza tra le due discipline è data dal fatto che l’art. 2475-ter c.c. non prevede alcun obbligo di comunicazione né di astensione volti a prevenire abusi da parte degli amministratori, probabilmente spiegabile con la circostanza che generalmente nella S.r.l. si riscontra sostanziale coincidenza tra le persone dei soci e quelle degli amministratori.
4. La responsabilità degli amministratori privi di delega
Il sistema delle responsabilità degli amministratori è articolato e graduato a seconda del ruolo effettivamente svolto nell’organizzazione societaria, nella quale sono generalmente gli organi delegati a lavorare a tempo pieno acquisendo, per tal motivo, piena e completa conoscenza delle dinamiche aziendali.
La delega costituisce un’attenuazione della regola della responsabilità solidale degli amministratori prevista per il modello di organizzazione pluripersonale; i delegati sono responsabili direttamente in relazione alle attribuzioni loro delegate, mentre i deleganti beneficiano di una limitazione della loro responsabilità diretta, in relazione alla violazione del dovere di controllo.
In questo senso, l’art. 2392 comma 1 c.c. prevede che gli amministratori sono solidalmente responsabili nei confronti della società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori.
L’incarico gestorio crea un vincolo di solidarietà tra gli amministratori, che sono tutti sono contitolari dell’obbligo di gestire la società nel rispetto della legge e dello statuto; la delega ha l’effetto di limitare e interrompere la situazione condebitoria in cui si trovano i membri dell’organo amministrativo.
Dunque, gli amministratori non sono responsabili in via solidale per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri a essi imposti dalla legge e dallo statuto e del dovere di diligenza, qualora alcune delle funzioni proprie del CdA siano state delegate. Il vincolo di solidarietà viene meno qualora i danni arrecati alla società siano relativi a funzioni delegate dal CdA agli organi delegati.
La responsabilità degli amministratori privi di deleghe operative non discende da una generica condotta di omessa vigilanza – che darebbe luogo ad una responsabilità sostanzialmente oggettiva – ma si ricollega a comprovati inadempimenti degli obblighi su di essi gravanti.
L’art. 2392, 2° comma c.c. non prevede più il dovere di vigilare sul generale andamento della gestione, ma prevede che gli amministratori sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’art. 2381 c.c.
Non è quindi sufficiente per gli amministratori deleganti, per andare esenti da colpa, affermare di non essere stati a conoscenza dei fatti pregiudizievoli, in tutti i casi in cui tale conoscenza potesse e dovesse essere acquisita attraverso il diligente adempimento di quanto previsto dall’art. 2381, 3° comma c.c., ossia attraverso la valutazione dell’assetto amministrativo, organizzativo e contabile della società, l’esame dei piani strategici e, soprattutto, la valutazione del generale andamento della gestione.
Invero, la procedimentalizzazione dell’attività di controllo da parte degli amministratori deleganti in relazione ai flussi informativi provenienti agli amministratori delegati (v. par. 3.1) è finalizzata a limitare il rischio di un coinvolgimento in responsabilità da parte degli amministratori privi di delega, sulla base del principio generale secondo cui gli amministratori estranei alla gestione non possono essere ritenuti responsabili, qualora gli stessi non abbiano avuto conoscenza (o, comunque, non siano stati messi nella condizione di conoscere) eventuali fatti di mala gestio e/o condotte lesive compiuti da parte degli organi delegati.
Così ad es. la responsabilità addebitabile agli amministratori in sede di approvazione del progetto di bilancio (che è prerogativa collegiale dell’intero CdA) non comporta una responsabilità solidale e diretta di tutti gli amministratori, in quanto in caso di gestione delegata i documenti di bilancio contengono la rappresentazione di una gestione altrui e cioè il resoconto dell’attività solta non da tutti gli amministratori ma da quelli cui è stata affidata la gestione sociale. La responsabilità degli amministratori deleganti sorge quindi quando essi, in base alle loro specifiche competenze e alla diligenza dovuta (art. 2932 comma 1 c.c.) nell’esaminare la bozza del progetto di bilancio loro preventivamente inviato, avrebbero potuto rendersi conto di eventuali falsità o, se il CdA fosse stato informato dall’amministratore delegato di eventuali carenze o omissioni nel progetto di bilancio, avrebbero potuto chiedere integrazioni o rettifiche dello stesso.
La conoscenza di fatti pregiudizievoli può derivare gli amministratori deleganti prevalentemente da quanto riferito loro dagli amministratori delegati in occasione della relazione periodica al CdA, ma anche in seguito dell’esercizio del potere previsto dall’art. 2381, 6° comma c.c., di chiedere agli organi delegati che in CdA siano fornite informazioni sulla gestione della società. Gli amministratori deleganti, cioè, non possono andare esenti da responsabilità semplicemente affermando di non essere intervenuti perché non a conoscenza di fatti pregiudizievoli, per non aver ricevuto sufficienti informazioni dagli organi delegati, in tutti i casi i cui fossero tenuti a richiedere un supplemento di informazione alla luce di elementi tali da mettere in allarme un amministratore delegante diligente (v. par.3.4). Non potrà invece essere contestata agli amministratori deleganti una responsabilità per omissione del dovere di agire in modo informato in tutti quei casi in cui non fossero presenti, in quel momento, indici tali da indurre un amministratore diligente a richiedere un supplemento di informazione.
La responsabilità degli amministratori deleganti può quindi verificarsi nelle seguenti ipotesi:
- per le materie non delegabili o non delegate;
- per le materie che, sebbene delegate, gli amministratori delegati abbiano comunque sottoposto a delibera del CdA;
- per l’inosservanza del generale dovere di corretta amministrazione, di diligenza e di perseguire l’interesse sociale (art. 2932 comma 1 c.c.);
- per l’inosservanza dei doveri tipici degli amministratori deleganti, ovvero del dovere di controllo (art. 2381 comma 3 c.c.), dovere di agire in modo informato (art. 2381 comma 6 c.c.,) e dovere di intervento (art. 2392 comma 2 c.c.).
L’art. 2392, 3° comma c.c. prevede poi un ulteriore caso di limitazione di responsabilità per gli amministratori dissenzienti e non colpevoli: questi, possono sottrarsi alla responsabilità solidale facendo annotare senza ritardo il proprio dissenso rispetto a una delibera consiliare nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio e dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale.
La formalizzazione del dissenso da parte dell’amministratore rispetto agli atti che questi ritenga dannosi per la società rappresenta il comportamento minimo che l’amministratore deve adottare per andare esente da responsabilità e riveste una duplice funzione: in primo luogo, consente all’amministratore dissenziente di costituirsi una prova da produrre nell’eventuale sede di accertamento della propria responsabilità; in secondo luogo, e soprattutto, ha la funzione di indurre gli altri amministratori a ponderare sulle deliberazioni adottate e di provocare eventuali ripensamenti.
Il solo dissenso, seppure espresso nelle forme richieste, non è sufficiente a esonerare da responsabilità gli amministratori che non sono immuni da colpa, ossia se non hanno fatto tutto quanto in loro potere in adempimento dei loro doveri, tanto quelli specifici posti in modo differenziato a carico degli amministratori delegati e di quelli deleganti, quanto il dovere generale previsto dall’art. 2392, 2° comma c.c., di impedire il compimento o eliminare le conseguenze di un fatto pregiudizievole di cui fossero a conoscenza.
In definitiva, pertanto, gli amministratori privi di deleghe, al fine di evitare di incorrere in responsabilità, devono:
- agire in modo informato, come previsto dall’art. 2381, sesto comma. c.c., esercitando tutte le prerogative che siano correlate all’adempimento di tale dovere;,
- intervenire, come previsto dall’art. 2392, secondo comma, c.c., per impedire il compimento di fatti pregiudizievoli o attenuarne le conseguenze dannose, quando ne siano effettivamente a conoscenza; tale conoscenza può derivare direttamente dalle relazioni dei deleganti o da segnali di allarme;
- annotare senza ritardo il proprio dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del CdA e dare immediata notizia per iscritto di tale dissenso al presidente del collegio sindacale, come stabilito dall’art. 2392, terzo comma, c.c.
Nella qualificazione della responsabilità degli amministratori, inoltre, assume rilievo la circostanza che la legge impone loro di agire con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, così da garantire che le scelte attuate dagli amministratori siano informate, meditate e basate sulle rispettive conoscenze. Ai fini della delimitazione delle responsabilità, ciò implica che occorre considerare, oltre alle caratteristiche dell’attività di impresa, le tipologie di incarichi affidati ai singoli amministratori e le competenze proprie di ciascun amministratore determinate rispetto all’operazione, alla delibera, all’affare concretamente posti in essere.
L’assunzione di responsabilità si radica a partire dal momento dell’assunzione della carica e, in linea di principio, non ha effetto retroattivo; tuttavia, gli amministratori sono responsabili se omettono di rilevare e di porre rimedio alle irregolarità compiute da amministratori precedenti. Del pari, l’amministratore di una società che, succedendo ad altro amministratore e ricevendo una gestione affetta da gravi irregolarità, ometta del tutto di informare l’assemblea dei soci, è responsabile non già dell’attività dei precedenti gestori che hanno realizzato le irregolarità, ma della propria colpevole omissione.
5. Le responsabilità degli amministratori privi di deleghe nel gruppo di società
L’organo di amministrazione della capogruppo è responsabile:
- nei confronti della stessa capogruppo ai sensi dell’art. 2392 c.c.;
- in solido con la capogruppo ai sensi dell’art. 2497, primo comma, c.c., nei confronti della società eterodiretta, dei soci e dei creditori di quest’ultima, laddove siano stati violati i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società eterodirette, in assenza per queste ultime della realizzazione di alcun vantaggio compensativo.
Gli amministratori della società eterodiretta, ferme restando specifiche indicazioni contenute nei regolamenti di gruppo, rispondono nei confronti della società controllata:
- per i pregiudizi arrecati in via autonoma per aver svolto il proprio incarico in violazione del principio di diligenza di cui all’art. 2392 c.c.;
- per i danni derivanti dall’esercizio abusivo dell’attività di coordinamento, ovvero quando siano violati i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società eterodirette senza che per esse il danno possa essere compensato da alcun vantaggio (art. 2497, secondo comma, c.c.).
Ciò implica che l’organo di amministrazione della società eterodiretta deve attentamente valutare la legalità, la ragionevolezza e la congruità delle operazioni compiute a livello di gruppo, in modo da individuare sia delle ricadute negative per gli interessi per la società eterodiretta, sia dei riflessi positivi che a quest’ultima possano derivare dalla partecipazione al gruppo.
I doverosi poteri degli amministratori privi di deleghe rispetto alle operazioni compiute dai delegati, pertanto, non subiscono significative alterazioni quando la società faccia parte di un gruppo.
Gli amministratori privi di deleghe della società eterodiretta dovranno prestare particolare attenzione e chiedere supplementi di informazioni agli organi delegati in occasione dell’assunzione di delibere relative a operazioni di maggior rilievo strategico per il gruppo, rispetto alle quali l’organo di amministrazione della holding abbia impartito direttive, istruzioni o atti di indirizzo vincolanti.
Al riguardo, l’art. 2497-ter c.c. prevede che le decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento, quando influenzate dalla holding, e dunque assunte al fine della realizzazione del disegno imprenditoriale e strategico del gruppo, devono essere analiticamente motivate e recare puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione.
Nell’esporre analiticamente le ragioni dell’operazione, gli amministratori devono dimostrare la corrispondenza dell’operazione alle ragioni imprenditoriali e agli interessi della controllata, anche in una logica di gruppo, segnalando l’eventuale esistenza di vantaggi compensativi rispetto alla probabile emersione di un futuro danno per la società.
A tale regola devono attenersi i delegati della società eterodiretta quando la decisione sia influenzata dall’attività di direzione e coordinamento, considerando altresì che, come ha rilevato la giurisprudenza, l’autonomia gestionale della società eterodiretta non è annullata dalla partecipazione al gruppo e dalla realizzazione del programma comune e che, per tal motivo, gli amministratori della società eterodiretta possono pur sempre disattendere le direttive impartite dalla capogruppo quando esse siano potenzialmente lesive degli interessi tutelati dall’ordinamento.
Anche in questo caso, occorrerà intensificare il flusso informativo tra holding e società eterodiretta di modo che gli amministratori di quest’ultima possano effettuare specifiche valutazioni circa i motivi (di fatto e di diritto) posti alla base della decisione influenzata.
I doveri degli amministratori privi di deleghe rispetto alle operazioni compiute dai delegati non subiscono quindi significative alterazioni quando la società faccia parte di un gruppo. In tale ambito, l’amministratore privo di deleghe deve esigere un set informativo adeguato, che gli consenta di comprendere se la decisione proposta comporti vantaggi o svantaggi per la controllata, e nel secondo caso se sussistano e siano specificati i vantaggi compensativi di gruppo.
Nel caso in cui non sussistano vantaggi compensativi, o, a giudizio dell’amministratore, tali vantaggi non siano adeguati, egli dovrà comunque farlo rilevare, promuovendo lo sviluppo di una dialettica tra la società controllata e la controllante volta a riequilibrare gli effetti della proposta di delibera.
In relazione alla limitazione della responsabilità ascrivibile all’amministratore privo di deleghe, assume particolare rilevanza la predisposizione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato. Il protocollo organizzativo, al pari del protocollo istruttorio-informativo, costituiscono infatti i due presupposti di applicazione del principio della insindacabilità del merito delle scelte gestorie (c.d. business judgement rule).
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Avv. Valerio Pandolfini
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