Quando i soci litigano: come prevenire e risolvere i conflitti e le situazioni di stallo decisionale nelle società (deadlock)
La conflittualità tra soci non è un evento raro o eccezionale, ma, al contrario, una fase prevedibile, e per certi versi normale, nell’arco di vita di una società. I litigi tra soci di società possono insorgere in scenari molto diversi e sono influenzati da molti fattori, tra i quali la dimensione della società, il numero di soci e i rapporti di forza tra gli stessi.
Generalmente si contrappongono un socio (o un gruppo di soci) che detengono la maggioranza del capitale, a un altro socio (o gruppo di soci) di minoranza. Ma possono ricorrere altre situazioni “a rischio”, quali ad esempio la presenza di due soci paritetici, che provocano situazioni di stallo decisionale (deadlock), a causa del mancato raggiungimento delle maggioranze necessarie per assumere determinate decisioni (al livello sia gestorio che assembleare), a sua volta derivante dal dissenso tra i soci o dal loro disinteresse nei confronti dell’attività d’impresa. Quale ne sia l’origine, le liti tra soci disturbano inevitabilmente la conduzione aziendale, fino a determinare non di rado, soprattutto che nelle PMI, la crisi dell’impresa, con conseguente perdita di valore degli asset e/o delle quote di partecipazione. Vi sono, tuttavia, alcuni strumenti che possono (e devono) essere utilizzati per prevenire o risolvere i dissidi tra soci di società. Tali strumenti devono essere conosciuti dai soci, e devono essere impiegati con l’ausilio di professionisti validi ed esperti, capaci di aiutare i soci a superare il dissidio in tempi brevi, salvaguardando il futuro della società ed evitando ripercussioni negative. Analizziamo i principali strumenti idonei a permettere il superamento delle situazioni litigiose tra i soci di società.
1. I conflitti tra soci di società: da dove nascono
Spesso si pensa che una società (sia essa di persone o di capitali), una volta costituita, duri per sempre; che, cioè, l’intesa, la fiducia che sussisteva tra i soci al momento in cui hanno dato luogo ad una società duri indefinitamente nel tempo. Ma l’esperienza insegna che ciò non sempre avviene, ed anzi che non avviene quasi mai.
Viene infatti quasi sempre, nell’arco della durata di una società, un momento in cui l’accordo, la fiducia tra io soci, che caratterizzava la società nel momento in cui è stata costituita, e che magari l’ha caratterizzata per molti anni, viene inevitabilmente meno.
Dopo anni di lavoro insieme, di progetti, di sudore e fatiche condivise, viene infatti, prima o poi, un momento in cui l’equilibrio tra i soci si rompe. La conflittualità tra soci non può essere considerata come un evento occasionale o eccezionale, ma, al contrario, come una fase prevedibile, e per certi versi normale, nell’arco di vita di una società.
Talvolta, si tratta di un momento di tensione passeggero e temporaneo, che viene risolto più o meno facilmente e velocemente, perché prevale nei soci il buon senso e la volontà di conservare il patrimonio comune; altre volte, nascono conflitti molto aspri, che, se non risolti, possono portare la società al suo scioglimento.
In particolare, quando la società coinvolta dal litigio è una piccola e medie azienda, la situazione conflittuale, specie se protratta a lungo, è molto pericolosa per la sopravvivenza stessa della società, che rischia di soccombere se non venga trovata una soluzione al dissidio in tempi brevi. Ma, in generale, una situazione di litigio tra soci è dannosa per qualsiasi società, anche di medio-grandi dimensioni, in quanto la società subisce in ogni caso ripercussioni negative di tipo economico e/o reputazionale.
Certamente, infatti, comunque vadano le cose tra i soci, una situazione di dissidio tra di essi provoca inevitabilmente uno sconfitto: la società, che subisce inevitabilmente una diminuzione, più o meno grave, della propria capacità di produrre reddito e di creare posti di lavoro, con tutto ciò che ne consegue. Tanto maggiore è la durata del conflitto tra soci, tanto maggiori e gravi saranno le ferite che l’azienda dovrà curare alla fine del litigio.
Le liti tra i soci possono insorgere per cause molto diverse e sono influenzate da molti fattori, fra i quali, i più importanti sono:
- una diversa visione del futuro della società;
- diversi interessi economici dei soci;
- mutamento della compagine sociale;
- passaggi generazionali;
- momenti economici di difficoltà della società o, al contrario, particolarmente floridi.
Spesso, lo scenario in cui litigi tra soci avvengono è contraddistinto da una contrapposizione tra un socio (o un gruppo di soci) in grado di aggregare la maggioranza del capitale, e un altro socio (o gruppo di soci) di minoranza.
Ma uno scenario conflittuale può avvenire -ed è questo anzi lo scenario più complesso da risolvere –all’interno delle società costituite da due soci paritetici al 50% e, magari, legati, anche da rapporti, diretti o indiretti, di parentela.
Alcune liti riescono a comporsi in modo relativamente veloce, perché prevale nei soci la volontà di conservare l’impresa, e di superare i conflitti.
In altri casi, invece – che purtroppo statisticamente rappresentano la maggior parte – nascono conflitti che non si riescono a superare, e che aumentano di intensità con il passare del tempo, fino ad assomigliare, nei toni e nei modi, ai peggiori litigi tra coniugi.
In ogni caso, quale ne sia l’origine, le liti disturbano – inevitabilmente – la conduzione aziendale, fino a determinare, non di rado, soprattutto che nelle piccole e medie società, la crisi dell’impresa, con conseguente perdita di valore degli asset e/o delle quote di partecipazione.
Alcuni imprenditori accorti (o comunque consigliati da consulenti capaci) regolamentano la possibilità di un contrasto tra soci fin dall’inizio, dal momento della stesura dello statuto e/o dei patti parasociali, nei quali possono essere opportunamente inserite clausole utili a risolvere le liti (v. par.3).
Ma spesso nella fase di costituzione della società, i soci, anziché incaricare un professionista di redigere uno statuto “su misura”, nel quale vengano regolamentate anche le situazioni di possibile dissenso futuro, utilizzano uno statuto “standard”, proposto dal notaio o dal commercialista, senza porvi particolare importanza perché assorbiti dal nuovo progetto imprenditoriale.
Quando i soci non hanno avuto la lungimiranza di regolamentare situazioni di dissenso nello statuto o in atto parasociale, il diritto societario non offre uno strumento che consenta la rapida composizione dei contrasti tra soci, una volta insorti, come invece accade nel diritto di famiglia (divorzio, decadenza della potestà genitoriale, etc.) o per i diritti di proprietà (divisione, imposizione forzosa di servitù su di un fondo, etc.).
Il conflitto tra i soci – quando è forte ed insanabile – può essere risolto solo con un accordo tra i soci stessi; in particolare, con la fuoriuscita di uno o più soci, tramite una cessione di quote. Ma tale accordo è molto spesso difficile tra trovare, dato il dissenso tra i soci (ad esempio, tipicamente, sul prezzo di cessione delle quote).
Ed ecco che, allora, il socio che non riesca ad ottenere la liquidazione della propria partecipazione alle condizioni desiderate promuove una serie di azioni processuali “di disturbo”, finalizzate ad indurre gli altri soci a raggiungere l’accordo. Tali azioni possono includere, ad esempio, reiterate e defatiganti richieste di informativa e consegna documenti, il rifiuto di approvazione e/o l’impugnazione del bilancio, la richiesta di attribuzione di utili non percepiti, diffide, denunce, dimissioni dalla carica amministrativa, azioni di responsabilità, rifiuto di compimento di atti, opposizione ai sensi dell’art. 2257, 2° comma, c.c.
A tali azioni, naturalmente, gli altri soci a loro volta reagiscono (non solo resistendo in giudizio ma ad esempio deliberando o cercando di deliberare aumenti di capitale finalizzati a “diluire” la partecipazione del socio divenuto scomodo).
Talvolta, si riesce a giungere ad una composizione del conflitto, con la fuoriuscita dalla compagine sociale di uno o più soci, dopo lunghi, costosi e più o meno sanguinosi contenziosi giudiziari. Altre volte (non infrequenti), viceversa, i conflitti provocano, a lungo andare, lo scioglimento della società, con conseguente perdita di valore della stessa e quindi delle quote di partecipazione dei soci.
2. Le situazioni di stallo decisionale (deadlock) nelle società: cos’è, da dove nasce e quali conseguenze può avere
Nelle società – siano esse di persone o di capitali – le situazioni di stallo decisionale (deadlock) sono piuttosto frequenti. Tali situazioni si verificano quando i soci non raggiungono le maggioranze necessarie per assumere determinate decisioni (al livello sia gestorio che assembleare), a causa del dissenso di uno o più soci o del loro disinteresse nei confronti dell’attività d’impresa.
Si verifica appunto una situazione di stallo decisionale quando in una società non si riescono a raggiungere, per un periodo di tempo significativo, i quorum assembleari (costitutivi e/o deliberativi) riguardanti decisioni essenziali nella vita della società (come ad esempio l’approvazione del bilancio, la nomina degli organi societari, proposte di ricapitalizzazione della società, modifiche statutarie etc.),o le decisioni in seno al CdA, a causa di contrasti gravi e apparentemente insanabili tra i soci.
Ciò accade frequentemente nelle società caratterizzate dalla partecipazione di soci paritetici (50%-50%),con conseguente sostanziale bilanciamento dei voti in capo agli stessi. In tali contesti – tipici delle società personali e delle S.r.l. di piccole dimensioni – i contrasti gestionali sono difficilmente risolvibili col principio maggioritario.
Ma una situazione analoga può anche accadere in altri casi, come ad esempio:
- quando vi sia una ripartizione di azioni o quote all’interno della società che possono portare al bilanciamento di voti (ad esempio un socio al 50% e due soci al 25% quattro soci al 25%, etc.);
- o quando i soci di minoranza riescano, in virtù del loro particolare peso all’interno della società, ad imporre (nello statuto o nei patti parasociali) maggioranze qualificate per determinate decisioni, condizionando con il proprio consenso l’adozione di determinate delibere(ad esempio tre soci con partecipazioni 30%-30%-40%, con quorum per certe decisioni fissato al 75%).
I dissidi tra i soci possono verificarsi per i più vari motivi, non necessariamente attinenti alla gestione aziendale; spesso essi emergono o sono acuiti in situazioni di crisi aziendale (quando i soci ad esempio non sono d’accordo circa la possibile linea da seguire per uscire dalla crisi), o, all’opposto, in situazioni in cui la società ottiene risultati particolarmente brillanti (quando ad esempio un socio è interessato ad uscire dalla società valorizzando al massimo la propria partecipazione).
Gli strumenti attraverso i quali un socio può manifestare il proprio dissenso o disinteresse, mettendo in difficoltà gli altri soci ed ostacolando l’operatività della società (strumenti che possono portare allo stallo decisionale delle società), sono molteplici: ad esempio, può rifiutare di approvare il bilancio, e/o impugnare la relativa delibera di approvazione; può rifiutarsi di deliberare la vendita di un importante cespite, o un importante investimento della società; può rifiutarsi di approvare un aumento di capitale, etc.
Frequenti sono poi i casi di comportamenti ostruzionistici, come la richiesta di pagamento di supposti utili non percepiti, diffide, denunce, dimissioni dalla carica amministrativa, rifiuto di compimento di atti, richiesta di documenti e di ispezioni contabili, etc.
Le situazioni di stallo societario delle società sono potenzialmente pericolose.
Il disaccordo tra i soci, specie se continuo e ripetuto, può essere notato dagli stakeholders, che così possono cominciare a dubitare della continuità aziendale. Possono sorgere problemi pratici che intralciano operativamente l’impresa.
Nei casi più gravi, in assenza di rimedi, si può giungere alla paralisi generale delle attività, con conseguente scioglimento della società e perdita del valore degli asset e/o del valore delle quote di partecipazione.
Esaminiamo il seguente caso pratico.
La società Alfa S.r.l. svolgeva attività di commercio al dettaglio di abbigliamento per adulti nell’immobile di proprietà, ed era composta dai soci Tizio e Caio, con partecipazioni del 50% ciascuno. Dato Il pessimo andamento del business, l’attività di commercio al dettaglio viene cessata, e la società prosegue l’attività locando l’immobile di proprietà e mutando la compagine sociale, nella quale subentrano i figli dei soci fondatori, Mevio e Filano, con la stessa quota di partecipazione del 50% ciascuno. Amministratore unico di Alfa è Mevio. Lo statuto sociale, rimasto immutato, prevede che l’assemblea ordinaria, tanto in prima che nell’eventuale seconda convocazione, deliberi con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino la maggioranza del capitale sociale. Tra Mevio e Filano, diversamente che tra i precedenti soci, non corre buon sangue. Filano, a causa dei dissensi con Mevio, non è più interessato all’attività sociale, ed intende disfarsi della propria partecipazione; non riuscendo a trovare terzi interessati all’acquisto della quota, propone la vendita a Mevio, ma i due non si trovano d’accordo sul prezzo di acquisto. Dopo una serie di inutili tentativi per raggiungere un’intesa sulla cessione, Mevio inizia una serie di azioni giudiziarie di disturbo nei confronti di Mevio, che si trascinano senza pervenire ad un risultato inutile. Mevio a questo punto decide di non approvare il bilancio di Alfa, la quale alla fine si scioglie.
Purtroppo, raramente i soci prevedono l’accadere di simili situazioni in sede di costituzione della società – trovandosi inizialmente in una situazione di comunione di intenti e di condivisione di obiettivi – e conseguentemente spesso non prevedono accorgimenti idonei a risolverle. In tal modo, quando il contrasto gestionale si verifica e diviene insanabile, le conseguenze sono spesso gravi ed irreversibili.
E, viceversa, molto più utile risolvere le situazioni di stallo decisionale delle società (deadlock) attraverso specifiche ed idonee previsioni pattizie ex ante – cioè inserite al momento della costituzione della società, nello statuto e/o nei patti parasociali – volte alla risoluzione dell’eventuale contrasto, e preservare la funzionalità e la continuità dell’impresa.
Nella prassi italiana le tecniche anti-stallo sono utilizzate nella maggior parte dei casi da società di dimensioni medio-grandi, ma si prestano in realtà ad essere inserite negli statuti e nei patti parasociali di tutte le società.
3. Tecniche di soluzione preventiva dei dissidi tra soci: clausole anti-stallo, casting votes, intervento di un terzo
Come accennato, è possibile prevedere, nello statuto della società e/o nei patti parasociali, meccanismi finalizzati ad impedire e/o a risolvere efficacemente situazioni di conflitto tra soci, quelli in modo da mantenere in vita il rapporto associativo.
Anzitutto, si possono prevedere (nello statuto e/o nei patti parasociali) clausole anti-stallo, che prevedono la reiterazione dei tentativi di giungere ad una soluzione concordata (ad esempio si può prevedere un periodo di riflessione, e/o lo svolgimento di successive riunioni) e, in caso di fallimento di tali tentativi, una escalation del livello decisionale (ad esempio, si può prevedere che in caso di mancato accordo degli amministratori la decisione venga rimessa all’assemblea dei soci).
È possibile poi introdurre dei meccanismi che prevedono in caso di stallo per bilanciamento di voti la prevalenza della volontà di una delle parti (casting vote); in tal caso si attribuisce al voto di un socio la prevalenza su quello degli altri soci, nelle delibere attinenti determinate materie.
Tali meccanismi non sono peraltro di facile introduzione, in quanto implicano che uno dei soci accetta, di fatto, una posizione subordinata all’altro socio.
Un’altra possibilità consiste nel prevedere l’intervento di un terzo indipendente per risolvere le eventuali divergenze circa scelte operative, fungendo in tal modo da ago della bilancia. Il terzo può essere intestatario in via fiduciaria di una (minima) parte del capitale sociale, con relativo mandato a votare, in caso di stallo, nell’interesse esclusivo della società, in modo da risultare decisivo nell’ambito dei voti contrapposti dei soci e garantire continuità di funzionamento dei meccanismi decisionali della società
Tale strumento può essere efficace quando il contrasto tra soci è limitato alla decisione sul compimento di singoli atti di gestione, ma non sono idonei a risolvere i dissidi che riguardano la complessiva gestione della società. Inoltre, il socio in minoranza potrebbe comunque mettere in dubbio il corretto adempimento del mandato fiduciario da parte del terzo. Senza contare soci sono spesso riluttanti ad ammettere che un terzo si intrometta nella gestione della società.
4. La regolamentazione della fuoriuscita del socio: le opzioni put e call
Qualora la situazione di conflitto si rivela insanabile e renda non più utilmente praticabile il perseguimento degli scopi comuni, vi sono poi delle soluzioni che possono essere previste nello statuto e/o nei patti parasociali per regolamentare lo scioglimento del rapporto tra i soci e la società, ovvero la cessione della partecipazione societaria, risolvendo, in tal modo, il conflitto (buy-sell provisions).
In tal modo, il socio dissidente o disinteressato (che dà luogo alla situazione di impasse societario) viene messo nella condizione di abbandonare la compagine sociale o, qualora lo dovesse ritenere maggiormente conveniente, procedere a propria volta all’acquisto della partecipazione dell’altro socio.
Naturalmente, a tale risultato i soci potrebbero sempre pervenire attraverso una negoziazione tra loro, una volta insorta la situazione di impasse. Una trattativa diretta tra le parti ha senza dubbio il vantaggio di creare piattaforme negoziali articolate (in termini di prezzo, termini di pagamento, liquidazione di posizioni e ruoli pregressi, tempi di realizzazione dell’operazione, etc.) che possono essere ritagliate sulle esigenze e sulle capacità finanziarie delle parti coinvolte.
Tuttavia, in situazioni di stallo tali trattative sono generalmente difficili (ad esempio perché il socio dissenziente tende ad alzare la valutazione della propria quota ben oltre il valore di mercato della stessa) e comunque implicano tempi mediamente lunghi.
È quindi preferibile prevedere ex ante (cioè prima del sorgere della situazione di stallo, nello statuto e/o nei patti parasociali) la way-out di un socio attraverso determinate clausole. La più frequentemente utilizzata è quella che prevede opzioni di put-call.
L’opzione put e l’opzione call sono accordi che pongono un limite alla libera circolazione delle partecipazioni sociali: esse hanno infatti la funzione di attribuire ad una delle parti, rispettivamente, il diritto di alienare o acquistare una certa quantità di azioni o quote ad un prezzo prestabilito (o comunque determinabile) ad una scadenza fissata (od entro la stessa), dietro versamento di un premio che costituisce il prezzo dell’opzione.
In particolare:
- con l’opzione put (opzione di vendita) si conferisce ad un soggetto il diritto di scegliere se vendere o meno, ad una data scadenza, azioni o quote ad un prezzo prefissato;
- con l’opzione call (opzione di acquisto), per converso, si riconosce il diritto di acquistare una determinata quantità di azioni o quote ad un certo prezzo e ad una certa data o entro un determinato periodo.
Dunque, l’opzione put attribuisce ad un socio il diritto di vendere l’intera propria partecipazione o parte di essa ad un prezzo determinato o determinabile, mentre l’opzione call concede ad un socio il diritto di acquistare la partecipazione sociale o le partecipazioni dell’altro ad un prezzo determinato o determinabile.
Tali opzioni possono essere previste in modo congiunto o incrociato (c.d. buy and sell agreement), in modo che un socio può essere obbligato ad acquistare le partecipazioni altrui o a vendere le proprie in risposta all’iniziativa assunta dall’altra parte. Chi assume l’iniziativa – perché tempestivo o perché è il soggetto cui è stata attribuita tale facoltà contrattualmente – si trova in una situazione di vantaggio, in quanto può imporre all’altro socio la soluzione che predilige.
La validità dell’opzione put, sotto il profilo del divieto del patto leonino, è stata più volte vagliata dalla giurisprudenza, che ne ha stabilito la legittimità sotto alcune condizioni e limiti, tra cui, appunto, il caso in cui tale opzione sia condizionata al verificarsi di una situazione di stallo decisionale delle società, in quanto espressione di un interesse alla buona gestione dell’impresa, e il fatto che le venga stabilito un prezzo congruo di esercizio dell’opzione, da cui non consegua l’esclusione del socio dalle perdite.
5. Russian roulette clause
Una variante delle opzioni put e call, che sempre più frequentemente viene prevista all’interno dei patti parasociali, è la clausola della c.d. roulette russa (Russian roulette clause). Si tratta di una clausola, di regola inserita in un patto parasociale, finalizzata a risolvere le fasi di stallo decisionale delle società derivanti, in particolare, dalla presenza di partecipazioni sociali paritetiche.
Tale clausola è finalizzata ad evitare, in situazioni di stallo deliberativo, la possibile liquidazione della società (che comporterebbe costi e lungaggini), attraverso il trasferimento di tutta o parte di partecipazione sociale da un socio ad un altro. Per effetto della clausola della roulette russa, in caso di deadlock un socio assume irrevocabilmente l’obbligo di vendere o di acquistare la partecipazione dell’altro socio.
Ciascun socio può formulare un’offerta di acquisto, ad un dato prezzo, della partecipazione dell’altro socio, mentre quest’ultimo, se non intende cedere la propria partecipazione, è obbligato ad acquisire quella del socio che ha operato la determinazione del valore.
La procedura viene attivata attraverso l’indicazione del prezzo e l’invito alla controparte ad esercitare, a quel prezzo, la scelta fra vendere la propria partecipazione o acquistare la partecipazione del proponente. Il processo di vendita può essere attivato da tutti i soci o solo da alcuni di essi. È possibile inoltre una combinazione intermedia, in base alla quale tale potere è attribuito a tutti i soci ma, in caso di inerzia, solo alcuni soci possono sollecitare in modo vincolante la proposizione di una prima offerta.
La Russian roulette clause può essere predisposta con molte varianti.
È ad esempio possibile prevedere che, dopo che un socio abbia presentato l’offerta di acquistare la partecipazione di un altro socio a un certo prezzo, la controparte possa accettare di vendere oppure sia obbligata a formulare una proposta di acquisto ad un prezzo maggiore rispetto a quello che gli era stato offerto (c.d. Texas shootout).
In alternativa, entrambe le parti devono consegnare una busta chiusa a un terzo, e chi ha offerto il prezzo maggiore, acquista le quote dell’altro (fairest sealed bid).
Ancora, è possibile prevedere un vero e proprio processo d’asta, consentendo al socio che propone l’offerta di acquisto o di vendita di rilanciare nel caso in cui chi riceva la prima offerta decida di acquistare.
In questi casi il prezzo della partecipazione potrebbe continuare a salire in relazione ai rilanci dei soci, finché un’offerta non verrà accettata.
Questa tecnica ha il vantaggio di fornire una soluzione rapida del deadlock e di non richiede la nomina di un terzo valutatore (a cui molto spesso si è costretti in caso di opzione put&call). Per tale motivo, la giurisprudenza è orientata a ritenere valida tale clausola, la quale introduce un meccanismo di risoluzione di una situazione si stallo decisionale, meritevole di tutela ad opera dell’ordinamento.
Il socio al quale perviene la proposta di acquisto può scegliere di cedere la propria quota al prezzo determinato dal socio che ha azionato la clausola, o, al contrario, di acquisire la quota di quest’ultimo; entrambe le parti hanno quindi la possibilità di determinare il prezzo della partecipazione, superando la necessità di un’equa valorizzazione della stessa. Sul piano pratico, chi offre di acquistare la quota ad un determinato prezzo non sa ancora se sia acquirente o venditore, e l’incertezza circa l’esito della trattativa dovrebbe indurlo a formulare una proposta di prezzo equa, per non subire egli stesso l’acquisto ad un prezzo troppo basso ove l’oblato invocasse il diritto di acquistare. Su queste basi, pertanto, il prezzo è tendenzialmente frutto di una libera ponderazione di ciascuna parte del proprio interesse.
Tuttavia, il meccanismo della Russian roulette può incoraggiare il socio più facoltoso a creare ad arte una situazione di stallo, per acquistare ad un prezzo basso la quota dell’altro socio. Infatti, se è vero che questo meccanismo incentiva generalmente il socio offerente a proporre un prezzo equo per l’acquisto delle quote dell’altro socio, potendo essere a sua volta costretto a vendere le sue quote (nel qual caso una valutazione al di sotto dei valori reali risulterebbe a lui svantaggiosa), qualora un socio fosse consapevole che l’altro socio non abbia la sua stessa disponibilità finanziaria, potrebbe formulare un’offerta di acquisto relativamente bassa- o comunque per lui conveniente e irraggiungibile per l’altra parte- costringendo comunque la controparte a vendere.
Per ovviare a tali inconvenienti, è opportuno prevedere un corrispettivo minimo da indicare nella prima offerta di acquisto, preventivamente determinato o determinabile tramite l’applicazione di una formula aritmetica o l’intervento di un arbitratore.
6. Il recesso del socio
Un altro efficace strumento normativo per definire una exit strategy, e dunque per prevenire le liti tra soci è la regolamentazione del diritto di recesso.
Il recesso è, come noto, l’atto unilaterale con il quale un socio ottiene lo scioglimento del vincolo sociale, cioè la fuoriuscita della società con cessazione della propria qualità di socio. In tal caso, il socio recedente ha diritto al rimborso del valore della partecipazione, calcolata al momento del recesso.
Il recesso da una società ha natura eccezionale, e come tale è esercitabile solo per alcune precise motivazioni previste dalla legge – e che variano a seconda del tipo di società – e dallo statuto.
Nelle società di persone (S.n.c., S.a.s., società semplici), ai sensi dell’art. 2285 c.c. un socio può recedere da una società solo con il consenso degli altri soci, oppure:
- quando la società è contratta a tempo indeterminato o ha durata pari a tutta la vita di uno dei soci;
- quando vi è una giusta causa, cioè quando vi è un comportamento scorretto da parte degli altri soci.
Al di fuori di tali casi, previsti dalla legge, lo statuto della società può prevedere e disciplinare ulteriori ipotesi in cui un socio può recedere dalla società, ad esempio collegati a dissidi tra soci.
Nelle società di capitali (S.p.A., S.r.l.), la legge (artt. 2473 e ) prevede una serie di ipotesi in cui il socio ha il diritto di recedere, tra le quali:
- la modifica dell’oggetto sociale;
- la trasformazione della società;
- modifiche dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione;
- durata della società a tempo indeterminato;
- la fusione o scissione.
Anche in questo caso, lo statuto può prevedere ulteriori ipotesi di recesso del socio rispetto a quelle previste dalla legge, come quelle appunto legate alla conflittualità insanabile insorta tra i soci.
7. La scissione societaria
Uno strumento che può essere assai utile per risolvere il dissenso tra soci è costituito dalla la scissione societaria, regolata dagli artt. 2506 e ss., c.c.,. Si tratta di un’operazione straordinaria che permette di scorporare una parte del patrimonio sociale a favore di un’altra società, già costituita o di nuova costituzione.
Con la scissione, infatti, si opera il trasferimento di tutto o parte del patrimonio della società che si scinde (società scissa) ad una o più altre società (società beneficiarie) e l’assegnazione da parte delle società beneficiarie di proprie azioni o quote ai soci della società che si scinde, i quali diventano, per conseguenza, soci delle società beneficiarie.
In sostanza, dunque, il patrimonio della società a cui partecipano i soci “litigiosi” viene trasferito ad una o più altre società, e in “contropartita”, ai soci viene attribuita una partecipazione al capitale della o delle società destinatarie dell’attribuzione. In questo modo, si ottiene una separazione, tra i soci, evitando il duplice passaggio della liquidazione della società originaria e della costituzione di più nuove società tra i medesimi soci.
Sono possibili varie forme di scissione, le quali posso essere classificate sulla base di diversi criteri:
- qualora l’operazione comporti un’integrale attribuzione del patrimonio sociale della società scissa a due o più società beneficiarie, con conseguente estinzione della scissa, si ha una scissione totale (split up), mentre qualora parte del patrimonio rimanga in capo alla scissa si ha una scissione parziale (split off); in quest’ultimo caso, ad alcuni soci possono essere riservate partecipazioni al capitale non della beneficiaria bensì della scissa (c.d. scissione asimmetrica).
- nel caso in cui la beneficiaria sia già esistente al momento del compimento dell’operazione si ha una scissione per incorporazione, mentre se la beneficiaria è una new-co allora si ha una scissione in senso stretto;
- se l’assegnazione delle partecipazioni al capitale delle beneficiarie è commisurata al peso di quelle detenute nella scissa si ha una scissione proporzionale, se ciò non si verifica si ha una scissione non proporzionale;
- se le società coinvolte appartengono tutte alla stessa categoria – ovvero se sono tutte società di persone o tutte società di capitali – si ha una scissione omogenea, in caso contrario una scissione eterogenea.
La scissione è infatti un istituto molto flessibile, in quanto si presta a rispondere a molteplici esigenze. In particolare, con la scissione asimmetrica non proporzionale è possibile procedere con una riorganizzazione della compagine sociale, ridefinendo gli assetti societari in modo da a risolvere un dissidio insorto tra soci (come pure, più in generale, le problematiche legate al passaggio generazionale dell’impresa). Con questo tipo di operazione, dunque, è possibile programmare l’uscita di uno o più soci da una società mediante l’attribuzione di beni a favore di una società beneficiaria, le cui quote vengono assegnate unicamente a tali soci “fuoriusciti”.
Ad esempio, immaginando che la società Alfa gestisca un patrimonio immobiliare costituito da 8 immobili di ugual valore e che sia partecipata da quattro soci, ciascuno proprietario del 25% del capitale della stessa, tra i quali vi siano contrasti tra due schieramenti di soci. Con l’operazione di scissione asimmetrica non proporzionale, sarà possibile dividere i due gruppi di soci dissenzienti, in modo che in Alfa rimangano due soci con 4 immobili (che parteciperanno in Alfa nella misura del 50% ciascuno) e nella società beneficiaria Beta, partecipata al 50% da ciascuno degli altri due soci, confluiscano gli altri 4 immobili.
Tale forma di scissione consente dunque di raggiungere una separazione condivisa tra i soci, mantenendo, seppur in società differenti, la continuità nello svolgimento dell’attività d’impresa. In altri termini, la scissione asimmetrica non proporzionale consente di operare una riorganizzazione aziendale tramite la quale viene raggiunta un’equa distribuzione del patrimonio sociale e l’autonomia decisionale dei soci, superando così i conflitti tra questi ultimi e il rischio di stallo gestionale.
Anche sotto l’aspetto fiscale l’operazione di scissione presenta notevoli vantaggi, in quanto si tratta di un’operazione fiscalmente neutra (ai sensi dell’art. 173 del TUIR) e il passaggio patrimoniale della società scissa a una o più società beneficiarie non determina, di per sé, la fuoriuscita degli elementi trasferiti da regime ordinario d’impresa e dalla relativa tassazione.
8. La risoluzione dei contrasti nella gestione delle società
L’art. 37 del D.lgs. n. 5/2003 ha introdotto un muovo strumento per la risoluzione dei contrasti nella gestione delle società (c.d. arbitrato economico o gestionale), prevedendo che gli statuti delle sole S.r.l. e delle società di persone possano anche contenere clausole con le quali:
- si deferiscono ad uno o più terzi i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società;
- si stabilisce che la decisione sia reclamabile davanti ad un collegio, nei termini e con le modalità stabilite dallo statuto stesso;
- si stabilisce che il soggetto o il collegio chiamato a dirimere tali contrasti possa dare indicazioni vincolanti anche sulle questioni collegate con quelle espressamente deferitegli;
- si stabilisce che la decisione di cui sopra sia impugnabile ai sensi dell’art. 1349, comma 2, c.c., norma la quale a sua volta dispone che la determinazione, rimessa al mero arbitrio del terzo, non si può impugnare se non provando la sua mala fede.
La risoluzione del contrasto sulla gestione, in prima istanza, può essere devoluta anche ad un soggetto singolo; in seconda istanza la decisione deve essere presa – per espressa volontà del legislatore – da un collegio. La nomina può essere fatta dagli stessi soggetti che si trovano in contrasto tra loro; tuttavia, l‘arbitratore deve essere imparziale. Pertanto, non potranno essere, ad esempio, nominati arbitratori gli amministratori stessi; non è invece da escludere che, in linea di principio, possa svolgere la funzione di arbitratore anche il socio di S.r.l. (che naturalmente non svolga anche funzioni amministrative) o il socio accomandante.
Gli arbitratori normalmente deliberano secondo il loro equo apprezzamento; lo statuto può tuttavia prevedere diversi criteri di decisione, o ammettere che la pronuncia sia resa secondo il mero arbitrio del terzo, così come prevede l’art. 1349, comma 2, c.c..
Gli arbitratori devono, peraltro, limitarsi a optare per l’una o per l’altra soluzione gestionale proposta dagli amministratori, non potendo assumere una decisione diversa rispetto ad una delle proposte avanzate dai gestori della società, data l’eccezionalità dei poteri attribuiti agli arbitratori che si sostituiscono agli amministratori nel decidere di una attività relativa al governo della società.
La decisione degli arbitratori è vincolante, ma solo qualora durante l’intero procedimento di risoluzione permanga la situazione di stallo decisionale e il conflitto tra i singoli membri dell’organo amministrativo non sia stato altrimenti risolto. Essa infatti non può essere assimilata a una decisione dell’organo amministrativo, con la conseguenza che gli amministratori dovranno riunirsi dopo la determinazione del risolutore per recepire quanto effettivamente deciso da quest’ultimo in ordine alla controversia.
Qualora gli amministratori della società siano altrimenti riusciti a superare la situazione di stallo o, comunque, abbiano raggiunto un diverso accordo interno o una maggioranza che consenta loro di comporre il contrasto insorto, essi potranno sempre avocare a sé la decisione nuovamente. Allo stesso modo, anche dopo che la decisione sia già stata assunta dal terzo, gli amministratori – qualora abbiano ritrovato l’accordo tra loro – potranno comunque modificarla o sostituirla.
Lo statuto può anche prevedere che la decisione sia reclamabile davanti ad un collegio nei termini e con le modalità stabilite nella clausola che disciplina il procedimento. Salvo che la decisione sia impugnabile ai sensi dell’art. 1349, comma 2°, c.c., essa è intangibile sia nel caso in cui lo statuto non preveda la possibilità di reclamo, sia nel caso in cui tale possibilità sia prevista e la decisione non venga reclamata nei termini previsti dallo statuto. Infatti, la decisione degli arbitratori non può essere impugnata se è manifestamente iniqua o erronea, ma unicamente qualora sia viziata da mala fede.
Lo statuto può comunque prevedere che la risoluzione del contrasto gestionale sia rimessa al mero arbitrio del terzo, soprattutto in considerazione del fatto che quest’ultimo è chiamato a dirimere una questione relativa a una scelta imprenditoriale.
Come sì visto, la scelta gestionale non fa mai capo agli arbitratori, ma sempre agli amministratori che la hanno proposta e caldeggiata. Pertanto, trovano applicazione le normali regole sulla responsabilità degli amministratori: qualora la scelta gestionale, seppur avallata dagli arbitratori, sia fonte di responsabilità, la stessa non potrà che far capo ai gestori, secondo le normali regole di cui agli artt. 2260 e 2476 c.c.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in diritto Societario
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