Quando i soci litigano: come risolvere i conflitti e le situazioni di stallo decisionale nelle società (deadlock)
I litigi tra soci di società possono insorgere in scenari molto diversi e sono influenzati da molti fattori, tra i quali la dimensione della società, il numero di soci e i rapporti di forza tra gli stessi.
Generalmente si contrappongono un socio (o un gruppo di soci) che detengono la maggioranza del capitale, a un altro socio (o gruppo di soci) di minoranza. Ma possono ricorrere altre situazioni “a rischio”, quali ad esempio la presenza di due soci paritetici, che provocano situazioni di stallo decisionale (deadlock), a causa del mancato raggiungimento delle maggioranze necessarie per assumere determinate decisioni (al livello sia gestorio che assembleare), a sua volta derivante dal dissenso tra i soci o dal loro disinteresse nei confronti dell’attività d’impresa. Quale ne sia l’origine, le liti tra soci disturbano inevitabilmente la conduzione aziendale, fino a determinare non di rado, soprattutto che nelle PMI, la crisi dell’impresa, con conseguente perdita di valore degli asset e/o delle quote di partecipazione. E’ possibile regolamentare la possibilità di un contrasto tra soci fin dall’inizio, inserendo nello statuto o nei patti parasociali clausole utili a risolvere le liti, quali le clausole anti-stallo, le opzioni put&call e la russian roulette. In assenza di tali clausole, i conflitti sociano inevitabilmente in contenziosi, spesso lunghi e complessi, generalmente strumentali al raggiungimento di un altro risultato (tipicamente la cessione della partecipazione del socio), al termine dei quali, non infrequentemente, si giunge allo scioglimento della società.
1. I conflitti tra soci di società: genesi, caratteristiche, esiti
Chiunque abbia esperienza di diritto societario, sa che le società – siano esse di persone o di capitali – raramente vanno avanti negli anni senza che insorgano liti, più o meno gravi, tra i soci. A un certo punto della vita della società, quasi inevitabilmente accade che, dopo anni di lavoro insieme, di progetti e di fatiche condivisi tra soci, l’idillio iniziale svanisca, non vi sia più identità di vedute e che pertanto l’equilibrio tra gli stessi si rompa.
Le controversie societarie possono insorgere in scenari molto diversi e sono influenzate da molti fattori, tra i quali la dimensione della società, il numero di soci e i rapporti di forza tra gli stessi.
Generalmente si contrappongono un socio (o un gruppo di soci) che detengono la maggioranza del capitale a un altro socio (o gruppo di soci) di minoranza. Ma possono ricorrere altre situazioni “a rischio”, quali ad esempio la presenza di due soci paritetici.
Nelle società di persone, in particolare, il dissidio fra i soci può essere tale da rendere impossibile il conseguimento dell’oggetto sociale. Tali società sono infatti caratterizzate dalla virtuale identificabilità tra società e impresa, e dalla presenza di soci spesso costituiti da individui appartenenti allo stesso gruppo familiare, quasi sempre con quote opportunamente ripartite per mantenere, almeno in fase iniziale, un equilibrio paritario, non di rado riflesso anche nella composizione dell’organo amministrativo e nella distribuzione dei relativi poteri.
Tali società nascondono il germe della precarietà, in quanto fondate sul perpetuarsi del clima di concordia, o perlomeno di convergenza di interessi, vigente tra i soci all’atto della costituzione; uno scenario destinato a mutare non appena, e per qualsiasi motivo, taluno dei soci manifesti dissenso, in forme via via più radicali, circa la stessa proseguibilità dell’attività comune, utilizzando di regola i vari strumenti legali a propria disposizione (ad esempio, rifiuto di approvazione o impugnazione del bilancio, richiesta di pagamento di supposti utili non percepiti, diffide, denunce, dimissioni dalla carica amministrativa, rifiuto di compimento di atti, opposizione ai sensi dell’art. 2257, 2° comma, c.c., richiesta di documenti e di ispezioni contabili, ecc.).
Alcune liti riescono a comporsi in modo relativamente veloce, perché prevale nei soci la volontà di conservare l’impresa, e di superare i conflitti.
In altri casi, invece – che purtroppo statisticamente rappresentano la maggior parte – nascono conflitti che non si riescono a superare, e che aumentano di intensità con il passare del tempo, fino ad assomigliare, nei toni e nei modi, ai peggiori litigi tra coniugi.
In ogni caso, quale ne sia l’origine, le liti disturbano – inevitabilmente – la conduzione aziendale, fino a determinare, non di rado, soprattutto che nelle piccole e medie società, la crisi dell’impresa, con conseguente perdita di valore degli asset e/o delle quote di partecipazione.
Alcuni imprenditori accorti (o comunque consigliati da consulenti capaci) regolamentano la possibilità di un contrasto tra soci fin dall’inizio, dal momento della stesura dello statuto e/o dei patti parasociali, nei quali possono essere opportunamente inserite clausole utili a risolvere le liti (v. par.3).
Spesso, tuttavia, ciò non accade, perché le liti non sono previste. Ciò accade, in particolare, perché molte delle piccole società italiane nascono all’interno di ristretti gruppi familiari, dominati da un soggetto “forte” sul piano personale o imprenditoriale o comunque basati su un iniziale accordo tra familiari, che successivamente – magari a seguito del trasferimento ereditario delle partecipazioni – viene meno.
Purtroppo, il diritto societario non offre uno strumento che consenta la rapida composizione dei contrasti tra soci, una volta insorti, come invece accade nel diritto di famiglia (divorzio, decadenza della potestà genitoriale, etc.) o per i diritti di proprietà (divisione, imposizione forzosa di servitù su di un fondo, etc.).
Il conflitto tra i soci – quando è forte ed insanabile – può essere risolto solo con un accordo tra i soci stessi; in particolare, con la fuoriuscita di uno o più soci, tramite una cessione di quote. Ma tale accordo è molto spesso difficile da trovare, dato il dissenso tra i soci (ad esempio, tipicamente, sul prezzo di cessione delle quote).
Ed ecco che, allora, il socio che non riesca ad ottenere la liquidazione della propria partecipazione alle condizioni desiderate promuove una serie di azioni processuali “di disturbo”, finalizzate ad indurre gli altri soci a raggiungere l’accordo (richieste di informativa e consegna documenti, impugnazione delle delibere, azioni di responsabilità, denunce al Tribunale, etc.), a cui naturalmente gli altri soci a loro volta reagiscono (non solo resistendo in giudizio ma ad esempio deliberando o cercando di deliberare aumenti di capitale finalizzati a “diluire” la partecipazione del socio divenuto scomodo).
Talvolta, si riesce a giungere ad una composizione del conflitto, con la fuoriuscita della compagine sociale di uno o più soci, dopo lunghi, costosi e più o meno sanguinosi contenziosi giudiziari. Altre volte (non infrequenti), viceversa, i conflitti provocano, a lungo andare, lo scioglimento della società, con conseguente perdita di valore della stessa e quindi delle quote di partecipazione dei soci.
2. Le situazioni di stallo decisionale (deadlock) nelle società: cos’è, da dove nasce e quali conseguenze può avere
Nelle società – siano esse di persone o di capitali – le situazioni di stallo decisionale (deadlock) sono piuttosto frequenti. Tali situazioni si verificano quando i soci non raggiungono le maggioranze necessarie per assumere determinate decisioni (al livello sia gestorio che assembleare), a causa del dissenso di uno o più soci o del loro disinteresse nei confronti dell’attività d’impresa.
Si verifica appunto una situazione di stallo decisionale quando in una società non si riescono a raggiungere, per un periodo di tempo significativo, i quorum assembleari (costitutivi e/o deliberativi) riguardanti decisioni essenziali nella vita della società (come ad esempio l’approvazione del bilancio, la nomina degli organi societari, proposte di ricapitalizzazione della società, modifiche statutarie etc.),o le decisioni in seno al CdA, a causa di contrasti gravi e apparentemente insanabili tra i soci.
Ciò accade frequentemente nelle società caratterizzate dalla partecipazione di soci paritetici (50%-50%),con conseguente sostanziale bilanciamento dei voti in capo agli stessi. In tali contesti – tipici delle società personali e delle S.r.l. di piccole dimensioni – i contrasti gestionali sono difficilmente risolvibili col principio maggioritario.
Ma una situazione analoga può anche accadere in altri casi, come ad esempio:
- quando vi sia una ripartizione di azioni o quote all’interno della società che possono portare al bilanciamento di voti (ad esempio un socio al 50% e due soci al 25% quattro soci al 25%, etc.);
- o quando i soci di minoranza riescano, in virtù del loro particolare peso all’interno della società, ad imporre (nello statuto o nei patti parasociali) maggioranze qualificate per determinate decisioni, condizionando con il proprio consenso l’adozione di determinate delibere(ad esempio tre soci con partecipazioni 30%-30%-40%, con quorum per certe decisioni fissato al 75%).
I dissidi tra i soci possono verificarsi per i più vari motivi, non necessariamente attinenti alla gestione aziendale; spesso essi emergono o sono acuiti in situazioni di crisi aziendale (quando i soci ad esempio non sono d’accordo circa la possibile linea da seguire per uscire dalla crisi), o, all’opposto, in situazioni in cui la società ottiene risultati particolarmente brillanti (quando ad esempio un socio è interessato ad uscire dalla società valorizzando al massimo la propria partecipazione).
Gli strumenti attraverso i quali un socio può manifestare il proprio dissenso o disinteresse, mettendo in difficoltà gli altri soci ed ostacolando l’operatività della società (strumenti che possono portare allo stallo decisionale delle società), sono molteplici: ad esempio, può rifiutare di approvare il bilancio, e/o impugnare la relativa delibera di approvazione; può rifiutarsi di deliberare la vendita di un importante cespite, o un importante investimento della società; può rifiutarsi di approvare un aumento di capitale, etc.
Frequenti sono poi i casi di comportamenti ostruzionistici, come la richiesta di pagamento di supposti utili non percepiti, diffide, denunce, dimissioni dalla carica amministrativa, rifiuto di compimento di atti, richiesta di documenti e di ispezioni contabili, etc.
Le situazioni di stallo societario delle società sono potenzialmente pericolose.
Il disaccordo tra i soci, specie se continuo e ripetuto, può essere notato dagli stakeholders, che così possono cominciare a dubitare della continuità aziendale. Possono sorgere problemi pratici che intralciano operativamente l’impresa.
Nei casi più gravi, in assenza di rimedi, si può giungere alla paralisi generale delle attività, con conseguente scioglimento della società e perdita del valore degli asset e/o del valore delle quote di partecipazione.
Esaminiamo il seguente caso pratico. La società Alfa S.r.l. svolgeva attività di commercio al dettaglio di abbigliamento per adulti nell’immobile di proprietà, ed era composta dai soci Tizio e Caio, con partecipazioni del 50% ciascuno. Dato Il pessimo andamento del business, l’attività di commercio al dettaglio viene cessata, e la società prosegue l’attività locando l’immobile di proprietà e mutando la compagine sociale, nella quale subentrano i figli dei soci fondatori, Mevio e Filano, con la stessa quota di partecipazione del 50% ciascuno. Amministratore unico di Alfa è Mevio. Lo statuto sociale, rimasto immutato, prevede che l’assemblea ordinaria, tanto in prima che nell’eventuale seconda convocazione, deliberi con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino la maggioranza del capitale sociale. Tra Mevio e Filano, diversamente che tra i precedenti soci, non corre buon sangue. Filano, a causa dei dissensi con Mevio, non è più interessato all’attività sociale, ed intende disfarsi della propria partecipazione; non riuscendo a trovare terzi interessati all’acquisto della quota, propone la vendita a Mevio, ma i due non si trovano d’accordo sul prezzo di acquisto. Dopo una serie di inutili tentativi per raggiungere un’intesa sulla cessione, Mevio inizia una serie di azioni giudiziarie di disturbo nei confronti di Mevio, che si trascinano senza pervenire ad un risultato inutile. Mevio a questo punto decide di non approvare il bilancio di Alfa, la quale alla fine si scioglie.
Purtroppo, raramente i soci prevedono l’accadere di simili situazioni in sede di costituzione della società – trovandosi inizialmente in una situazione di comunione di intenti e di condivisione di obiettivi – e conseguentemente spesso non prevedono accorgimenti idonei a risolverle. In tal modo, quando il contrasto gestionale si verifica e diviene insanabile, le conseguenze sono spesso gravi ed irreversibili.
È, viceversa, molto più utile risolvere le situazioni di stallo decisionale delle società (deadlock) attraverso specifiche ed idonee previsioni pattizie ex ante – cioè inserite al momento della costituzione della società, nello statuto e/o nei patti parasociali – volte alla risoluzione dell’eventuale contrasto, e preservare la funzionalità e la continuità dell’impresa.
Nella prassi italiana le tecniche anti-stallo sono utilizzate nella maggior parte dei casi da società di dimensioni medio-grandi, ma si prestano in realtà ad essere inserite negli statuti e nei patti parasociali di tutte le società.
3. Tecniche di soluzione preventiva dei dissidi tra soci: clausole anti-stallo, casting votes, intervento di un terzo
Come accennato, è possibile prevedere, nello statuto della società e/o nei patti parasociali, meccanismi finalizzati ad impedire e/o a risolvere efficacemente situazioni di conflitto tra soci, quelli in modo da mantenere in vita il rapporto associativo.
Anzitutto, si possono prevedere (nello statuto e/o nei patti parasociali) clausole anti-stallo, che prevedono la reiterazione dei tentativi di giungere ad una soluzione concordata (ad esempio si può prevedere un periodo di riflessione, e/o lo svolgimento di successive riunioni) e, in caso di fallimento di tali tentativi, una escalation del livello decisionale (ad esempio, si può prevedere che in caso di mancato accordo degli amministratori la decisione venga rimessa all’assemblea dei soci).
È possibile poi introdurre dei meccanismi che prevedono in caso di stallo per bilanciamento di voti la prevalenza della volontà di una delle parti (casting vote); in tal caso si attribuisce al voto di un socio la prevalenza su quello degli altri soci, nelle delibere attinenti determinate materie.
Tali meccanismi non sono peraltro di facile introduzione, in quanto implicano che uno dei soci accetta, di fatto, una posizione subordinata all’altro socio.
Un’altra possibilità consiste nel prevedere l’intervento di un terzo indipendente per risolvere le eventuali divergenze circa scelte operative, fungendo in tal modo da ago della bilancia. Il terzo può essere intestatario in via fiduciaria di una (minima) parte del capitale sociale, con relativo mandato a votare, in caso di stallo, nell’interesse esclusivo della società, in modo da risultare decisivo nell’ambito dei voti contrapposti dei soci e garantire continuità di funzionamento dei meccanismi decisionali della società
Tale strumento può essere efficace quando il contrasto tra soci è limitato alla decisione sul compimento di singoli atti di gestione, ma non sono idonei a risolvere i dissidi che riguardano la complessiva gestione della società. Inoltre, il socio in minoranza potrebbe comunque mettere in dubbio il corretto adempimento del mandato fiduciario da parte del terzo. Senza contare soci sono spesso riluttanti ad ammettere che un terzo si intrometta nella gestione della società.
4. La regolamentazione della fuoriuscita del socio: le opzioni put e call
Qualora la situazione di conflitto si rivela insanabile e renda non più utilmente praticabile il perseguimento degli scopi comuni, vi sono poi delle soluzioni che possono essere previste nello statuto e/o nei patti parasociali per regolamentare lo scioglimento del rapporto tra i soci e la società, ovvero la cessione della partecipazione societaria, risolvendo, in tal modo, il conflitto (buy-sell provisions).
In tal modo, il socio dissidente o disinteressato (che dà luogo alla situazione di impasse societario) viene messo nella condizione di abbandonare la compagine sociale o, qualora lo dovesse ritenere maggiormente conveniente, procedere a propria volta all’acquisto della partecipazione dell’altro socio.
Naturalmente, a tale risultato i soci potrebbero sempre pervenire attraverso una negoziazione tra loro, una volta insorta la situazione di impasse. Una trattativa diretta tra le parti ha senza dubbio il vantaggio di creare piattaforme negoziali articolate (in termini di prezzo, termini di pagamento, liquidazione di posizioni e ruoli pregressi, tempi di realizzazione dell’operazione, etc.) che possono essere ritagliate sulle esigenze e sulle capacità finanziarie delle parti coinvolte.
Tuttavia, in situazioni di stallo tali trattative sono generalmente difficili (ad esempio perché il socio dissenziente tende ad alzare la valutazione della propria quota ben oltre il valore di mercato della stessa) e comunque implicano tempi mediamente lunghi.
È quindi preferibile prevedere ex ante (cioè prima del sorgere della situazione di stallo, nello statuto e/o nei patti parasociali) la way-out di un socio attraverso determinate clausole. La più frequentemente utilizzata è quella che prevede opzioni di put-call.
L’opzione put e l’opzione call sono accordi che pongono un limite alla libera circolazione delle partecipazioni sociali: esse hanno infatti la funzione di attribuire ad una delle parti, rispettivamente, il diritto di alienare o acquistare una certa quantità di azioni o quote ad un prezzo prestabilito (o comunque determinabile) ad una scadenza fissata (od entro la stessa), dietro versamento di un premio che costituisce il prezzo dell’opzione.
In particolare:
- con l’opzione put (opzione di vendita) si conferisce ad un soggetto il diritto di scegliere se vendere o meno, ad una data scadenza, azioni o quote ad un prezzo prefissato;
- con l’opzione call (opzione di acquisto), per converso, si riconosce il diritto di acquistare una determinata quantità di azioni o quote ad un certo prezzo e ad una certa data o entro un determinato periodo.
Dunque, l’opzione put attribuisce ad un socio il diritto di vendere l’intera propria partecipazione o parte di essa ad un prezzo determinato o determinabile, mentre l’opzione call concede ad un socio il diritto di acquistare la partecipazione sociale o le partecipazioni dell’altro ad un prezzo determinato o determinabile.
Tali opzioni possono essere previste in modo congiunto o incrociato (c.d. buy and sell agreement), in modo che un socio può essere obbligato ad acquistare le partecipazioni altrui o a vendere le proprie in risposta all’iniziativa assunta dall’altra parte. Chi assume l’iniziativa – perché tempestivo o perché è il soggetto cui è stata attribuita tale facoltà contrattualmente – si trova in una situazione di vantaggio, in quanto può imporre all’altro socio la soluzione che predilige.
La validità dell’opzione put, sotto il profilo del divieto del patto leonino, è stata più volte vagliata dalla giurisprudenza, che ne ha stabilito la legittimità sotto alcune condizioni e limiti, tra cui, appunto, il caso in cui tale opzione sia condizionata al verificarsi di una situazione di stallo decisionale delle società, in quanto espressione di un interesse alla buona gestione dell’impresa, e il fatto che le venga stabilito un prezzo congruo di esercizio dell’opzione, da cui non consegua l’esclusione del socio dalle perdite.
5. Russian roulette clause
Una variante delle opzioni put e call, che sempre più frequentemente viene prevista all’interno dei patti parasociali, è la clausola della c.d. roulette russa (Russian roulette clause). Si tratta di una clausola, di regola inserita in un patto parasociale, finalizzata a risolvere le fasi di stallo decisionale delle società derivanti, in particolare, dalla presenza di partecipazioni sociali paritetiche.
Tale clausola è finalizzata ad evitare, in situazioni di stallo deliberativo, la possibile liquidazione della società (che comporterebbe costi e lungaggini), attraverso il trasferimento di tutta o parte di partecipazione sociale da un socio ad un altro. Per effetto della clausola della roulette russa, in caso di deadlock un socio assume irrevocabilmente l’obbligo di vendere o di acquistare la partecipazione dell’altro socio.
Ciascun socio può formulare un’offerta di acquisto, ad un dato prezzo, della partecipazione dell’altro socio, mentre quest’ultimo, se non intende cedere la propria partecipazione, è obbligato ad acquisire quella del socio che ha operato la determinazione del valore.
La procedura viene attivata attraverso l’indicazione del prezzo e l’invito alla controparte ad esercitare, a quel prezzo, la scelta fra vendere la propria partecipazione o acquistare la partecipazione del proponente. Il processo di vendita può essere attivato da tutti i soci o solo da alcuni di essi. È possibile inoltre una combinazione intermedia, in base alla quale tale potere è attribuito a tutti i soci ma, in caso di inerzia, solo alcuni soci possono sollecitare in modo vincolante la proposizione di una prima offerta.
La Russian roulette clause può essere predisposta con molte varianti.
È ad esempio possibile prevedere che, dopo che un socio abbia presentato l’offerta di acquistare la partecipazione di un altro socio a un certo prezzo, la controparte possa accettare di vendere oppure sia obbligata a formulare una proposta di acquisto ad un prezzo maggiore rispetto a quello che gli era stato offerto (c.d. Texas shootout).
In alternativa, entrambe le parti devono consegnare una busta chiusa a un terzo, e chi ha offerto il prezzo maggiore, acquista le quote dell’altro (fairest sealed bid).
Ancora, è possibile prevedere un vero e proprio processo d’asta, consentendo al socio che propone l’offerta di acquisto o di vendita di rilanciare nel caso in cui chi riceva la prima offerta decida di acquistare.
In questi casi il prezzo della partecipazione potrebbe continuare a salire in relazione ai rilanci dei soci, finché un’offerta non verrà accettata.
Questa tecnica ha il vantaggio di fornire una soluzione rapida del deadlock e di non richiede la nomina di un terzo valutatore (a cui molto spesso si è costretti in caso di opzione put&call). Per tale motivo, la giurisprudenza è orientata a ritenere valida tale clausola, la quale introduce un meccanismo di risoluzione di una situazione si stallo decisionale, meritevole di tutela ad opera dell’ordinamento.
Il socio al quale perviene la proposta di acquisto può scegliere di cedere la propria quota al prezzo determinato dal socio che ha azionato la clausola, o, al contrario, di acquisire la quota di quest’ultimo; entrambe le parti hanno quindi la possibilità di determinare il prezzo della partecipazione, superando la necessità di un’equa valorizzazione della stessa. Sul piano pratico, chi offre di acquistare la quota ad un determinato prezzo non sa ancora se sia acquirente o venditore, e l’incertezza circa l’esito della trattativa dovrebbe indurlo a formulare una proposta di prezzo equa, per non subire egli stesso l’acquisto ad un prezzo troppo basso ove l’oblato invocasse il diritto di acquistare. Su queste basi, pertanto, il prezzo è tendenzialmente frutto di una libera ponderazione di ciascuna parte del proprio interesse.
Tuttavia, il meccanismo della Russian roulette può incoraggiare il socio più facoltoso a creare ad arte una situazione di stallo, per acquistare ad un prezzo basso la quota dell’altro socio. Infatti, se è vero che questo meccanismo incentiva generalmente il socio offerente a proporre un prezzo equo per l’acquisto delle quote dell’altro socio, potendo essere a sua volta costretto a vendere le sue quote (nel qual caso una valutazione al di sotto dei valori reali risulterebbe a lui svantaggiosa), qualora un socio fosse consapevole che l’altro socio non abbia la sua stessa disponibilità finanziaria, potrebbe formulare un’offerta di acquisto relativamente bassa- o comunque per lui conveniente e irraggiungibile per l’altra parte- costringendo comunque la controparte a vendere.
Per ovviare a tali inconvenienti, è opportuno prevedere un corrispettivo minimo da indicare nella prima offerta di acquisto, preventivamente determinato o determinabile tramite l’applicazione di una formula aritmetica o l’intervento di un arbitratore.
6. La risoluzione dei contrasti nella gestione delle società
L’art. 37 del D.lgs. n. 5/2003 ha introdotto un nuovo strumento per la risoluzione dei contrasti nella gestione delle società (c.d. arbitrato economico o gestionale), prevedendo che gli statuti delle sole S.r.l. e delle società di persone possano anche contenere clausole con le quali:
- si definiscono ad uno o più terzi i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società;
- si stabilisce che la decisione sia reclamabile davanti ad un collegio, nei termini e con le modalità stabilite dallo statuto stesso;
- si stabilisce che il soggetto o il collegio chiamato a dirimere tali contrasti possa dare indicazioni vincolanti anche sulle questioni collegate con quelle espressamente deferitegli;
- si stabilisce che la decisione di cui sopra sia impugnabile ai sensi dell’art. 1349, comma 2, c.c., norma la quale a sua volta dispone che la determinazione, rimessa al mero arbitrio del terzo, non si può impugnare se non provando la sua mala fede.
La risoluzione del contrasto sulla gestione, in prima istanza, può essere devoluta anche ad un soggetto singolo; in seconda istanza la decisione deve essere presa-per espressa volontà del legislatore- da un collegio. La nomina può essere fatta dagli stessi soggetti che si trovano in contrasto tra loro; tuttavia, l’arbitratore deve essere imparziale. Pertanto, non potranno essere, ad esempio, nominati arbitratori gli amministratori stessi; non è invece da escludere che, in linea di principio, possa svolgere la funzione di arbitratore anche il socio di S.r.l. (che naturalmente non svolga anche funzioni amministrative) o il socio accomandante.
Gli arbitratori normalmente deliberano secondo equo apprezzamento; lo statuto può tuttavia prevedere diversi criteri di decisione, o ammettere che la pronuncia sia resa secondo il mero arbitrio del terzo, così come prevede l’art. 1349, comma 2, c.c.
Gli arbitratori devono, peraltro, limitarsi a optare per l’una o per l’altra soluzione gestionale proposta dagli amministratori, non potendo assumere una decisione diversa rispetto ad una delle proposte avanzate dai gestori della società, data l’eccezionalità dei poteri attribuiti agli arbitratori che si sostituiscono agli amministratori nel decidere di un’attività relativa al governo della società.
La decisione degli arbitratori è vincolante, ma solo qualora durante l’intero procedimento di risoluzione permanga la situazione di stallo decisionale e il conflitto tra i singoli membri dell’organo amministrativo non sia stato altrimenti risolto. Essa, infatti, non può essere assimilata a una decisione dell’organo amministrativo, con la conseguenza che gli amministratori dovranno riunirsi dopo la determinazione del risolutore per recepire quanto effettivamente deciso da quest’ultimo in ordine alla controversia.
Qualora gli amministratori della società siano altrimenti riusciti a superare la situazione di stallo o, comunque, abbiano raggiunto un diverso accordo interno o una maggioranza che consenta loro di comporre il contrasto insorto, essi potranno sempre avocare a sé la decisione nuovamente. Allo stesso modo, anche dopo che la decisione sia già stata assunta dal terzo, gli amministratori- qualora abbiano ritrovato l’accordo tra loro- potranno comunque modificarla o sostituirla.
Lo statuto può anche prevedere che la decisione sia reclamabile davanti ad un collegio nei termini e con le modalità stabilite nella clausola che disciplina il procedimento. Salvo che la decisione sia impugnabile ai sensi dell’art. 1349, comma 2, c.c., essa è intangibile sia nel caso in cui lo statuto non preveda la possibilità di reclamo, sia nel caso in cui tale possibilità sia prevista e la decisione non venga reclamata nei termini previsti dallo statuto. Infatti, la decisione degli arbitratori non può essere impugnata se è manifestamente iniqua o erronea, ma unicamente qualora sia viziata da mala fede.
Lo statuto può comunque prevedere che la risoluzione del contrasto gestionale sia rimessa al mero arbitrio del terzo, soprattutto in considerazione del fatto che quest’ultimo è chiamato a dirimere una questione relativa a una scelta imprenditoriale.
Come si è visto, la scelta gestionale non fa mai capo agli arbitratori, ma sempre agli amministratori che hanno la proposta e caldeggiata. Pertanto, trovano applicazione le normali regole sulla responsabilità degli amministratori: qualora la scelta gestionale, seppur avallata dagli arbitratori, sia fonte di responsabilità, la stessa non potrà che far capo ai gestori, secondo le normali regole di cui agli artt. 2260 e 2476 c.c.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in diritto Societario
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