La pubblicità ingannevole e comparativa: i profili legali
Come è noto, la pubblicità riveste molta importanza per promuovere le attività e i servizi di una impresa. La pubblicità è disciplinata, per quanto riguarda i rapporti tra imprese (B2B), dal D.lgs. n. 145/2007, che vieta la pubblicità ingannevole e comparativa illecita nei rapporti tra imprese, e per quanto riguarda i rapporti con i consumatori dalle norme del Codice del Consumo relative alle pratiche commerciali scorrette. Incaricata dall’applicazione della disciplina sulla pubblicità è “Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), la quale ha irrogato negli anni numerose sanzioni per pubblicità ingannevole nei confronti di imprese che hanno divulgato messaggi pubblicitari ritenuti ingannevoli. Tali provvedimenti hanno comportato non soltanto l’irrogazione alle imprese di sanzioni pecuniarie, ma anche e soprattutto ricadute negative sul piano dell’immagine. Analizziamo le principali norme che disciplinano la pubblicità, fornendo alcuni suggerimenti utili per evitare responsabilità e rischi di sanzioni.
1. La disciplina della pubblicità
Come è noto, la pubblicità – sia essa effettuata secondo modalità tradizionali (off line) o tramite internet (on line) – riveste molta importanza per le imprese.
La pubblicità effettuata dalle imprese è soggetta ad una complessa e variegata normativa, in gran parte di origine comunitaria, finalizzata ad assicurare il buon finanziamento del mercato e della concorrenza.
Le norme applicabili in materia pubblicitaria sono diverse, a seconda che la pubblicità sia diretta ad altre imprese o professionisti (B2B) o a consumatori, cioè a persone fisiche che agiscono per fini non rientranti nella loro attività commerciale, industriale, artigianale o professionale (B2C).
Nel primo caso (B2B), trova applicazione il D.lgs. n. 145/2007, che vieta la pubblicità ingannevole e comparativa illecita nei rapporti tra imprese.
Nel secondo caso (B2C), si applica invece il D.lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo), che disciplina le pratiche commerciali scorrette, categorie che racchiude anche le diverse forme di pubblicità illecita rivolta appunto a consumatori.
Accanto a tali discipline può inoltre trovare applicazione:
- la disciplina del Codice civile sulla concorrenza sleale, prevista agli artt. 2598 e ss. c.c.;
- il Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, che stabilisce le regole sulla pubblicità che devono essere rispettate dalle imprese.
In questo articolo ci soffermeremo esclusivamente sulla disciplina della pubblicità nei rapporti tra imprese, rinviando per la pubblicità rivolta ai consumatori all’approfondimento in tema di pratiche commerciali scorrette.
In questo ambito si sono verificati, anche in tempi recenti, numerosi casi in cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha irrogato sanzioni per pubblicità ingannevole, nei confronti di imprese che hanno in vario modo divulgato messaggi pubblicitari ritenuti ingannevoli.
Tali provvedimenti hanno comportato non soltanto l’irrogazione alle imprese di sanzioni pecuniarie talvolta pesanti, ma anche e soprattutto ricadute negative sul piano dell’immagine. Senza contare le possibili azioni risarcitorie che possono essere promosse dai soggetti danneggiati dal messaggio pubblicitario ingannevole.
Di qui l’importanza – spesso purtroppo sottovalutata o addirittura ignorata – per le imprese di prestare molta attenzione a tutti i messaggi pubblicitari che vendono come destinatari i potenziali clienti.
Può rendersi autrice di una violazione delle regole poste dal D.lgs. n. 145/2007 anche l’impresa che, pur senza essere intervenuta nella realizzazione e approvazione del messaggio pubblicitario, abbia un interesse alla sua diffusione. L’art. art. 2, co. 1, lett. e) del D.lgs. n. 145/2007 definisce infatti come operatore pubblicitario il committente del messaggio pubblicitario e il suo autore, nonché, nel caso in cui non consenta all’identificazione di costoro, il proprietario del mezzo con cui il messaggio pubblicitario è diffuso ovvero il responsabile della programmazione radiofonica o televisiva.
La pubblicità è uno strumento molto importante, ma anche potenzialmente pericoloso. E’ dunque essenziale che la liceità di qualunque messaggio pubblicitario sia scrupolosamente valutata sotto il profilo legale, per evitare di incorrere in spiacevoli sorprese.
2. Cosa è considerata “pubblicità”?
Dal punto di vista giuridico, costituisce “pubblicità” qualsiasi messaggio, diffuso con qualunque mezzo e modalità, che sia finalizzato a promuovere una determinata attività imprenditoriale (art. 2, comma 1 D.lgs. n. 145/2007).
Si tratta quindi di una nozione molto ampia di pubblicità, che prescinde dal mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario venga diffuso, purché lo stesso sia finalizzato a promuovere una determinata attività imprenditoriale.
L’AGCM e la giurisprudenza amministrativa hanno interpretato in modo molto estensivo il concetto di pubblicità, includendovi non soltanto i messaggi pubblicitari in senso stretto (slogans, volantini, brochure, banners etc.) ma anche le seguenti attività:
- opuscoli e guide tecniche, qualora contengano consigli tendenti ad orientare le scelte economiche del consumatore;
- segni distintivi, come la ditta o l’insegna degli esercizi commerciali, la carta intestata in quanto di per sé idonee a promuovere l’attività economica dell’azienda stessa, nonché il marchio, qualora, per via del contesto in cui è inserito, assuma valenza pubblicitaria;
- confezione del prodotto;
- business plans:
- articoli giornalistici, qualora sia prevalente l’aspetto pubblicitario su quello informativo, sotto il profilo dell’impatto comunicativo per il destinatario.
Per quanto concerne, in particolare, il business plan – che, come è noto, consiste in previsioni di redditività futura, sottoposte a un destinatario per invogliarlo ad aderire ad una determinata iniziativa commerciale – lo stesso è considerato uno strumento pubblicitario, e in quanto tale è soggetto alle valutazioni dell’AGCM. Pertanto, un business plan contenente affermazioni non veritiere, o comunque la cui veridicità non sia dimostrabile in modo oggettivo, può essere considerato pubblicità ingannevole (v. par. 4), e quindi può esporre l’impresa a sanzioni pecuniarie anche elevate, da parte dell’AGCM.
Ed infatti, già in numerosi casi l’AGCM ha comminato sanzioni ad imprese per avere generato con messaggi pubblicitari ingannevoli di vario tipo false aspettative in capo agli aspiranti affiliati circa i risultati economici realizzabili attraverso l’affiliazione, ad es. prospettando guadagni “certi” quando invece gli stessi erano in realtà altamente incerti, in quanto dipendevano dalle più diverse variabili.
Tali messaggi possono essere diffusi tramite vari strumenti: oltre agli strumenti tradizionali (radio, televisione, posta, ecc.), negli ultimi anni sono aumentati esponenzialmente i messaggi pubblicitari tramite sms, e-mail, banner su siti internet e piattaforme digitali, etc.
Le indicazioni ed i dati contenuti in tali messaggi hanno costituto frequente oggetto di provvedimenti sanzionatori dell’AGCM; occorre quindi prestare molta attenzione a tutti i messaggi pubblicitari in senso lato che un’impresa può diffondere, perché – come vedremo in seguito – dagli stessi possono nascere rilevanti responsabilità e rischi legali.
3. Le regole generali sulla pubblicità
Quali caratteristiche devono avere i messaggi pubblicitari nel franchising per essere leciti dal punto di vista giuridico e quindi non esporre le imprese a responsabilità e rischi legali?
L’art. 1°, 2° comma, del D. Lgs n. 145/2007 prevede che in generale la pubblicità deve essere:
- palese
- veritiera
- corretta
Tali caratteristiche devono essere presenti nel messaggio pubblicitario fin dal primo contatto con il destinatario. L’idoneità ingannatoria del messaggio non può quindi essere esclusa dal fatto che il pubblico è in condizione di apprendere ulteriori informazioni in un momento successivo alla lettura del messaggio, posto che il fine promozionale si realizza esclusivamente attraverso il messaggio, il quale esaurisce la sua funzione nell’indurre il destinatario a rivolgersi all’operatore.
La comunicazione d’impresa deve essere quindi chiara e completa fin dall’inizio, indipendentemente dal fatto che il destinatario possa apprendere ulteriori elementi successivamente, tramite rinvio ad altre fonti informative.
Posto che è lecita una presentazione del prodotto che – associandolo ad elementi estranei alle sue caratteristiche – lo renda allettante, la trasparenza richiesta nelle campagne pubblicitarie impone l’indicazione di tutte le informazioni la cui omissione potrebbe rendere il messaggio idoneo a trarre in inganno il consumatore medio, facendo attenzione ad utilizzare note e precisazioni solo per aggiungere informazioni integrative e non anche informazioni correttive o limitative. La completezza e la veridicità di un messaggio promozionale è infatti da verificare nell’ambito del contesto della comunicazione commerciale stessa e non anche sulla base di informazioni ulteriori che l’operatore renda disponibili solo qualora sia già avvenuto l’effetto promozionale.
L’Art. 5 del D. Lgs n. 145/2007 prevede altresì che la pubblicità deve essere sempre chiaramente riconoscibile come tale, e che la pubblicità a mezzo di stampa deve essere distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente percezione.
Ai destinatari del messaggio pubblicitario deve dunque essere consentito di riconoscere la natura promozionale e non indipendente dello stesso, in modo che venga attivata una sufficiente reazione critica e soglia di attenzione.
Il principio della riconoscibilità può suscitare delle criticità con riferimento ai messaggi pubblicitari on line, a causa delle particolari modalità con le quali essi sono a volte diffusi. Si pensi, ad es. ai cd. banner, che possono cerare problemi quando le loro caratteristiche sono tali da generare confusione con il contesto nel quale risultano presenti.
Una campagna pubblicitaria non può inoltre violare i diritti d’autore di terzi. Qualora si utilizzino opere dell’ingegno – ovvero opere che presentano carattere creativo tutelate in quanto tali dalla legge sul diritto d’autore – è necessario il consenso dell’autore (o dei suoi eredi, sino a settant’anni dalla morte di quest’ultimo), a cui spetta in via esclusiva il diritto di utilizzazione economica dell’opera. Tale diritto può essere trasferito o concesso temporaneamente a terzi, per determinate finalità e/o utilizzi.
Nei casi in cui l’opera che si intende riprodurre rientri nel novero dei beni culturali (in quanto presenti interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, indipendentemente che la proprietà della stessa sia pubblica o privata), la riproduzione della stessa potrà avvenire solo con il consenso dell’ente titolare e, se del caso, dietro pagamento di un corrispettivo (artt. 107 e 108 Codice dei beni culturali).
La riproduzione o utilizzo di un marchio altrui a fini pubblicitari è illecita (salvo nei casi di pubblicità comparativa) quando avvenga senza giusto motivo (e quindi senza il consenso del titolare del marchio), e consenta di trarre indebito vantaggio (circostanza che si verifica quando l’uso del marchio altrui incida positivamente sulla percezione del pubblico sul prodotto/servizio pubblicizzato del terzo utilizzatore) o rechi pregiudizio alla percezione del marchio (c.d. annacquamento o svilimento del marchio).
In particolare, è scorretto l’utilizzo di un marchio altrui quando crei confusione o il convincimento che vi sussista un legame tra imprese, e nuoccia al valore del marchio, mentre è ammissibile un uso funzionale del marchio, ad esempio nei casi in cui il prodotto del concorrente costituisca un elemento di costruzione (assieme ad altri) del processo narrativo.
Infine, l’uso e la produzione dell’immagine di una persona altrui, a prescindere dal tipo di opera in cui sia contenuta, sono tutelati dall’art. 10 c.c. e dall’art. 96 della Legge Autore, che richiedono il consenso della persona ritratta, salvo casi particolari in cui tale utilizzo non sia giustificato da particolari esimenti e sempre che l’esposizione e la messa in commercio del ritratto altrui non sia pregiudizievole per il decoro e la reputazione della persona interessata.
4. La pubblicità ingannevole
L’art. 2, lett. b), del D.lgs. n. 145/2007 vieta la pubblicità ingannevole, definita come “qualsiasi pubblicità che, in qualunque modo, compresa la sua presentazione, è idonea a indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico, ovvero che, per questo motivo sia idonea a ledere un concorrente”.
Il divieto di pubblicità ingannevole è posto a presidio della libertà di determinazione delle scelte dei consumatori, posto che la pubblicità – promuovendo la vendita di prodotti o servizi – è uno strumento atto ad orientarne gli acquisti e/o a stimolarne bisogni e pertanto, se ingannevole, comprometterebbe una scelta avveduta e consapevole.
A tal fine la legge tutela la correttezza delle campagne pubblicitarie, dando rilevanza non all’intenzione dell’inserzionista, quanto all’idoneità della condotta ad indurre in errore il consumatore medio del settore di riferimento; errore che può riguardare la natura del prodotto/servizio o delle sue caratteristiche, la sua origine, il suo prezzo e le condizioni di vendita.
È quindi ingannevole il messaggio pubblicitario che, in qualunque modo, compresa la sua presentazione (modo in cui il messaggio viene inserito nel giornale o sito web, ecc.), e indipendentemente dall’intento dell’operatore (cioè oggettivamente), sia idoneo a:
- indurre in errore i destinatari o comunque coloro che la stessa raggiunge;
- pregiudicare il comportamento economico dei destinatari, anche solo potenzialmente (cioè indipendentemente dal fatto che il messaggio produca un danno).
Qualora la pubblicità induca in errore i consumatori, si applicano le regole del Codice del Consumo in tema di pratiche commerciali scorrette, mentre se l’ingannevolezza è idonea a determinare un pregiudizio economico dei concorrenti, si applica la disciplina del D.lgs. n. 145/2007.
Si ritiene idonea a determinare un danno economico ai concorrenti la pubblicità che sia tale da provocare, anche solo in forma potenziale, lo sviamento della clientela, conseguente alla deviazione, a causa del messaggio commerciale, delle scelte economiche dei consumatori. Secondo l’AGCM, accertata l’ingannevolezza del messaggio, il pregiudizio dei concorrenti è considerato in re ipsa, dato che questi ultimi non possono non risentire dello sviamento della clientela verso i prodotti del concorrente; pertanto, il verificarsi di indebiti vantaggi per il professionista non è condizione necessaria per determinare l’ingannevolezza di un messaggio pubblicitario.
Ai sensi dell’art. 3 D. Lgs n. 145/2007, nella valutazione del carattere ingannevole di un messaggio pubblicitario è necessario considerarne tutti gli elementi, con particolare attenzione:
- a) alle caratteristiche dei beni o dei servizi(disponibilità, natura, esecuzione, composizione, metodo e data di fabbricazione o della prestazione, idoneità allo scopo, usi, quantità, descrizione, origine geografica o commerciale, risultati che si possono ottenere con il loro uso, risultati e caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi);
- b) al prezzo, al modo in cui questo è calcolato ed alle condizioni alle quali i beni o i servizi sono forniti;
- c) alla categoria, alle qualifiche e ai diritti dell’operatore pubblicitario (identità, patrimonio, capacità, diritti di proprietà intellettuale e industriale, ogni altro diritto su beni immateriali relativi all’impresa ed i premi o riconoscimenti).
Secondo l’AGCM, se il messaggio pubblicitario è rivolto a un bacino di utenti costituito da professionisti, deve essere esaminato tenendo conto del normale grado di competenza e avvedutezza di tale categoria di destinatari; ciò non rende, però, questi ultimi immuni da possibili fraintendimenti o induzioni in errore in ordine alle caratteristiche e condizioni dell’offerta prospettata da una comunicazione pubblicitaria non chiara e incompleta. Infatti, la legge tutela anche i soggetti mediamente più accorti dei consumatori nei confronti di comunicazioni commerciali ingannevoli.
Il giudizio di ingannevolezza si fonda sulla valutazione dell’esistenza o meno di elementi capaci di richiamare l’attenzione dei destinatari (c.d. “indici di valore aggiunto”), il che esclude l’illegittimità di una pubblicità in cui l’ingannevolezza riguardi fattori marginali e inidonei a condizionare la scelta economica.
L’ingannevolezza può anzitutto articolarsi in forma attiva, cioè attraverso affermazioni sulle qualità dei beni o servizi venduti non corrispondenti al vero, o comunque idonee a indurre in errore i destinatari. È stata ritenuta ingannevole, ad es., la comunicazione commerciale di una rivista equestre che lasciava intendere, contrariamente al vero, che l’utilizzo di certi materiali per i fondi equestri fosse vietato, come pure l’affermazione, priva di supporto probatorio, della natura biodegradabile di un prodotto. Diversamente, non è ingannevole l’esaltazione dei propri prodotti supportata da riscontri tecnici o scientifici, da indagini statistiche o ricerche di mercato, o ancora da riconoscimenti statali. Anche l’uso improprio di termini come “garantito” o “gratis” è stato ritenuto idoneo a rendere fuorviante la comunicazione commerciale.
L’ingannevolezza può altresì derivare dall’omissione di informazioni rilevanti per decisione del destinatario, come le condizioni economiche (anche accessorie) di un servizio. Ad es., è stata ritenuta ingannevole la mancata precisazione che all’interno del prezzo previsto per una Internet key non fosse incluso il traffico con essa prodotto, come pure l’omissione, all’interno di una pubblicità di un contratto di franchising che indicava i dati di crescita della catena di negozi, delle informazioni riguardanti i numerosi punti vendita che venivano chiusi.
Nella valutazione della condotta del professionista, l’AGCM prende in considerazione elementi quali la competenza nell’area di mercato e le caratteristiche dell’attività svolta con riferimento al profilo della violazione. In questo senso, è stato sanzionato il comportamento del professionista che, non verificando accuratamente i dati trasmessi da un suo produttore in relazione alla qualità di un bene, ha diffuso messaggi pubblicitari attribuendo ai propri prodotti caratteristiche non sussistenti. Anche il numero di segnalazioni pervenute per la campagna pubblicitaria può essere indice della natura decettiva dei messaggi.
Come si vedrà meglio in seguito, è molto importante – per evitare il rischio che un determinato messaggio pubblicitario possa essere ritenuto ingannevole – che l’impresa precostituisca fin dall’inizio – cioè prima di diffondere il messaggio – la prova dell’esattezza materiale dei dati di fatto contenuti nella pubblicità. Infatti, è l’impresa che deve dimostrare la veridicità del messaggio pubblicitario, qualora ne venga contestata l’ingannevolezza.
5. La pubblicità comparativa
La pubblicità comparativa è quella modalità di comunicazione pubblicitaria con la quale un’impresa promuove i propri beni o servizi mettendoli a confronto con quelli dei concorrenti, individuati genericamente o invece specificamente. L’art. 2, lett. d), del D.lgs. n. 145/2007 definisce infatti la pubblicità comparativa come “qualsiasi pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente”.
La comparazione deve coinvolgere imprese concorrenti; tale requisito è soddisfatto nel momento in cui esiste un certo grado di sostituibilità, anche potenziale, tra i beni o i servizi offerti, o almeno una parte degli stessi, in considerazione delle caratteristiche concrete dei prodotti comparati e indipendentemente dal fatto che essi appartengono o meno allo stesso tipo merceologico.
La pubblicità comparativa può essere:
- diretta, quando i concorrenti sono riconoscibili o mediante citazione espressa della loro denominazione o del loro marchio (es.: “L’auto X è più confortevole della Y e costa meno”), ovvero mediante l’indicazione di elementi che li rendano inequivocabilmente riconoscibili (es.: “Ci sono banane solo con il timbro e ci sono banane sane come Paquita”);
- indiretta, quando chi attribuisce al proprio prodotto pregi unici implicitamente afferma che tali pregi non sono posseduti da tutti i prodotti concorrenti (es.: “L’unica autovettura silenziosa come la notte”).
Non rientra invece nella definizione di pubblicità comparativa ai sensi del D.lgs. n. 145/2007 la pubblicità superlativa, che si ha quando la comunicazione commerciale fa uso del superlativo relativo (ad es. “il più buono”), implicitamente comparando il prodotto o il servizio venduto a tutti quelli in concorrenza nel medesimo mercato.
In generale, la pubblicità comparativa è legittima se viene effettuata rispettando determinate condizioni, volte a evitare che essa si traduca in uno strumento idoneo a compromettere il libero gioco del mercato.
La pubblicità comparativa è lecita lecita quando ricorrono, cumulativamente, le seguenti condizioni:
- non è ingannevole (v. il par. precedente);
- confronta beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi;
- confronta oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo, di tali beni e servizi;
- non ingenera confusione sul mercato tra i professionisti o tra l’operatore pubblicitario ed un concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, altri segni distintivi, i beni o i servizi dell’operatore pubblicitario e quelli di un concorrente;
- non causa discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, beni, servizi, attività o posizione di un concorrente;
- per i prodotti recanti denominazione di origine, si riferisce in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione;
- non trae indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale ovvero ad altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti;
- non presenta un bene o un servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati.
Il confronto, lungi dall’essere meramente suggestivo, deve essere quindi basato su dati concreti, direttamente valutabili dai consumatori per la decisione commerciale. In proposito, l’AGCM ha più volte evidenziato l’importanza delle modalità attraverso le quali viene eseguita la comparazione, le quali devono contribuire, insieme all’elemento contenutistico, a rendere il confronto obiettivo, puntuale e informativo.
In particolare, ciò che rileva ai fini della valutazione della possibile ingannevolezza del messaggio pubblicitario comparativo è la veridicità delle informazioni fornite (relative al prodotto e/o al prodotto concorrente).
Ad es., l’AGCM ha ritenuto illegittima la comparazione mediante messaggio che utilizzava ingannevolmente dati numerici per dimostrare la maggiore efficienza del prodotto pubblicizzato, o quella realizzata da un’emittente televisiva in modo generico e omissivo sui programmi di un concorrente, senza alcuna indicazione del genere televisivo, o ancora la diffusione presso gli operatori sanitari di un opuscolo che presentava un integratore alimentare confrontandolo con specialità medicinali attraverso una tabella comparativa, nella quale si evidenziava che il prodotto avrebbe consentito di ridurre le somministrazioni giornaliere degli attivi rispetto ai principali competitors, migliorando così la compliance del paziente, riportando informazioni decettive circa la non dimostrata capacità del prodotto medesimo di favorire la totale e veloce risoluzione di determinati sintomi.
Per quanto concerne il requisito dell’omogeneità, questo implica che i beni e servizi confrontati appartengano allo stesso mercato di riferimento e quindi siano in concorrenza tra loro, perché in qualche modo fungibili agli occhi del consumatore. Non è invece necessario che i prodotti o servizi confrontati siano identici o che appartengano alla stessa categoria merceologica.
La comparazione deve quindi riguardare beni e servizi idonei a soddisfare i medesimi bisogni o a raggiungere gli stessi obiettivi; deve trattarsi, in altre parole, di beni fungibili o quanto meno di beni succedanei in ragione della funzione esercitata. Sulla base di tale principio, l’AGCM ha sanzionato una pubblicità online che confrontava integratori con prodotti farmaceutici, di natura diversa rispetto ai primi, e ha considerata non obiettiva la comparazione dei prezzi di servizi tra loro differenziati, contenente dati non omogenei sui costi accessori.
Il confronto deve essere utile a illustrare le qualità dei beni commercializzati, confrontando oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative. L’oggettività della comparazione, connessa alla sua verificabilità, si ritiene soddisfatta, ai sensi dell’art. 4 comma 2 lett. c) D.lgs. n. 145/2007, “quando i dati addotti a illustrazione della caratteristica del bene o servizio pubblicizzato sono suscettibili di dimostrazione”.
Ciò implica che le caratteristiche dei prodotti o dei servizi comparati, oltre che veritiere, devono essere di natura tale da poter essere confrontate in modo equo e imparziale. Pertanto, il paragone deve riguardare qualità oggettivamente rilevabili e non caratteristiche il cui giudizio può variare da persona a persona. L’AGCM ha ritenuto illegittima, per esempio, la comparazione effettuata con una grafica fuorviante e avente a oggetto beni con strutture tecniche differenti, non comparabili.
Oltre all’obiettività, l’art. 4, lett. c) D.lgs. n. 145/2007 richiede che il confronto verta su caratteristiche essenziali, pertinenti, rappresentative e verificabili. La comparazione non deve riguardare aspetti insignificanti o marginali, e deve mettere i suoi destinatari in grado di identificare i beni o i servizi comparati.
In particolare, affinché il requisito della verificabilità sia rispettato, è sufficiente che la pubblicità indichi dove e come gli elementi della comparazione possano essere agevolmente individuati dal destinatario, al fine di permettergli di verificare o, se questi non ha la competenza, di far verificare da terzi l’esattezza delle informazioni riportate. Gli elementi della comparazione devono poter essere accessibili indipendentemente dall’instaurazione di una fase contenziosa. È ammesso anche il confronto parziale tra prodotti, cioè limitato solo ad alcuni aspetti e non ad altri.
6. L’AGCM e il procedimento per pubblicità illecita
Le autorità competenti a giudicare sulla pubblicità sono:
- la magistratura ordinaria o amministrativa;
- le autorità amministrative indipendenti, come l’AGCM;
- gli organismi auto disciplinari, come l’IAP.
Tali diverse autorità possono essere adite in modo autonomo e indipendente tra di loro; pertanto, se pende un procedimento dinnanzi all’autorità amministrativa o autodisciplinare, rimane aperta la strada della tutela giurisdizionale; viceversa, è sempre attivabile la tutela autodisciplinare nel caso in cui pendano procedimenti giudiziari o amministrativi sul medesimo caso. Ciò fa sì che vi sia il rischio di provvedimenti contraddittori tra loro, aventi a oggetto il medesimo fenomeno pubblicitario.
L’ Autorità Garante della concorrenza e del Mercato (AGCM), si occupa di sanzionare, a tutela di interessi collettivi e in attuazione di norme di diritto pubblico, le pubblicità ingannevoli e scorrette comparative. Le relative decisioni sono impugnabili dinnanzi alla magistratura amministrativa, che in tal senso entra in gioco come giudice di secondo grado.
L’AGCM ha dei poteri molto penetranti e molto maggiori di quelli dell’autorità giudiziaria. In particolare, l’AGCM possiede infatti una serie di poteri investigativi, che comprendono la possibilità di:
- accedere a qualsiasi documento pertinente;
- richiedere a chiunque informazioni e documenti pertinenti, con la facoltà di sanzionare l’eventuale rifiuto o la trasmissione di informazioni e documenti non veritieri;
- effettuare ispezioni;
- avvalersi della Guardia di Finanza;
- disporre perizie;
- consultare esperti.
L’AGCM è piuttosto rapida; il procedimento davanti alla stessa si conclude infatti mediamente entro sei mesi dall’inizio dell’istruttoria (contrariamente a quanto accade nei giudizi davanti all’Autorità giudiziaria ordinaria, i quali, come è noto durano purtroppo diversi anni).
Pertanto, è essenziale che, quando un’impresa è sottoposta ad un procedimento davanti all’AGCM per (presunta) pubblicità ingannevole, si rivolga tempestivamente ad un legale esperto in materia.
Dati i poteri molto penetranti dell’AGCM e le sanzioni anche molto pesanti che l’AGCM può irrogare (v. par. 7), in caso di indagini è opportuno assumere un atteggiamento molto prudente; da una parte occorre essere collaborativi con l’AGCM, ma dall’altra occorre tutelare attentamente i propri diritti nel procedimento.
L’AGCM si può attivare d’ufficio o a seguito di una denuncia, che può essere effettuata da chiunque ne abbia interesse; quindi, non solo da imprese concorrenti, ma anche da un consumatore. La denuncia all’AGCM deve contenere i dati identificativi del denunciante (non sono infatti ammissibili denunce anonime, anche se è consentita una certa riservatezza), l’indicazione del messaggio pubblicitario denunciato ed i motivi per i quali lo si ritiene ingannevole.
Ricevuta l’istanza, l’AGCM è obbligata a valutare la stessa, ma non ad avviare il procedimento; il procedimento viene avviato solo nel caso in cui, durante la fase preistruttoria, il responsabile del procedimento accerti la ricevibilità e la non manifesta infondatezza della segnalazione, ovvero:
- la sussistenza delle informazioni minime necessarie all’identificazione delle parti e della fattispecie, nonché la presenza di elementi tali da giustificare altri accertamenti;
- la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge;
- la non manifesta inidoneità del messaggio a falsare in misura rilevante il comportamento del consumatore medio a cui è diretto (c.d. “de minimis”);
- la non irrilevanza e l’opportunità dell’intervento secondo criteri di razionalizzazione, efficacia ed economicità amministrativa (c.d. “non luogo a provvedere”).
Nel caso in cui accolga l’istanza di avvio della procedura, il responsabile competente introduce la fase istruttoria comunicando alle parti e agli interessati intervenuti – anche mediante avviso sul bollettino del sito o comunicato stampa – l’avvio del procedimento, il suo oggetto, gli elementi ottenuti, il termine dell’istruttoria, gli uffici competenti, la possibilità e il termine per le memorie scritte e i documenti.
Il procedimento deve concludersi entro 120 giorni dalla data di protocollo della comunicazione di avvio, o 150 nel caso in cui l’AGCM debba richiedere il parere di un’altra autorità di settore; tale termine può tuttavia allungarsi ulteriormente nel caso in cui il professionista risieda all’estero o in caso di proroghe, fino a massimo 60 giorni, disposte dall’AGCM nel caso di particolari esigenze istruttorie, di estensione del procedimento oggettiva o soggettiva, o di presentazione di impegni da parte del professionista, o nel caso in cui sia necessario ottenere informazioni da altre istituzioni o enti pubblici. Il termine può essere sospeso su istanza di parte nel caso in cui sia pendente in ambito autodisciplinare un procedimento soggettivamente e oggettivamente.
Durante la fase preistruttoria, l’AGCM gode di notevole discrezionalità, potendo:
- ricorrere a poteri investigativi ed esecutivi;
- chiedere informazioni utili da ogni soggetto pubblico o privato;
- sentire le parti o terzi nel rispetto del principio del contraddittorio;
- disporre perizie e analisi statistiche ed economiche;
- disporre ispezioni presso il professionista con l’ausilio della Guardia di finanza.
Già in fase preistruttoria, il responsabile del procedimento, qualora sussistano fondati motivi per ritenere che il messaggio pubblicitario costituisca pubblicità ingannevole o pubblicità comparativa illecita, ma al contempo non emergano profili di particolare gravità, può invitare il professionista a rimuovere i profili di possibile ingannevolezza o illiceità (moral suasion). Se il professionista aderisce all’invito, la pratica viene archiviata.
L’AGCM archivia la denunzia se non emergono elementi di ingannevolezza, tenuto conto anche dell’ambito di diffusione del messaggio e del fatto che la denunzia o il messaggio siano isolati e sporadici. Altrimenti l’AGCM dà inizio alla fase istruttoria, dandone comunicazione a tutti i soggetti interessati e sul sito internet dell’AGCM.
Può partecipare all’istruttoria qualsiasi soggetto che vi abbia interesse . Nel corso dell’istruttoria le parti interessate hanno la possibilità di depositare memorie difensive e accedere alla documentazione, tranne i casi di manifesta riservatezza (ad es. segreti commerciali). Il responsabile del procedimento può disporre audizioni delle parti interessate.
Durante l’istruttoria, l’AGCM può disporre la sospensione provvisoria della pubblicità ingannevole o comparativa illecita, in caso di particolare urgenza.
L’impresa può, entro 45 gg. dalla ricezione della comunicazione di avvio del procedimento, presentare un impegno a porre fine all’infrazione, cessando la diffusione del messaggio o modificandolo in modo da eliminare i motivi della sua illegittimità. Le misure correttive proposte devono essere pertinenti rispetto all’oggetto del procedimento e quindi funzionali all’eliminazione dei profili di ingannevolezza oggetto di accertamento, non essendo ammissibili le promesse realizzate al solo fine di evitare la sanzione.
L’impegno viene valutato dall’AGCM, che può proporre integrazioni. Se l’AGCM accetta l’impegno, può non procedere all’accertamento dell’infrazione. L’AGCM può anche obbligare l’impresa a pubblicare a sue spese la dichiarazione di assunzione dell’impegno. Se l’impresa non attua l’impegno, le vengono irrogate sanzioni pecuniarie e può essere sospesa l’attività fino a 30 gg.
L’AGCM non può però accettare impegni nei casi di grave e manifesta ingannevolezza del messaggio o qualora l’impegno non sia ritenuto idoneo a rimuovere l’ingannevolezza.
È importante evidenziare che è l’impresa interessata a dover dimostrare l’esattezza materiale dei dati di fatto contenuti nella pubblicità. Se tale prova non viene fornita o è ritenuta insufficiente, i dati di fatto sono considerati inesatti. Occorre quindi prestare particolare attenzione, fin dall’inizio, a precostituirsi la documentazione idonea a dimostrare la veridicità delle informazioni veicolate attraverso la pubblicità. In particolare, in caso di dati economici, occorre essere in possesso di riscontri oggettivi, dotati di valenza economico – statistica, circa i dati pubblicizzati.
Il giudizio dell’AGCM sull’illegittimità della comunicazione commerciale non implica l’accertamento del dolo o della colpa del professionista, ma si concentra esclusivamente sul rispetto del requisito della diligenza professionale, la quale viene valutata tenendo conto, in particolare, della competenza nel mercato e delle caratteristiche dell’attività svolta. Tuttavia, è possibile, entro certi limiti, escludere la colpevolezza in ragione della buona fede o del legittimo affidamento del professionista autore della condotta, eventualmente determinato da rassicurazioni provenienti da fonti qualificate.
7. Le sanzioni dell’AGCM per pubblicità illecita
Se l’AGCM accerta l’illiceità del messaggio pubblicitario, può:
- vietare di diffondere o di continuare la diffusione del messaggio;
- obbligare l’operatore a rendere pubblica la decisione dell’AGCM a sue spese a mezzo stampa, oppure attraverso la radio o la televisione, o eventualmente attraverso la diffusione di un’apposita dichiarazione di rettifica;
- condannare l’operatore a una sanzione amministrativa pecuniaria, che, tenuto conto della gravità e della durata della violazione, può andare da 5.000,00 a 500.000,00 Euro. La sanzione deve essere pagata entro 30 giorni.
Se i provvedimenti dell’AGCM non vengono rispettati, l’AGCM applica una ulteriore sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000,00 a 150.000,00 Euro e, nel caso di reiterata violazione, può disporre la sospensione dell’attività di impresa fino a 30 giorni.
La quantificazione della sanzione pecuniaria avviene sulla base dei criteri di cui all’art. 11 L. n. 689/81, ovvero:
- la gravità della violazione;
- l’entità del pregiudizio arrecato ai destinatari (ad es., l’esborso economico richiesto per aderire alla rete in franchising);
- la durata della violazione (se superiore a 1 mese la violazione è già grave, ed aumenta all’aumentare del periodo di diffusione della pubblicità;
- la modalità di diffusione, l’ampiezza e capacità di penetrazione del messaggio (se il messaggio è diffuso a mezzo internet, è suscettibile di raggiungere un ampio numero di consumatori, con conseguente maggiore gravità della sanzione);
- l’opera svolta dall’operatore per attenuare o eliminare l’infrazione;
- le condizioni economiche dell’operatore (fatturato);
- la tipologia dei destinatari (la sanzione è più grave se la pubblicità è diretta a consumatori o piccoli imprenditori, come nel caso della maggior parte degli affiliati).
Particolarmente efficace (e foriera di danni per le imprese) è la sanzione costituita dalla pubblicazione a cura e spese del professionista della delibera o di un’apposita dichiarazione rettificativa (corrective advertising) in modo da impedire che la pubblicità scorretta continui a produrre effetti, che l’AGCM può disporre valutando la modalità di diffusione, la particolare insidiosità del messaggio (per esempio per le modalità grafiche o il contenuto) e la particolare gravità della violazione.
Accanto al danno economico diretto (sanzione pecuniaria, divieto di diffusione del messaggio), le imprese possono quindi subìre un rilevante danno economico indiretto, dato dal discredito commerciale e dal danno d’immagine derivante dalla pubblicazione della decisione dell’AGCM e dalle notizie sui media.
Contro la decisione dell’AGCM si può ricorrere al Giudice amministrativo (TAR – Consiglio di Stato).
Il TAR (e il CdS) si limita tuttavia ad un controllo di mera legittimità (violazione di legge – eccesso di potere), ovvero della non manifesta infondatezza della decisione dell’AGCM sotto il profilo della logicità, coerenza e completezza della motivazione con cui è stata ritenuta l’ingannevolezza del messaggio. Non viene invece valutato il merito, cioè l’ingannevolezza del messaggio.
Per tale motivo, nella maggioranza dei casi il TAR conferma la decisione dell’AGCM. Dunque è consigliabile impugnare le decisioni dell’AGCM solo in caso di manifesta infondatezza o illogicità.
8. L’azione inibitoria collettiva, la class action e l’azione di risarcimento del danno per pubblicità illecita
I provvedimenti dell’AGCM non pregiudicano l’esperibilità di qualsiasi azione civile, amministrativa o penale a cui gli interessati siano legittimati. In particolare, le imprese concorrenti che ritengano di aver subito un pregiudizio a seguito di pubblicità ingannevole o comparativa illecita possono adire la magistratura ordinaria per ottenere un provvedimento inibitorio e/o il risarcimento del danno.
Il provvedimento inibitorio può essere richiesto – anche in via d’urgenza, ex art. 700 c.p.c.- per far cessare gli effetti della pubblicità illecita. Tale rimedio è attivabile a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo e dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa del soggetto agente; per l’applicazione della misura inibitoria è sufficiente l’idoneità degli atti a danneggiare l’altrui azienda.
L’inibitoria può essere chiesta individualmente (da parte del singolo imprenditore che si ritenga leso dalla pubblicità ingannevole o comparativa illecita) o collettivamente, In questo secondo caso, può essere proposta un’azione inibitoria collettiva o una class action.
L’azione inibitoria collettiva ha la funzione di proteggere interessi diffusi, o comunque superindividuali, diversamente dall’azione ordinaria. Ai sensi dell’art. 840-sexiesdecies c.p.c., chiunque abbia interesse alla pronuncia di una inibitoria di atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti, può agire per ottenere un ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva.
Legittimato ad agire per l’inibitoria – oltre alle associazioni od organizzazioni rappresentative degli interessi collettivi pregiudicati – è dunque qualsiasi professionista che vi abbia interesse; l’azione inibitoria contro una pubblicità ingannevole o comparativa illecita può quindi essere promossa a tutela di una categoria professionale che si assume lesa, nei confronti di imprese o enti gestori di pubblici servizi o di servizi di pubblica utilità.
Un altro rimedio attivabile contro la comunicazione commerciale illegittima è la class action. La tutela derivante dall’azione di classe presuppone una tecnica processuale differente rispetto all’azione inibitoria: mentre quest’ultima è strumentale alla protezione di interessi superindividuali, intervenendo sulla condotta scorretta con funzione preventiva; la class action rappresenta una forma di tutela collettiva risarcitoria, che presuppone una pluralità di situazioni individuali (già) danneggiate dal medesimo comportamento commerciale.
L’art. 840-bis c.p.c. riconosce alle organizzazioni o associazioni senza scopo di lucro iscritte in un apposito elenco, i cui obiettivi statutari comprendano la tutela di una categoria omogenea di diritti, nonché a ciascun componente della classe interessata, il diritto di agire nei confronti dell’autore della condotta lesiva per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni. La class action, dunque, può essere promossa anche da un solo individuo, ma deve riguardare una pluralità di soggetti, senza che sia richiesto né un numero adeguato, né un rappresentante di categoria, purché il promotore sia in grado di curare adeguatamente i diritti individuali omogenei contro la medesima impresa. È fatta salva la possibilità di far valere i diritti in via ordinaria con l’azione individuale.
Un gruppo di individui diventa “classe” quando sussiste una certa omogeneità sia nel contesto commerciale di riferimento che nel contenuto dei diritti fatti valere, i quali devono dunque presentare un nucleo condiviso: l’omogeneità deve rintracciarsi nella comunanza delle questioni di fatto, ma anche di diritto, in misura prevalente rispetto ai profili di differenziazione. Uno degli ambiti in cui è possibile un’azione di classe a tutela di diritti omogenei è appunto quello della comunicazione commerciale; nel caso in cui, dunque, un professionista si ritenga leso da una pubblicità, lo stesso potrà, individualmente o tramite un’associazione di categoria, avviare l’azione di classe o aderire a un’azione già intrapresa contro la medesima condotta.
Ciascun soggetto leso può aderire a un’azione già in corso (opt-in), con possibili vantaggi rispetto all’iniziativa autonoma. Nell’ipotesi della pratica pubblicitaria l’individuazione dei soggetti danneggiati potrebbe spesso non risultare agevole, dato il carattere tendenzialmente indefinito dei destinatari a cui è rivolta; in tal senso, l’opt-in può risultare necessaria. Tuttavia, nel caso di pubblicità idonea a incidere su un gruppo chiaramente individuato di soggetti (ad es. alcune imprese concorrenti), l’estensione degli effetti della sentenza ai danneggiati non intervenuti dovrebbe ritenersi una misura ragionevole e sicuramente idonea a rafforzare la funzione di deterrenza del rimedio, dati i rischi economici per l’impresa.
Vi è infine la possibilità di agire davanti all’autorità giudiziaria ordinaria per ottenere il risarcimento del danno derivante da pubblicità ingannevole o comparativa illecita, ai sensi dell’art. 2598 c.c. in tema di concorrenza sleale.
La tutela in via amministrativa (davanti all’AGCM) e quella giurisdizionale (davanti al Giudice Ordinario) corrono infatti su binari paralleli, in quanto l’una non incide sull’altra; tuttavia, vi sono interferenze di fatto.
Un provvedimento dell’AGCM che accerta la natura ingannevole di un messaggio pubblicitario costituisce infatti un grave indizio nel giudizio davanti al Giudice ordinario circa la responsabilità dell’operatore (per dolo o errore), e può quindi essere utilizzata per ottenere il risarcimento del danno, anche in modo strumentale.
Il danno risarcibile è costituito, ai sensi dell’art. 1223 c.c., dal danno emergente – consistente nelle spese necessarie a opporsi all’illecito o negli investimenti pubblicitari pregiudicati – e dal lucro cessante, costituito dal mancato guadagno derivante dalla condotta sleale; sotto quest’ultimo profilo occorre provare sia il calo di fatturato che il nesso di causalità tra esso e l’atto di concorrenza sleale contestato. Quest’ultimo profilo è difficilmente dimostrabile quando la concorrenza sleale si concretizza in una comunicazione pubblicitaria; in tali casi si ricorre spesso alla richiesta della liquidazione in via equitativa del danno, ammessa dalla giurisprudenza purché comunque sia dimostrata la sua esistenza e la difficile determinazione dell’ammontare.
È possibile altresì chiedere la pubblicazione della sentenza, sia su testate giornalistiche che su internet. La pubblicazione viene concessa anche in assenza di danni concretamente risarcibili, qualora sia necessaria e proporzionale rispetto all’esigenza riparatoria, da escludere nel caso di condotta ormai lontana nel tempo e con diffusione ampiamente circoscritta.
Qualora, infine, la pubblicità il diritto d’autore, il marchio o gli altri segni distintivi di un’impresa concorrente, possono applicarsi i rimedi previsti dalla disciplina di settore, analoghi a quelli in materia di concorrenza sleale, ovvero l’azione inibitoria e il risarcimento del danno.
9. La tutela di fronte all’IAP
L’Istituto di autodisciplina Pubblicitaria (IAP), composto dal Giurì e dal Comitato di controllo, si occupa dell’accertamento della violazione del codice di autodisciplina nei confronti di coloro che vi abbiano aderito.
È possibile anzitutto evitare il ricorso all’AGCM o all’autorità giudiziaria attraverso un preliminare tentativo di risoluzione della controversia in sede autodisciplinare, ferma restando la possibilità di ricorrere all’AGCM o al giudice ordinario qualunque sia il risultato raggiunto in sede autodisciplinare. La conciliazione davanti all’IAP non ha quindi efficacia vincolante, potendo le relative decisioni essere contestate dalle parti e non tenute in considerazione dalle autorità giudicanti ordinarie.
Inoltre, una volta iniziata la procedura davanti a un organismo di autodisciplina, le parti possono convenire di astenersi dall’adire l’AGCM fino alla pronuncia definitiva, o possono chiedere la sospensione del procedimento innanzi all’AGCM, qualora lo stesso sia stato attivato anche da altro soggetto legittimato, in attesa della pronuncia dell’organismo di autodisciplina. L’AGCM, valutate tutte le circostanze, può disporre la sospensione del procedimento per un periodo non superiore a trenta giorni.
La procedura autodisciplinare è molto efficace e tempestiva; tuttavia, l’applicazione del codice di autodisciplina e delle decisioni del Giurì è subordinata alla spontanea adesione degli operatori pubblicitari e dei proprietari dei mezzi di comunicazione, mediante accettazione diretta dello stesso, o della propria associazione di appartenenza, ovvero mediante l’inserimento di un’apposita clausola nei contratti pubblicitari. Ciò significa che l’organo giudicante deve verificare preliminarmente se l’autore della pubblicità, cioè colui che ha deciso e gestito la comunicazione commerciale, ha aderito al sistema autodisciplinare.
Gli organi di autodisciplina possono accertare l’illecito, ordinarne la cessazione della pubblicità ritenuta non conforme al codice di autodisciplina e, in casi di particolare gravità, disporre la pubblicazione del provvedimento.
Le parti devono comunicare alla segreteria dell’IAP, entro il giorno lavorativo successivo alla pronuncia, di essersi già attivate per sospendere il messaggio entro i termini assegnati. Qualora il destinatario passivo della decisione non vi si attenga nei tempi previsti, il Giurì reitera l’ordine di cessazione della condotta interessata e dispone che si dia notizia al pubblico dell’inottemperanza, sugli organi di stampa ritenuti opportuni. L’inottemperanza sussiste anche qualora sia diffuso un nuovo claim che corrisponde sostanzialmente o funzionalmente a quello sanzionato. In tal caso, si apre un nuovo giudizio, in cui il Giurì si limita ad accertare e inibire il comportamento scorretto del professionista, senza tuttavia rivalutare il contenuto del precedente provvedimento.
I provvedimenti del Giurì sono definitivi e non impugnabili, ma a differenza di quelli delle altre autorità non hanno efficacia coercitiva, cioè non possono essere eseguiti coattivamente. Nonostante l’ampia adesione al sistema dell’IAP da parte delle associazioni degli operatori del settore pubblicitario e dei mezzi di comunicazione, l’assenza di strumenti di applicazione coattiva della decisione autodisciplinare e la mancanza di un suo carattere vincolante per le autorità giudicanti ordinarie, rappresentano un grave difetto di effettività del sistema di tutela autodisciplinare. Inoltre, la portata sanzionatoria dei provvedimenti è ulteriormente sminuita a causa dell’impossibilità, per il Giurì, di emettere condanne al risarcimento dei danni o sanzioni pecuniarie.
10. Indicazioni per una pubblicità senza rischi legali
Come abbiamo visto, un provvedimento sanzionatorio dell’AGCM per pubblicità ingannevole espone le imprese a molteplici rischi: sanzioni pecuniarie, danni all’immagine dell’impresa e alla reputazione del brand, possibili azioni di risarcimento del danno.
Come evitare questi rischi? Ecco di seguito alcuni sintetici ma utili suggerimenti.
Primo: è opportuno ideare e realizzare campagne pubblicitarie il più possibile conformi alla normativa sulla pubblicità, e quindi veritiere, chiare e complete; in particolare, non è opportuno enfatizzare esperienza, successo commerciale, posizione rispetto ai concorrenti, profitti realizzabili, servizi sul mercato privi di effettivo riscontro nella realtà.
Secondo: è opportuno fornire dati o previsioni di fatturato e utili basati su risultanze certe, oggettive, veritiere e dimostrabili a posteriori. Nel dubbio, è preferibile fornire dati conservativi e prudenziali piuttosto che troppo ottimistici.
Terzo: è opportuno prestare molta attenzione alla redazione e diffusione di un messaggio pubblicitario, e rivolgersi, possibilmente prima che il messaggio venga divulgato, a un legale esperto in materia.
Quarto: se si riceve una denunzia o una comunicazione dall’AGCM circa la potenziale ingannevolezza di un messaggio pubblicitario, occorre avvertire immediatamente il legale di fiducia e interrompere immediatamente la diffusione dello stesso, operando se del caso prima possibile le opportune modifiche, rettifiche o integrazioni.
Quinto: è opportuno fornire la più ampia collaborazione con l’AGCM, in piena trasparenza, essere disponibili ad assumere impegni nei confronti dell’AGCM, ove opportuno e dietro consiglio del legale di fiducia, dare sempre puntuale e rigorosa attuazione alle decisioni dell’AGCM, e non reiterare il messaggio giudicato ingannevole.
Per approfondire i nostri servizi di assistenza e consulenza in tema di compliance, visionate la pagina dedicata del nostro sito .
Avv. Valerio Pandolfini
Per altri articoli di approfondimento su tematiche attinenti il diritto d’impresa: visitate il nostro blog.
Le informazioni contenute in questo articolo sono da considerarsi sino alla data di pubblicazione dello stesso; le norme regolatrici la materia potrebbero essere nel frattempo state modificate.
Le informazioni contenute nel presente articolo hanno carattere generale e non sono da considerarsi un esame esaustivo né intendono esprimere un parere o fornire una consulenza di natura legale. Le considerazioni e opinioni riportate nell’articolo non prescindono dalla necessità di ottenere pareri specifici con riguardo alle singole fattispecie.
Di conseguenza, il presente articolo non costituisce un (né può essere altrimenti interpretato quale) parere legale, né può in alcun modo considerarsi come sostitutivo di una consulenza legale specifica.