Il patto di non concorrenza con i dipendenti
Il know-how aziendale costituisce un patrimonio assai prezioso, a cui le imprese non possono rinunciare. Per evitare la fuoriuscita di “personale-chiave”, l’imprenditore può stipulare con i dipendenti un patto di non concorrenza, con il quale si obbliga a corrispondere al lavoratore una somma di denaro in cambio dell’impegno di quest’ultimo a non svolgere attività concorrenziale per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. L’art. 2125 c.c. subordina la validità di un patto di non concorrenza con gli ex dipendenti a precisi limiti, che devono essere ben conosciuti e attentamente seguiti dalle imprese per evitare problematiche e rischi legali.
1. Il patto di non concorrenza con i dipendenti: cos’è e come funziona
Il know-how aziendale (dati, metodi e processi di lavorazione, organizzazione amministrativa, clienti, etc.), costituisce, come è noto, un patrimonio assai prezioso, a cui le imprese sempre più spesso non possono rinunciare, tanto più se tale rinuncia può comportare un rafforzamento di un concorrente diretto.
Durante il rapporto, di lavoro il divieto di concorrenza rappresenta un elemento essenziale del più generale obbligo di fedeltà del lavoratore, ai sensi dell’art. 2105 c.c. Ma ovviamente, il problema si pone dopo che il lavoratore ha terminato il rapporto di lavoro con l’impresa.
Per evitare la fuoriuscita di “personale-chiave”, l’imprenditore può perseguire una politica di fidelizzazione del personale, ad esempio attraverso degli incentivi mirati. Ma spesso questo non è sufficiente ad evitare il passaggio di un proprio collaboratore ad un diretto concorrente.
Come far sì, allora, che l’ex dipendente non utilizzi i segreti e le notizie apprese durante il rapporto di lavoro?
Lo strumento giuridico che permette di ottenere questo risultato è il patto di non concorrenza. Si tratta di un accordo con il quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere al lavoratore una somma di denaro in cambio dell’impegno di quest’ultimo a non svolgere attività concorrenziale per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.
Tale patto, sebbene sia generalmente stipulato con management e middle management, può in realtà essere stipulato con qualsiasi categoria di lavoratori. Invero, nell’attuale situazione di mercato, caratterizzata da un’agguerrita concorrenza fra imprenditori, anche un semplice commesso vendite può risultare portatore di elementi di conoscenza ed esperienza tali da influire sulle scelte dei consumatori.
Le parti possono sottoscrivere un patto di non concorrenza contestualmente alla sottoscrizione del contratto di lavoro, durante il rapporto (ad esempio, quale contropartita rispetto a miglioramenti di carriera o di affidamenti di nuove responsabilità al lavoratore) ovvero al termine del rapporto stesso.
Spesso, il patto di non concorrenza viene stipulato al momento dell’assunzione del dipendente; inserendo tale clausola all’atto dell’assunzione, il datore di lavoro potrà imporla come conditio sine qua non dell’instaurazione del rapporto di lavoro.
Tuttavia, può trascorrere anche molto tempo dalla sottoscrizione del patto all’effettiva operatività dell’accordo, e in questo periodo la convenienza per l’azienda del patto di non concorrenza, ovvero l’opportunità di sostenerne gli oneri economici al momento della sua effettiva esecuzione potrebbe mutare; si pensi al caso del dipendente che per ragioni di età, familiari o di salute decidesse di ritirarsi dal lavoro o trasferisca la propria residenza al di fuori dell’ambito territoriale di operatività dell’impresa, o viceversa al caso del lavoratore che nel corso della carriera presenti uno sviluppo professionale particolarmente significativo, entrando in possesso delle competenze ‘sensibili’ per la concorrenzialità dell’azienda.
Per ovviare a tali inconvenienti, è abbastanza diffuso nella prassi l’inserimento nel patto di non concorrenza della clausola di opzione o di recesso a favore dell’azienda, in modo da permettere al datore di lavoro di valutare l’effettiva convenienza del patto. Sia l’opzione che il recesso consentono infatti all’imprenditore di differire nel tempo, ad un momento successivo alla stipulazione del patto – che solitamente viene individuato in un termine decorrente dalle dimissioni rassegnate dal lavoratore, o coincide con la cessazione del rapporto per licenziamento o scadenza del termine – la scelta di avvalersi o no del patto di non concorrenza.
La legittimità di tali pattuizioni è tuttavia dubbia – soprattutto qualora non vengano previsti specifici corrispettivi in favore del lavoratore – in quanto l’azienda finisce per condizionare le future scelte di carriera del dipendente, il quale, una volta sottoscritto il patto, pur non avendo ancora la certezza dell’effettiva volontà dell’azienda di avvalersene, viene normalmente indotto a rifiutare eventuali offerte di lavoro da imprese concorrenti, per il timore di esporsi a pesanti richieste risarcitorie, o di vedersi addirittura inibito alla prosecuzione del rapporto con l’impresa concorrente.
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2. I limiti di validità del patto di non concorrenza con i dipendenti
L’art. 2125 cod. civ., allo scopo di non comprimere eccessivamente l’attività del lavoratore e di salvaguardarne le opportunità di occupazione successivamente alla cessazione del rapporto, subordina la validità del patto di non concorrenza ad alcuni limiti di validità.
Qualora uno di tali limiti non fosse rispettato, e dunque il patto di non concorrenza venisse dichiarato nullo, il lavoratore non sarà vincolato al suo rispetto, con l’obbligo conseguente di dover restituire le somme ricevute in corso di rapporto a tale titolo, trattandosi di somme versate indebitamente. Qualora, peraltro, il lavoratore dimostri di aver rifiutato proposte di lavoro, sulla base di un patto di non concorrenza poi dichiarato nullo, potrà essere valutata la non ripetibilità di tali somme da parte del datore di lavoro, pur in presenza di una pronuncia di nullità, stante il legittimo affidamento del lavoratore.
2.1 La forma scritta
Prima di tutto, è necessario che l’accordo di non concorrenza abbia forma scritta. Un patto di non concorrenza in forma verbale è quindi nullo.
Il patto può essere contenuto nello stesso contratto di assunzione o previsto in una scrittura privata separata.
2.2 Il corrispettivo per il lavoratore: a) l’importo
In secondo luogo, il patto di non concorrenza deve sempre essere retribuito con un corrispettivo congruo per il lavoratore che lo sottoscrive, in relazione al sacrificio richiesto a quest’ultimo.
L’art. 2125 c.c. non fissa alcun criterio di quantificazione del corrispettivo per il patto di non concorrenza, lasciando quindi libere le parti di fissarne sia il quantum che il quomodo del versamento.
In ogni caso, il corrispettivo a fronte del patto di non concorrenza deve avere due caratteristiche fondamentali:
- deve essere determinato o determinabile;
- deve essere adeguato e tale da compensare in misura proporzionale i limiti posti alla libertà del lavoratore di ricollocarsi sul mercato.
Sotto il primo profilo, la somma dovuta lavoratore può essere stabilita come quota fissa o come percentuale della retribuzione, purché, l’importo corrisposto al lavoratore deve essere determinato o almeno determinabile, non potendo dipendere la determinazione del corrispettivo dalla sola durata del rapporto (elemento sottratto alla disponibilità del lavoratore).
Sotto il secondo profilo, il corrispettivo non può essere meramente simbolico o sproporzionato in rapporto al sacrificio imposto al lavoratore, alla sua retribuzione, al livello professionale raggiunto e ai minori guadagni che questo potrà realizzare.
Il compenso per il dipendente dovrà essere quindi congruamente determinato in relazione ai seguenti elementi:
- la posizione gerarchica del lavoratore in azienda;
- la retribuzione del lavoratore;
- l’ampiezza del territorio al quale si applica il patto;
- le attività/imprese concorrenti individuate nel patto;
- la durata del patto.
A tal proposito, la giurisprudenza è ormai costante nel ritenere che il corrispettivo minimo in favore del lavoratore per un patto di non concorrenza debba aggirarsi intorno al 20%-30% della retribuzione lorda annua; fermo restando che, qualora l’ambito del patto di non concorrenza sia vasto, la percentuale dovrà essere maggiore.
Indicativamente, possono essere ritenuti congrui, ad esempio, i seguenti corrispettivi:
- per un patto di non concorrenza di durata biennale con un vincolo territoriale estesi a tutta l’Europa e divieto di svolgimento di ogni attività in concorrenza con il gruppo societario di appartenenza del datore di lavoro: circa il 40% dell’ultima retribuzione lorda annua;
- per un patto di non concorrenza di durata biennale con un vincolo territoriale esteso a tutta l’Italia e divieto di svolgimento di ogni attività in concorrenza con il gruppo societario di appartenenza del datore di lavoro: circa il 30% dell’ultima retribuzione lorda annua;
- per un patto di non concorrenza di durata annuale con un vincolo territoriale esteso a tutta l’Italia e divieto di svolgimento di attività solo in specifici settori: circa 15-20% dell’ultima retribuzione lorda annua.
Se il corrispettivo stabilito per il lavoratore non è congruo rispetto al sacrificio a questi imposto, il patto di non concorrenza si considera nullo.
Secondo la giurisprudenza, è lecito un patto di non concorrenza nel quale si prevede un importo in favore del lavoratore variabile a seconda della durata del rapporto di lavoro.
2.3 Il corrispettivo per il lavoratore: b) modalità di erogazione
Il corrispettivo in favore del lavoratore può essere erogato una tantum al momento della cessazione del rapporto di lavoro, oppure in costanza del rapporto di lavoro, quale percentuale fissa – o a volte crescente, in funzione dello sviluppo professionale – della retribuzione.
Nel primo caso, il corrispettivo rimane assoggettato al medesimo regime fiscale di tassazione separata del trattamento di fine rapporto e sottratto agli obblighi contributivi. Se invece il corrispettivo viene percepito dal lavoratore prima della cessazione del rapporto di lavoro (sotto forma di percentuale sulla retribuzione), il corrispettivo ha natura retributiva, concorre a formare la base per il calcolo del trattamento di fine rapporto ed è sottoposto allo stesso trattamento fiscale e contributivo della retribuzione del lavoratore.
Questa seconda ipotesi pone alcune criticità. Infatti, il corrispettivo a fronte del patto di non concorrenza deve essere predeterminato nel suo preciso ammontare già al momento della stipulazione del patto. L’erogazione del corrispettivo in costanza del rapporto rende difficilmente determinabile ex ante la contropartita economica alle future – e certe – limitazioni all’attività di lavoro del prestatore.
Inoltre, il dipendente che abbia già percepito l’intera utilità economica prevista dal patto – avendone oltretutto sofferto un maggior carico fiscale – si troverà a doverne sopportare soltanto gli effetti sfavorevoli – in termini di maggiori difficoltà occupazionali e perdita di reddito – ed avrà dunque tutto l’interesse a contestare la validità del patto, da cui non trae più alcun utile, confidando sul recupero delle maggiori opportunità di impiego pregiudicate dal patto.
Qualora poi il corrispettivo percepito sia stato particolarmente esiguo, e dunque presumibilmente inadeguato a ristorare la perdita di opportunità professionali e reddituali, il lavoratore sarà più facilmente indotto a violare il patto, confidando sui limiti effetti di un’eventuale domanda di restituzione del corrispettivo che dovesse seguire all’accertamento in giudizio della nullità del patto.
Per tale motivo, parte della giurisprudenza prevalente ritiene che il patto di non concorrenza, nel quale sia previsto il pagamento di un importo fisso mensile durante la vigenza del rapporto di lavoro, sia invalido, in quanto questo meccanismo introduce una variabile aleatoria legata alla durata del rapporto di lavoro, mentre la congruità nel corrispettivo deve essere valutabile in astratto, a prescindere dalla durata del rapporto di lavoro. In altri termini, una simile pratica finisce di fatto per attribuire al corrispettivo la funzione di premiare la fedeltà del lavoratore, anziché di compensarlo per il sacrificio derivante dalla stipulazione del patto.
Tuttavia, recentemente la Cassazione ha ritenuto che valido un patto di non concorrenza, il quale preveda che il corrispettivo venga erogato nel corso del rapporto di lavoro (e non alla sua scadenza), commisurato ad una percentuale della retribuzione mensile, da erogarsi con la medesima periodicità di questa, purché sia determinato in modo non simbolo o manifestamente iniquo o sproporzionato. Tale principio apre dunque alla possibilità di una valutazione ex posto della congruità del corrispettivo.
In ogni caso, per superare tale criticità, è possibile prevedere che il corrispettivo del patto di non concorrenza venga erogato in forma mista, ovvero con il versamento di una somma all’instaurazione del rapporto di lavoro, ma anche durante lo stesso, con previsione di un conguaglio al termine dello stesso. In altri termini, è possibile prevedere un congruo livello del corrispettivo per il patto, rapportato ai concreti vincoli imposti al lavoratore, e che, in caso di mancato raggiungimento dell’importo convenuto al termine del rapporto di lavoro, il datore di lavoro versi al lavoratore la differenza rispetto a quanto complessivamente convenuto. Ciò consente di prevedere un importo minimo garantito per il lavoratore a prescindere dalla durata del contratto, e di stabilire l’importo massimo che verrà erogato a quest’ultimo.
2.4 L’oggetto del patto di non concorrenza
In terzo luogo, il patto può riguardare qualunque tipo di attività autonoma o subordinata che possa nuocere all’azienda, e può non essere limitato alle sole mansioni svolte dal lavoratore ma estendersi a qualsiasi attività in concorrenza con quella del datore di lavoro. Ciò che rileva è l’attività svolta dai due diversi datori di lavoro: se l’ambito in cui essa esplica è il medesimo, le due imprese devono essere ritenute in concorrenza, e di conseguenza, l’ex dipendente che collabori con la seconda viola il patto di non concorrenza sottoscritto con la prima. Non possono essere invece oggetto del patto attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda, in quanto inidonee ad integrare concorrenza.
Inoltre, può essere impedita, al dipendente, non solo l’attività in forma subordinata, ma anche quella resa in forma autonoma (ad esempio, consulente, socio, consigliere di amministrazione, agente), prescindendo altresì dalla gratuità o dall’occasionalità dell’attività medesima. E’ altresì possibile estendere il perimetro della futura attività vietata al lavoratore anche alle ipotesi di attività prestata in proprio dall’ex dipendente, o per interposta persona.
L’attività inibita con il patto di non concorrenza non deve necessariamente coincidere con le mansioni del lavoratore, ma può estendersi anche ad ogni altra attività concorrenziale con quella del datore di lavoro.
Tuttavia, il patto di non concorrenza non può imporre al lavoratore restrizioni eccessivamente ampie da impedire al lavoratore di poter lavorare in futuro: in questo senso, la giurisprudenza ritiene che i limiti previsti dal patto non possano precludere qualsiasi attività lavorativa al prestatore di lavoro, in considerazione della tutela costituzionalmente garantita del diritto al lavoro, avuto riguardo al caso concreto e alle possibilità di conseguire redditi futuri e differenti in capo al lavoratore. Ad esempio, è stato ritenuto nullo un patto di non concorrenza il cui oggetto era riferito genericamente ai clienti di una impresa, in quanto avente un oggetto indeterminato e perché il lavoratore non può essere a conoscenza di tutta la clientela in considerazione della normale riservatezza che caratterizza questo genere di rapporti.
È stato, invece, ritenuto valido il patto con il quale un dipendente, assunto con qualifica di addetto marketing presso una società leader a livello internazionale nel settore della commercializzazione di articoli per il fitness, si era impegnato ad astenersi in territorio italiano ed europeo, per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto con la società datrice di lavoro, verso un corrispettivo mensile per tredici mensilità, dal prestare la propria opera, sia in qualità di lavoratore autonomo, che di lavoratore subordinato, in favore di aziende operanti nel medesimo settore, dato che tale patto non impediva al dipendente di esplicare le proprie attitudini professionali in qualsiasi settore economico ad eccezione di quello del fitness.
Nello stesso senso, si è ritenuto valido un patto di non concorrenza della durata di un anno esteso a tutto il territorio italiano e circoscritto al settore dei prodotti ortopedici, in quanto il lavoratore avrebbe potuto utilmente sfruttare la professionalità acquisita in altri settori del campo medico e con riferimento a prodotti appartenenti a settori diversi da quelli oggetto del patto.
2.5 L’area geografica del patto di non concorrenza
In quarto luogo, nel patto deve essere individuata un’area geografica, avente un’estensione delimitata e congrua. Pertanto, il patto di non concorrenza è nullo se la limitazione territoriale non è espressamente determinata o se è troppo estesa o generica (ad esempio, limitazioni riguardanti tutto il territorio europeo), perché si impedirebbe totalmente al lavoratore la possibilità di (re)impiegarsi. Tuttavia, in alternativa o in aggiunta alla specificazione territoriale dell’estensione del vincolo, è comunque ammessa l’indicazione della denominazione di imprese concorrenti.
L’art. 2125 c.c. non specifica se i limiti debbano riguardare il territorio nazionale, ovvero anche quello comunitario ed extracomunitario. A tale riguardo, in giurisprudenza sussistono due orientamenti contrapposti:
- secondo un primo indirizzo, l’estensione del divieto a tutto il territorio nazionale di svolgere attività concorrenziale sacrifica e limita eccessivamente l’ordinaria capacità produttiva del reddito, poiché comporta una limitazione drastica e inaccettabile della libertà della capacità lavorativa e professionale, che sarebbe esercitabile soltanto all’estero;
- un diverso indirizzo invece ammette che l’attività lavorativa del prestatore di lavoro che ha stipulato il patto di non concorrenza possa esser limitata all’intero territorio nazionale, in quanto nell’attuale dimensione globalizzata dell’economia un patto di non concorrenza può avere estensione europea; ciò sempre purché non si causi la compromissione della possibilità del lavoratore di conseguire un guadagno idoneo alla soddisfazione delle esigenze di vita. Tale indirizzo sembra, peraltro, essere prevalente, in ragione del cambiamento del tessuto economico e del potenziale sviluppo dei mercati reso possibile dalle nuove tecniche di comunicazione.
In ogni caso, la valutazione di liceità di un patto di non concorrenza sotto questo profilo deve essere effettuata caso per caso e sulla base di un’analisi complessiva dell’accordo, tenendo in considerazione anche il corrispettivo previsto per il lavoratore. Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto valido il patto di non concorrenza esteso all’intero territorio italiano in considerazione della professionalità del lavoratore capace di dispiegarsi in aziende del terziario operanti in settori diversi da quelli del lavoro temporaneo, e a fronte del pagamento di un compenso mensile equivalente alla media dello stipendio mensile netto percepito dal lavoratore nei due anni precedenti la risoluzione del rapporto di lavoro.
2.6 La durata del patto di non concorrenza
Infine, il patto di non concorrenza non può avere durata superiore a 5 anni per i dirigenti e 3 anni per gli altri lavoratori subordinati. Nel caso in cui venisse pattuita una durata superiore, essa verrà automaticamente ridotta ai limiti massimi previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 1419, comma 2 c.c. La stessa durata massima si applica anche in caso in cui le parti non abbiano stabilito la durata del patto.
Entro questi limiti, la valutazione della durata del patto di non concorrenza è strettamente connessa alla durata del contratto di lavoro: quanto più quest’ultimo dura, tanto più sarà valida la limitazione imposta dal datore di lavoro al termine del contratto.
Se ad esempio un contratto di lavoro è durato solo 1 anno, perché cessato per volontà del datore di lavoro, l’eventuale patto di non concorrenza per i 3 anni successivi alla cessazione del rapporto potrebbe essere ritenuto non valido.
In questo senso, è opportuno prevedere nel patto di non concorrenza una gradualità del vincolo, direttamente collegata alla durata del rapporto di lavoro o alle motivazioni per cui il rapporto viene a cessare.
3. Clausole accessorie al patto di non concorrenza: patto di opzione e diritto di recesso
Dopo la stipula di un patto di non concorrenza, possono sopravvenire circostanze che rendono inutile o non più di comune interesse l’effettiva esecuzione del patto stesso: si pensi al caso in cui l’impresa esca dal settore produttivo con riferimento al quale il patto è stato concepito (ed in relazione al quale il dipendente ha maturato le maggiori competenze), al caso in cui il rapporto cessi per pensionamento del dipendente, oppure al caso nel quale il dipendente decida di cambiare completamente settore.
Se la mancanza di interesse è comune, le parti possono sempre liberamente estinguere o modificare il patto.
Più delicata (e frequente nella prassi) è l’ipotesi in cui una sola parte (normalmente il datore di lavoro) si riserva la possibilità di liberarsi unilateralmente dal patto, in virtù di una sua sopravvenuta mancanza di interesse alla permanenza del vincolo. Tale interesse viene perseguito attraverso la predisposizione di:
- patti d’opzione (attraverso cui l’imprenditore si riserva il diritto di stipulare un patto che non lo vincola sino alla sua adesione);
- clausole di recesso unilaterale (attraverso cui l’imprenditore si riserva il diritto di risolvere un patto di non concorrenza già stipulato).
Con il patto di opzione (art. 1331 c.c.), il lavoratore rimane comunque vincolato agli obblighi di non concorrenza, mentre il datore di lavoro si riserva, generalmente entro un termine prestabilito, la facoltà di accettare o meno il contenuto dell’obbligo assunto dal lavoratore.
Tale patto può dare luogo a criticità sotto il profilo della conformità con l’art. 2125 c.c., che come si è visto o pone stringenti limiti ai patti di non concorrenza, in un’ottica di tutela del diritto al lavoro. Tali criticità si manifestano, in particolare, in caso di dimissioni del lavoratore che abbia accettato la proposta di un concorrente per poi scoprire che il datore intende avvalersi del patto, o in caso di licenziamento comunicato dal datore che non intenda avvalersi del patto di non concorrenza (magari in un contesto nel quale il lavoratore abbia rifiutato altre possibilità lavorative da parte di concorrenti).
In proposito, la giurisprudenza prevalente sembra orientata a ritenere che l’opzione sia legittima solo se sia previsto per il datore di lavoro un termine certo entro il quale poterla esercitare.
Nel patto di non concorrenza può inoltre essere prevista la facoltà di recesso unilaterale esercitabile dal datore di lavoro con liberazione dagli obblighi assunti, ai sensi dell’art. 1373 c.c.
Poiché attraverso tale clausola può aversi un sostanziale aggiramento della tutela della parte debole stabilita dall’art. 2125 c.c., la giurisprudenza prevalente ritiene la stessa legittima solo qualora la facoltà di recesso unilaterale venga esercitata entro un termine certo, e in ogni caso entro la fine del rapporto di lavoro, in modo che il lavoratore possa conoscere preventivamente la portata degli obblighi al medesimo facenti capo.
4. Le conseguenze in caso di violazione del patto di non concorrenza da parte del dipendente
Nel caso in cui, alla cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore violi il patto di non concorrenza, il datore di lavoro potrà, alternativamente:
- risolvere il patto di non concorrenza per inadempimento, chiedere la restituzione del corrispettivo pagato ed il risarcimento dei danni subiti a causa dell’attività svolta dall’ex dipendente in concorrenza (danni che potrebbero essere stati predeterminati da una clausola penale). L’imprenditore opterà per questa scelta, verosimilmente, qualora non abbi più un concreto interesse ad ottenere l’adempimento della prestazione oggetto del patto di non concorrenza;
- oppure chiedere l’adempimento del patto di non concorrenza, ed eventualmente promuovere una procedura d’urgenza ai sensi dell’art. 700C.p.c. al fine di ottenere dal Giudice un provvedimento che imponga al lavoratore la cessazione dell’attività concorrenziale (ad esempio, di cessare immediatamente la collaborazione con il nuovo datore di lavoro), qualora ne ricorrano i presupposti (fumus boni iuris e periculum in mora), Tale iniziativa non pregiudica, comunque, il diritto dell’ex datore di lavoro a ottenere il risarcimento dei danno derivanti dalla violazione del patto di non concorrenza.
Generalmente, la prima alternativa (risoluzione del patto di non concorrenza, con conseguente restituzione del corrispettivo già al lavoratore e risarcimento dei danni) non tutela sufficientemente l’interesse del datore di lavoro, in quanto il lavoratore prestatore recupererebbe piena libertà di svolgere attività concorrenziale, frustrando gli obiettivi perseguiti attraverso la stipulazione del patto. Inoltre, non è infrequente l’ipotesi in cui il nuovo datore di lavoro sia disposto a farsi carico del risarcimento dovuto dal dipendente).
Assai più efficace è invece la richiesta di adempimento del patto mediante un procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. In tal caso, l’eventuale violazione del provvedimento di inibitoria dell’autorità giudiziaria può configurare– sia per il lavoratore che per il datore di lavoro – il reato di cui all’art. 388 c.p. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”).
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in tutela delle aziende dalla concorrenza sleale
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