I versamenti dei soci alla società: finanziamenti o conferimenti?
E’ prassi diffusa tra i soci di società di capitali, soprattutto a ristretta base personale, di effettuare versamenti in danaro, spesso in assenza di particolari formalità e di precisa causale, finalizzati ad apportare mezzi propri alla società idonei a consentirle di svolgere la propria attività di impresa. Tali erogazioni di denaro possono essere effettuate dai soci con l’intento di finanziare la società – nel qual caso sorge l’obbligo di restituzione, con o senza interessi, in capo alla società – oppure con l’intento di rafforzare in modo permanente la struttura patrimoniale e finanziaria della società, senza procedere ad un aumento del capitale sociale. In questo secondo caso, si tratta di conferimenti “atipici”, che incrementano il patrimonio netto della società senza determinare una variazione del capitale sociale nominale; essi danno luogo a crediti esigibili solo al momento dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo di liquidazione. Tali conferimenti si distinguono a loro volta in versamenti a fondo perduto e in conto capitale e versamenti in conto aumento di capitale e in conto futuro aumento di capitale Può essere controverso qualificare dal punto di vista giuridico i versamenti effettuati dai soci, ovvero stabilire quando gli stessi costituiscano un finanziamento, con conseguente diritto dei soci alla restituzione delle somme versate, e quando, invece, un conferimento di vero e proprio capitale di rischio. Secondo la giurisprudenza, la corretta qualificazione dell’erogazione di somme da parte del socio deve essere effettuata attraverso la reale volontà delle parti nel caso concreto, non limitata al solo uso dei termini utilizzati per le annotazioni nelle scritture contabili.
1.Le erogazioni dei soci in favore della società
E’ prassi diffusa tra i soci di società di capitali, soprattutto quelle a ristretta base personale, di effettuare attribuzioni patrimoniali in danaro, spesso in assenza di particolari formalità e di precisa causale, finalizzate ad apportare mezzi propri alla società idonei a consentirle di svolgere la propria attività di impresa.
In linea generale, tali erogazioni di denaro possono trovare il loro fondamento in due intenti:
- un intento di finanziamento – quindi di prestito – di uno o più soci nell’interesse della società alla quale partecipano;
- un intento di rafforzare in maniera permanente, i.e. definitiva, la struttura patrimoniale e finanziaria della società, senza procedere ad un aumento del capitale sociale.
Nel primo caso, gli importi vengono versati dai soci a titolo di mutuo, con obbligo di restituzione degli stessi, con o senza interessi, in capo alla società.
Nel secondo caso si tratta invece di conferimenti “atipici”, che incrementano il patrimonio netto della società senza determinare una variazione del capitale sociale nominale. Essi danno luogo a crediti esigibili solo al momento dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo di liquidazione; il diritto del socio alla loro restituzione è infatti postergato rispetto al diritto dei creditori sociali.
Tali ultimi versamenti – ammessi dal nostro ordinamento ma non disciplinati dal legislatore, se non parzialmente ai fini tributari-si distinguono a loro volta in:
- versamenti a fondo perduto;
- versamenti in conto capitale;
- versamenti in conto aumento di capitale;
- versamenti in conto futuro aumento di capitale.
2.I versamenti dei soci con natura di finanziamento
I soci possono versare importi in favore della società partecipata a titolo di finanziamento. I finanziamenti sono delle somme di denaro che i soci hanno diritto a vedersi restituite, e costituiscono quindi un debito della società.
I finanziamenti dei soci sono un mezzo che consente di incrementare le risorse finanziarie di una società senza ricorrere alle tecniche convenzionali di aumento del capitale. In tal caso, lo scopo del socio è quello di investire il proprio denaro disponibile per accrescere le capacità economiche della società, senza incidere sul capitale sociale.
La nozione di “finanziamento” deve essere intesa in senso estensivo, comprendente tutte le operazioni volte a mettere a disposizione, da parte del socio, in firma diretta o indiretta, somme di denaro: il mutuo, ma è quindi l’unica ipotesi possibile, ben potendo un socio effettuare finanziamenti sotto forma di anticipazione e apertura di credito, dilazioni di pagamento, fideiussioni, apporti non imputabili a capitale, nonché operazioni di sconto, factoring e acquisto pro solvendo di crediti della società verso terzi.
Non è rilevante, ai fini della qualificazione delle erogazioni dei soci come finanziamenti, che esista una pattuizione di interessi, potendo essere tali finanziamenti sia fruttiferi (al tasso che le parti abbiano pattiziamente inteso applicare) che infruttiferi, purché in tal caso l’infruttuosità risulti chiaramente espressa dalla volontà delle parti. In mancanza di diverso accordo scritto, vige per i versamenti (avente natura di finanziamento) una presunzione di interesse al tasso legale, ai sensi dell’art. 1815, comma 1, c.c. che dall’art. 46 t.u.i.r.
Neppure sono decisive, per verificare se i versamenti effettuati costituiscono un finanziamento, sia pure infruttifero – e quindi, se la società è obbligata al rimborso – o invece un conferimento in conto capitale – e quindi la società può acquisire definitivamente l’apporto – le denominazioni utilizzate dai soci al momento del versamento (quali ad esempio: “ soci conto anticipi”, “soci conto finanziamento”, “soci conto finanziamenti infruttiferi”, oppure sul concetto di conferimento: “versamenti in conto capitale”,” versamenti in conto futuro aumento capitale”, etc.). Ciò che rileva al fine di qualificare il versamento dei soci è la finalità sostanziale dell’operazione e le sue modalità, da analizzare e interpretare caso per caso.
I finanziamenti costituiscono per la società debiti e come tali vanno iscritti nel passivo dello stato patrimoniale, mentre per i soci eroganti essi rappresentano crediti di identico ammontare.
I finanziamenti dei soci non necessitano di una delibera assembleare, e possono essere effettuati indipendentemente dalla quota di partecipazione sociale. È preferibile che il finanziamento venga erogato previa stipula di un accordo scritto, ovvero un contratto di mutuo, contenente l’importo della somma da versare e il termine ultimo per il rimborso.
L’accordo di finanziamento tra il socio e la società può anche avvenire in sede di assemblea ordinaria. In tal caso, l’assemblea determina i modi e i tempi di versamento e di restituzione delle somme con delibera vincolante solo per i soci che hanno prestato il loro consenso.
L’art. 11 del D.lgs. n. 385/1993 e la deliberazione CICR del 3 marzo 1994 hanno stabilito delle condizioni in cui il socio si deve trovare per poter finanziare la società senza che tale operazione venga considerata come raccolta del risparmio (la quale è vietata ai soggetti diversi dalle banche, con alcune deroghe). Tali condizioni devono sono:
- l’iscrizione al libro dei soci per un arco temporale non inferiore ai tre mesi;
- l’essere titolare di una quota sociale di almeno il 2% del capitale sociale deliberato con l’ultimo bilancio approvato;
- un’espressa previsione nell’atto costitutivo.
I soci e gli amministratori della società possono sempre accordarsi per rimborsare i finanziamenti effettuati dai soci, totalmente o parzialmente, con eventuale contestuale rinnovo del finanziamento stesso.
Le erogazioni effettuate originariamente a titolo di finanziamento possono pertanto essere successivamente convertite dai soci che le abbiano eseguite in contributi in conto capitale o a fondo perduto, mediante rinunzia a crediti a favore della società percepite o compensazione dei crediti in sede di sottrazione di aumenti di capitale, in modo da provvedere alla copertura delle perdite e scongiurare così l’applicazione degli artt.2446-2447 c.c.
Ciò potrà avvenire, in ogni caso, per volontà dei soci eroganti, risultante in modo chiaro e inequivoco, non potendo la società altrimenti disporne per finalità diverse da quella originariamente impressa loro dai medesimi soggetti eroganti.
3.La postergazione dei finanziamenti dei soci(art. 2467 c.c.)
Il codice civile stabilisce una disciplina specifica per i finanziamenti dei soci nelle S.r.l. L’art. 2467 c.c. prevede infatti che “si intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento“.
La norma disciplina il fenomeno diffuso della c.d. “sottocapitalizzazione nominale” ,ovvero della prassi, largamente utilizzata dai soci di società di capitali soprattutto a ristretta compagine sociale di finanziare l’impresa apportando capitale di rischio senza una formale imputazione a capitale sociale, o addirittura ricorrendo allo schema negoziale del capitale di credito, che permette al socio finanziatore di esigerne la restituzione prima dello scioglimento della società.
Tale fenomeno non è, di per sé, negativo, rientrando nel principio di libertà del finanziamento dell’impresa societaria. L’ampia flessibilità concessa ai soci nella pianificazione delle proprie scelte finanziarie trova tuttavia un limite bella necessità di tutela dei terzi finanziatori, onde evitare che la scelta dei soci si trasformi in abuso nei confronti di costoro. La situazione di sottocapitalizzazione è infatti, pericolosa per i creditori sociali, dato che attraverso i prestiti alla società (sottocapitalizzata) i soci precostituiscono un titolo in sede fallimentare per collocare i propri crediti al medesimo grado di quelli degli altri creditori, sovvertendo così il principio secondo cui nelle società il rischio del socio è postergato a quello dei creditori sociali.
Tale situazione può verificarsi sia in fase di start- up e la società è sottocapitalizzata ( perché i soci hanno preferito finanziarla anziché conferire capitale di rischio) e quindi v’è il pericolo che il rischio di impresa sia trasferito sui terzi creditori, sia successivamente, quando, a fronte di perdite, i soci, anziché conferire capitale come sarebbe “ragionevole”, effettuino finanziamenti, aumentando l’indebitamento e concorrendo, quindi, con i creditori terzi (su cui verrebbe trasferito il rischio di impresa in situazione di “crisi”), proseguendo l’attività sociale in danno di questi ultimi, che, “normalmente” in una tale situazione non sarebbero disponibili ad erogare finanziamenti.
L’art. 2467 c.c. è una norma di portata essenzialmente sanzionatoria, finalizzata a tutelare i creditori sociali nei confronti dei soci che abbiano di fatto abusato della personalità giuridica della società. Essa dispone pertanto che, al ricorrere di determinate condizioni, il rimborso dei finanziamento dei soci alla società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori terzi e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito.
Costituisce ”finanziamento”, ai sensi dell’art. 2467 c.c., qualsiasi operazione volta a trasferire alla società una somma di danaro, ovvero a concedergliene la disponibilità, con obbligo di rimborso. Rientrano quindi nell’ambito applicativo della norma in esame, oltre ai contratti tipicamente creditizi (mutuo, apertura di credito, anticipazione bancaria, sconto, etc.), anche tutte le operazioni che, a prescindere dalla forma tecnica con la quale è stato concesso il credito, hanno comunque funzione di finanziamento, quali il leasing finanziario, il lease back e la vendita con patto di retrocessione a termine, anche se effettuati per interposta persona, attraverso simulazione o ricorso ad un fiduciario.
Secondo l’opinione prevalente, la postergazione legale prevista dalla norma in esame opera non solo in caso di fallimento o di altra procedura concorsuale, ma anche in caso di società operativa o di liquidazione volontaria così che la possibilità di soddisfare gli altri creditori opera come condizione sospensiva del diritto al rimborso, prorogando ex lege la scadenza del finanziamento fino al momento del suo avveramento. Fuori dalle procedure concorsuali, dunque, dove opera come deroga alla regola della par condicio creditorum, la postergazione agisce come una condizione sospensiva dell’esigibilità del credito del socio.
Di conseguenza, la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della situazione di cui all’art. 2467 c.c., ove esistente al momento della richiesta di rimborso, che è compito degli amministratori riscontrare. Inoltre, detto rimborso è revocabile ai sensi dell’art. 2901 c.c., indipendentemente dal fatto che esso sia avvenuto nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento della società.
Tuttavia, diversamente da quanto accade per la restituzione dei conferimenti-che è vietata in assoluto-il rimborso del finanziamento al socio, in una situazione in cui operi il principio della postergazione legale ex art. 2467 c.c. è comunque valido-anche se il relativo credito vantato dal socio era inesigibile- con conseguente estinzione del relativo debito della società. Pertanto, qualora venga effettuato il rimborso dei finanziamenti ai soci i spregio del principio di postergazione legale, , gli amministratori sono responsabili nei confronti dei creditori sociali e della società qualora per effetto di tale rimborso si sia prodotto un danno patrimoniale alla società stessa; danno che non è cagionato automaticamente dal pagamento del credito postergato in sé – poiché esso produce la corrispondente estinzione di una posta passiva dello stato patrimoniale – ma che deve essere dimostrato dal creditore (o dalla società), come nel caso in cui, ad esempio, si sia prodotto in conseguenza della mancanza di fondi un mancato guadagno per la perdita di un affare)..
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, in caso di finanziamento del socio “anomalo”, ovvero in presenza di una situazione di crisi dell’impresa, ai sensi dell’art. 2467 c.c., il credito del socio nei confronti della società è dunque inesigibile fino all’avvenuto soddisfacimento di tutti gli altri creditori. Tuttavia, il socio finanziatore può pretendere dalla società il rimborso anche prima che tutti i creditori beneficiari della postergazione siano stati soddisfatti, se la società ha superato la situazione di difficoltà economico-finanziaria che aveva reso anomalo il finanziamento. Infatti, ai fini dell’operatività della postergazione legale, tale condizione di crisi, presente al momento dell’erogazione del finanziamento deve persistere fino al momento della richiesta di restituzione del finanziamento da parte del socio.
L’onere della prova dell’esistenza e persistenza della causa di inesigibilità del credito da restituire del finanziamento vantati dal sacio grava sulla società debitrice, trattandosi di n fatto impeditivo del diritto del socio finanziatore ad ottenere la restituzione del prestito.
La giurisprudenza prevalente ritiene altresì che l’assoggettamento di finanziamenti soci alla disciplina legale della postergazione non viene automaticamente meno in conseguenza della successiva fuoriuscita del socio finanziatore dalla compagine sociale, dato che la disciplina di cui all’art. 2467 c.c. è posta a salvaguardia delle aspettative del ceto creditorio, e su questa non possono incidere le vicende successive e soggettive del socio mutuante, altrimenti la norma si presterebbe a facili elusioni in danno di creditori e dei terzi.
La giurisprudenza prevalente ritiene altresì che l’assoggettamento di finanziamenti soci alla disciplina legale della postergazione non viene automaticamente meno in conseguenza della successiva fuoriuscita del socio finanziatore dalla compagine sociale, dato che la disciplina di cui all’art. 2467 c.c. è posta a salvaguardia delle aspettative del ceto creditorio, e su questa non possono incidere le vicende successive e soggettive del socio mutuante, altrimenti la norma si presterebbe a facili elusioni in danno di creditori e dei terzi.
La giurisprudenza prevalente ritiene altresì che l’assoggettamento di finanziamenti soci alla disciplina legale della postergazione non viene automaticamente meno in conseguenza della successiva fuoriuscita del socio finanziatore dalla compagine sociale, dato che la disciplina di cui all’art. 2467 c.c. è posta a salvaguardia delle aspettative del ceto creditorio, e su questa non possono incidere le vicende successive e soggettive del socio mutuante, altrimenti la norma si presterebbe a facili elusioni in danno di creditori e dei terzi.
Sempre ad avviso della giurisprudenza, la delibera dell’assemblea dei soci con la quale venga deciso di non restituire i finanziamenti erogati dai soci, qualora non venga approvata all’unanimità (quindi con il consenso di tutti i soci eroganti), è illegittima, in quanto con la erogazione del finanziamento si instaura tra il socio e la società un rapporto di natura contrattuale, che può essere modificato solo con il consenso di entrambe le parti e non con una delibera assembleare non adottata all’unanimità.
La norma in oggetto stante l’estrema varietà e mutevolezza della realtà imprenditoriale che caratterizza il nostro sistema economico, individua due parametri elastici per stabilire, nel novero dei prestiti realizzati dai soci, quelli che possono considerarsi surrogatori del capitale sociale, in quanto, effettuati in favore di una società in una situazione di crisi qualificata, sostanzialmente equiparabile all’insolvenza. La regola della postergazione del rimborso del finanziamento dei soci non opera infatti automaticamente, ma solo quanto i finanziamenti siano stati effettuati in un momento in cui:
- anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulti un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto;oppure
- nella concreta situazione finanziaria della società sarebbe stato più ragionevole un conferimento.
Secondo l’opinione prevalente, non si tratta di due criteri alternativi, in quanto il secondo(situazione finanziaria che presuppone la necessità di un conferimento), costituisce in realtà il criterio fondamentale, del quale il primo è una esemplificazione(forse la più ricorrente). Dunque, i finanziamenti incisi dalla postergazione sono quelli concessi dai soci in ogni situazione che comporti, secondo ragionevolezza, la necessità di un conferimento, quale sarebbe, ad esempio, da ravvisare in ipotesi di eccessivo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto.
La nozione di “eccessivo indebitamento”, è volutamente generica – dal momento che sarebbe controproducente, se non impossibile, individuare dei limiti quantitativi validi per tutti i settori economici, viste le peculiarità che contraddistinguono ogni impresa – e deve essere concretizzata caso per caso, alla luce dell’analisi del settore economico in cui opera l’impresa. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, particolarmente significativo quale indizio di una situazione di disequilibrio finanziario, è il “rapporto di indebitamento”( leverage), il quale si ottiene rapportando il totale dei mezzi di terzi con il capitale netto, ottenendo così indicazioni sull’incidenza del totale dei mezzi di terzi sul capitale netto e, di conseguenza, sul grado di copertura patrimoniale delle passività, e che consente di indicare la sostenibilità del rapporto tra indebitamento e capitale di rischio. In particolare, si ritiene che non ricorra il requisito della eccessiva sproporzione nel rapporto tra indebitamento e patrimonio netto qualora l’indice di liquidità dell’impresa (cioè il raffronto della posizione di liquidità a breve termine dell’azienda con l’ammontare delle passività correnti) sia di poco inferiore, uguale o superiore a 1.
Per quanto riguarda il presupposto della situazione finanziaria sella società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento, deve trattarsi di una situazione di “finanziamento anomalo”, non ragionevole, che un finanziatore esterno, non avrebbe concesso perché sarebbe stato consapevole della difficolta di ottenere la restituzione. Questa situazione (in cui sarebbe più ragionevole effettuare un conferimento, che non obblighi la società ad indebitarsi pesantemente e ad avere difficoltà nella restituzione futura del mutuo) può verificarsi non solo quando deve essere superata una situazione di crisi, ma anche quando si vogliano assecondare i programmi di sviluppo della società e tuttavia il finanziamento sia di entità tale che la prognosi di possibile restituzione del mutuo da parte della società, sottocapitalizzata, sia negativa.
In quest’ottica, sono stati individuati quali indici sintomatici di “anomalia”– cioè tali da garantire alla società condizioni più vantaggiose di quelle reperibili sul mercato-i seguenti:
- la durata particolarmente lunga del finanziamento, o stabilita per tutto il tempo in cui il finanziatore resta socio;
- l’infruttuosità del finanziamento o la previsione di un tasso d’interesse sensibilmente inferiore a quello di mercato;
- l’assenza di garanzie del finanziamento;
- la particolare rilevanza della quota di partecipazione in società del socio finanziatore.
Viceversa, si ritengono indici di “ragionevolezza” di un finanziamento la partecipazione comune di soci e terzi finanziatori ad un progetto di risanamento dell’impresa, l’esistenza di linee di credito non utilizzate, la provenienza dei finanziamenti sia da soci che da terzi e la capacità di costituire garanzie con beni disponibili all’interno del patrimonio della società.
In ogni caso, secondo la giurisprudenza prevalente il presupposto della postergazione è una situazione di crisi che pone la società a rischio di insolvenza. Infatti, è in situazioni di crisi e perdite sociali che sarebbe più ragionevole per i soci conferire capitale (non immediatamente restituibile), invece che operare finanziamenti che hanno l’effetto di aumentare l’indebitamento della società e dunque il suo rischio di insolvenza. Il rimborso dei finanziamenti ai soci non è invece di per sé precluso dalla presenza comunque di crediti della società verso terzi, perché si tratta di una condizione pressoché costante, che renderebbe altrimenti perennemente inesigibile il credito del socio.
In questo senso, si è ritenuto in giurisprudenza che la condizione di inesigibilità del credito può essere eccepita al socio finanziatore solo qualora il finanziamento sia stato erogato, e il rimborso richiesto, in presenza di una situazione di specifica situazione di crisi della società, coincidente con il rischio di insolvenza, idoneo a fondare una sorta di “concorso potenziale” tra tutti i creditori della società”, onde evitare che il rischio di impresa sia trasferito in capo agli altri creditori e che l’attività sociale prosegua a danno di questi ultimi.
In definitiva, dunque, il finanziamento del socio deve essere postergato quando, secondo un giudizio di prognosi postuma, nel momento in cui venne concesso era altamente probabile che la società (perché sottocapitalizzata e il finanziamento era troppo elevato o perché già in situazione di crisi per pregresso squilibrio tra indebitamento e patrimonio), rimborsandolo, non sarebbe stata in grado di soddisfare regolarmente gli altri creditori.
Secondo la tesi prevalente, la disciplina delle S.r.l. relativamente ai finanziamenti si applica anche alle S.p.a., in quanto espressione di un principio generale del diritto societario.
Occorre, tuttavia, evidenziare che l’art. 8 del D.L. 8 Aprile 2020, n. 23 (Decreto Liquidità) ha disposto che i finanziamenti effettuati a favore delle società dalla data di entrata in vigore del Decreto(9 aprile 2020) e sino alla data del 31 dicembre 2020 non si applicano gli artt. 2467 e 2497 quinquies c.c.
Si tratta di una misura emergenziale tesa ad attenuare gli effetti della pandemia COVID-19 sulla situazione economico-finanziaria delle imprese. Come esposto, le disposizioni di cui agli artt. 2467 e 2497 quinquies c.c. rispondono alla ratio di disincentivare la sottocapitalizzazione delle imprese attuata mediante il ricorso ai finanziamenti dei soci; tuttavia, in una situazione emergenziale quale quella risultante a seguito della pandemia da Covid-19, il legislatore ha previsto il congelamento di tali previsioni, ritenendo prevalente l’interesse della imprese a reperire le risorse finanziarie, indipendentemente dalla relativa forma giuridica.
4.Il finanziamento dei soci nelle S.p.A.
Relativamente alle S.p.A., il finanziamento dei soci è regolato, oltre che dall’art. 2467 c.c. – che come si è visto si applica anche a tali società – dall’art. 2497-quinquies c.c., che regolamenta i finanziamenti eseguiti tra società dello stesso gruppo.
La norma prevede che ai finanziamenti effettuati in favore della società da parte di chi esercita attività di direzione e coordinamento o da altri soggetti ad essa sottoposti, si applica l’art. 2467 c.c.
La finalità della norma è quella di limitare la prassi dei gruppi di imprese di distribuire in maniera diseguale il rischio d’impresa tra le società del gruppo che esercitano controllo e coordinamento e quelle che lo subiscono, in situazione di sottocapitalizzazione. La norma, infatti, è diretta a garantire un equilibrio tra due interessi configgenti: l’interesse del creditore a che il socio di controllo non assuma in maniera strumentale la posizione di finanziatore al fine di sottrarsi alla posizione residuale sui valori dell’attivo, e quello del socio a poter adottare le politiche finanziarie della società che reputa più efficienti.
Per tale motivo, il legislatore ha previsto il finanziamento deve essere riqualificato qualora vi siano indizi tali da far ritenere che il ricorso allo stesso sia volto ad eludere la disciplina sui conferimenti, diventando in tal modo uno strumento diretto a perseguire un abuso a danno dei creditori.
La disciplina dell’art. 2467 c.c. si applica quindi ai finanziamenti effettuati, in favore di una società:
- da parte delle società che esercitano su di essa attività di direzione e coordinamento (cioè la capogruppo);
- da parte delle società che sono sottoposte alla direzione e coordinamento da parete dello stesso soggetto che esercita tale attività sulla società finanziata (c.d. società sorelle).
Sono invece esclusi dall’ambito di applicazione della norma i finanziamenti erogati alla società da parte dei soggetti che sono sottoposti alla sua attività di direzione e coordinamento.
La norma prescinde dalla qualità di socio nella società finanziata, richiedendo quale unica condizione, per l’applicabilità della stessa, l’esercizio di attività di direzione e coordinamento da parte del finanziatore. La norma si riferisce quindi non solo al socio della società finanziata, ma anche ai suoi amministratori, titolari di strumenti finanziari e da qualsiasi altro soggetto, sia persona fisica che ente o società, anche privo della qualità di socio, purché eserciti attività di direzione e coordinamento.
Con riferimento, infine, alla qualifica dei beneficiari del finanziamento, l’art. 2497-quinquies c.c., non specificando a quale tipo di società si riferisca l’attività di direzione e coordinamento, si applica anche nel caso in cui il soggetto finanziato sia una società di persone o una società consortile.
5.I versamenti dei soci con natura di conferimenti di patrimonio: a)versamenti a fondo perduto
I versamenti dei soci alla società sono invece qualificabili come conferimenti qualora si tratti di contributi che, comunque denominati (contributi a fondo perduto, a copertura perdite o in conto capitale), e comunque effettuati – tramite versamenti di somme di denaro o rinunzia a crediti – restano acquisite al patrimonio sociale, divenendo mezzi propri della società e appartenendo quindi idealmente alla collettività dei soci, anche se l’erogazione viene effettuata soltanto da alcuni di essi e non da tutti oppure in misura non proporzionale alle rispettive quote di partecipazione .
Come si è accennato, si tratta di conferimenti “atipici”, in quanto non comportano l’acquisto di una quota di partecipazione al capitale sociale – ed anzi presuppongono che colui che esegue il versamento abbia già acquisito la qualità di socio – e quindi incrementano il patrimonio netto della società senza determinare una variazione del capitale sociale nominale. Tali versamenti possono quindi formare oggetto di restituzione ai soci eroganti solo al momento dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo di liquidazione; il diritto del socio alla loro restituzione è infatti postergato rispetto a quello dei creditori sociali.
Il fenomeno è diffuso, in particolare(ma non solo)nelle società sottocapitalizzate, in cui il capitale sociale nominale è inadeguato al perseguimento dell’oggetto sociale. In questi casi, e soprattutto nelle società a ristretta base azionaria, per avere una struttura societaria più snella e per sottrarsi alla disciplina vincolistica del capitale sociale, si preferisce infatti, inizialmente, determinare quest’ultimo in un importo minimo: poiché tuttavia tale importo è insufficiente a realizzare lo svolgimento dell’attività sociale, si rende necessario che i soci effettuino successivamente dei versamenti, che non vengono tuttavia imputati a capitale.
I versamenti a fondo perduto(come i versamenti in conto capitale, di cui ci occuperemo nel paragrafo seguente) sono dunque sono apporti eseguiti dai soci spontaneamente e senza obbligo di rimborso da parte della società, allo scopo di conferire alla società mezzi propri idonei a consentirle di svolgere la propria attività di impresa, senza essere imputati al capitale sociale e, dunque, essendo sottratti alla relativa disciplina. Essi non danno dunque luogo a crediti esigibili, se non per effetto dello scioglimento della società.
I versamenti a fondo perduto vengono acquisiti nel patrimonio sociale e Essi danno luogo a poste di patrimonio netto attribuibili in maniera indifferenziata a tutti i soci, indipendentemente dal fatto che essi siano stati effettuati in via proporzionale dai soci o meno.
Spesso, soprattutto nelle società a ristretta base azionaria, i soci decidono di far fronte alle difficoltà economiche delle stesse versando somme di denaro al fine di eliminare il disavanzo di bilancio, consentendo così alla società di continuare ad operare senza dover effettuare modifiche al capitale sociale.
Le somme erogate, costituendo per la società una vera e propria sopravvenienza attiva, elidono contabilmente la perdita di esercizio o ne impediscono la formazione, consentendo anche, in determinate condizioni, di evitare l’applicazione delle complesse procedure di riduzione del capitale sociale per perdite, ai sensi degli artt. 2446 e 2447 c.c.
Le modalità esecutive di tale operazione variano a seconda del fatto che le perdite siano già state accertate a livello contabile o meno.
La prima ipotesi si verifica solitamente in occasione dell’accertamento di perdite tali da imporre l’adozione, da parte degli organi sociali, degli adempimenti previsti dagli artt. 2446 e 2447 c.c. In questo caso gli amministratori, rilevata l’entità della perdita, convocano l’assemblea, che però non interviene sul capitale nominale perché i soci, tutti o solo alcuni, decidono di versare delle somme di denaro a fondo perduto che la società, a sua volta, stabilisce di utilizzare per ripianare la perdita.
Nella seconda ipotesi, invece, i soci effettuano versamenti a fondo perduto ancora prima che la perdita sia rilevata, così che la loro iscrizione nel conto economico impedisca la rilevazione della perdita. In presenza di perdite particolarmente significative, l’intervento dei soci dovrà essere esaustivamente illustrato sia nella nota integrativa che nella relazione sulla gestione, assicurando la possibilità per i terzi e per il mercato in generale, di valutare correttamente la reddittività e l’andamento della società.
I soci possono, peraltro, effettuare degli apporti a fondo perduto anche nel caso in cui le perdite non si siano ancora verificate, quindi siano solo future ed eventuali, oppure nel caso in cui, più genericamente, lo scopo sia quello di finanziare la società in vista di determinati obiettivi futuri. Tuttavia, mentre nel caso di versamenti a fondo perduto effettuati a copertura di perdite già verificatesi la volontà del socio erogante è implicita nella struttura dell’operazione, quando non vi sono ancora perdite attuali la rinuncia ad ogni diritto sulle somme erogate richiede una precisa e in equivoca manifestazione di volontà in tal senso da parte del socio, dal momento che si tratta di un vero e proprio atto dispositivo. Solo grazie a questo accorgimento, infatti, sarà possibile escludere qualsiasi collegamento tra le somme versate ed i soci eroganti, con tutte le conseguenze che ne derivano.
6.I versamenti dei soci con natura di conferimenti di patrimonio: b)i versamenti in conto capitale
I versamenti in conto capitale consistono-come quelli a fondo perduto-in somme acquisite dal patrimonio netto della società senza alcun obbligo di restituzione, che vengono erogate dai soci spontaneamente e al di fuori di ogni procedura prevista per i conferimenti. Anche i versamenti in conto capitale, pertanto, sono idonei a incrementare patrimonialmente la società, senza modificare il valore nominale del capitale sociale, salvo che, con apposita delibera assembleare di modifica dell’atto costitutivo, non ne venga disposto successivamente l’utilizzo per un aumento del capitale sociale.
Nella prassi, i versamenti in conto capitale – diffusi sia in ragione dei benefici fiscali ad essi collegati, sia, soprattutto, perché costituiscono un efficace e flessibile strumento che i soci possono utilizzare per fare fronte a varie esigenze della società-sono diretti a creare disponibilità finanziarie discrezionalmente destinabili dagli amministratori a scopi attinenti all’oggetto sociale.
Sono, quindi, destinati a costituire frazioni del “capitale di rischio”, ovverosia “mezzi propri” della società beneficiaria. Non essendo imputabili a capitale, i versamenti in conto capitale, una volta eseguiti, vanno a costituire una riserva non di utili ma “di capitale”, soggetta, secondo l’opinione prevalente, alla stessa disciplina della riserva da soprapprezzo, seppure “personalizzata” o “targata”, in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che hanno effettuato i versamenti in relazione all’entità delle somme da ciascuno erogate.
Quando infatti gli apporti spontanei non sono effettuati da tutti i soci, o comunque sono effettuati in modo non proporzionale, si possono alimentare poste di patrimonio netto collegate con il socio che li ha effettuati (cd. “riserve targate”), diversamente dai versamenti a fondo perduto che, come si è visto, sono sempre acquisiti dalla società a beneficio dell’intera compagine sociale, indipendentemente dal fatto che siano stati eseguiti in via proporzionale o meno.
Una volta che le somme in conto capitale siano confluite nel patrimonio comune, i soci eroganti, finché dura la società, non possono chiederne la restituzione; quindi, a differenza dei finanziamenti, i versamenti in conto capitale non generano crediti esigibili dei soci nei confronti della società. I soci possono chiedere la restituzione delle somme versate a tale titolo solo dopo o scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione (quindi dopo la liquidazione di tutte le passività sociali).
Tali apporti possono essere utilizzati per l’aumento gratuito del capitale, con attribuzione delle azioni di nuova emissione a tutti i soci proporzionalmente allo loro partecipazione al capitale, senza tenere in conto quanto da ciascun socio versato: si tratta, infatti non di anticipi sulla sottoscrizione di un aumento di capitale, ma di una vera e propria posta di patrimonio netto, pur alimentata non proporzionalmente.
I versamenti in conto capitale, inoltre, in caso di saturazione della riserva legale, possono essere distribuiti nel corso della vita normale della società e le relative somme sono ripartite tra i soci(non in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al captale da ciascun possedute ma) in misura corrispondente a quanto da ognuno versato, ai sensi e nei limiti dell’art. 2431 c.c., con delibera dell’assemblea ordinaria.
7.I versamenti in conto aumento(e futuro aumento) di capitale
I versamenti in conto aumento di capitale costituiscono dei veri e propri acconti su versamenti che saranno dovuti, in ragione dell’intenzione di sottoscrivere un determinato aumento di capitale. In altri termini, i versamenti in conto aumento di capitale sono anticipi di versamenti funzionali alla sottoscrizione di azioni o quote di nuova emissione (ma ancora non emesse).
Può infatti accadere che, per esigenze pratiche o necessità finanziaria della società, i soci – o i terzi cui la società intende offrire la sottoscrizione di un futuro (o deliberato ma non ancora eseguito) aumento di capitale – effettuino il versamento funzionale alla sottoscrizione dell’aumento del capitale secondo una procedura temporale “inversa”, al fine di dotare immediatamente la società di nuovi mezzi finanziari, senza dover attendere i tempi di perfezionamento dell’operazione sul capitale.
In particolare, si parla invece di versamenti in conto aumento di capitale quando l’apporto è messo a disposizione della società dopo la delibera di aumento del capitale ma prima della sua esecuzione (e dunque nel lasso di tempo intercorrente tra la data della delibera e la data di iscrizione della stessa o la data di apertura delle sottoscrizioni), sempre con la finalità di anticipare la provvista per la sottoscrizione delle nuove emittende partecipazioni.
Se quindi l’aumento del capitale sociale è già stato deliberato, ma non ha ancora iniziato a decorrere il termine per la raccolta delle sottoscrizioni delle azioni o quote di nuova emissione, le somme di denaro versate in anticipo alla società hanno natura di conferimenti e come tali devono essere allocate nel patrimonio netto; lo stesso dicasi per i versamenti eseguiti in occasione di un aumento di capitale “scindibile”, cioè destinato ad essere mantenuto fermo qualunque risulti esserne l’ammontare definitivamente sottoscritto, anche se inferiore al limite massimo fino al quale era stato deliberato.
Si parla invece di versamenti in conto futuro aumento di capitale qualora l’apporto sia messo a disposizione della società prima della delibera di aumento del capitale, con l’intento di anticipare alla società la provvista destinata alla sottoscrizione del relativo ammontare, a liberazione delle future emittende partecipazioni. I versamenti in conto futuro aumento di capitale sono quindi dei conferimenti potenziali, che diventano effettivi solo nel momento in cui vanno ad incardinarsi nel capitale sociale, assumendo l’esclusiva destinazione di scopo sottesa al perseguimento dell’oggetto sociale.
Se, quindi l’aumento di capitale non è ancora stato deliberato – ed è quindi futuro – o è “inscindibile”, le erogazioni fatte alla società non possono imputarsi al patrimonio netto, bensì devono iscriversi fra i debiti della società verso coloro che le abbiano eseguite (creditori) poiché se l’aumento di capitale non venisse più deliberato, quanto meno entro un termine ragionevolmente prossimo, oppure non potesse venire attuato a causa della sua mancata integrale sottoscrizione, questi soggetti avrebbero diritto di richiederne alla società stessa la restituzione . Tali erogazioni possono conseguentemente affluire al patrimonio netto della società percipiente solo una volta che abbiano ricevuto una irreversibile imputazione al capitale sociale.
In entrambi i casi, le erogazioni in questione appartengono ai soggetti che le hanno effettuate fino a quando non divengono veri e propri conferimenti; il che avverrà allorché l’aumento di capitale sia stato deliberato e posto in sottoscrizione dalla società, e in ogni caso quando esso sia andato a buon fine (ad esempio perché, se inscindibile, sia stato sottoscritto per intero), ed i soggetti eroganti avranno dichiarato di sottoscrivere le quote di tale aumento di loro rispettiva pertinenza (o, in caso di esercizio del c.d. diritto di prelazione nell’opzione, anche quote aggiuntive a valere sulla parte dell’aumento di capitale risultata inoptata da altri soci che non se ne fossero resi, in tutto o in parte, sottoscrittori) e di volere a tale scopo destinare le somme o i beni già messi in via preventiva a disposizione della società stessa con tale finalità ovvero crediti certi, liquidi ed esigibili dagli stessi vantati nei confronti di questa.
Poiché le somme apportate costituiscono una anticipazione della sottoscrizione del futuro aumento di capitale, qualora questo non venga deliberato nel termine stabilito, i soci avranno diritto alla restituzione delle somme versate in base alle norme sull’indebito. In questa ipotesi, peraltro, le erogazioni possono poi essere riqualificate dal finanziatore stesso come contributi in conto capitali o a versamento perduto, “transitando” quindi idealmente nel patrimonio netto della società, e divenendo peraltro anche idonee, se del caso, a coprire eventuali perdite. In mancanza di termine finale per il completamento dell’operazione di aumento, invece, si ritiene che il socio abbia diritto alla ripetizione di quanto versato nel termine necessario secondo la natura dell’affare o gli usi, in applicazione bile in via analogica dell’art. 1331 co. 2 c.c. in tema di opzione, oppure dell’art. 1326 co. 2 c.c.
8.La qualificazione dei versamenti dei soci sotto il profilo giuridico
Può essere controverso qualificare dal punto di vista giuridico i versamenti effettuati dai soci, ovvero stabilire quando gli stessi costituiscano un finanziamento, con conseguente diritto dei soci alla restituzione delle somme versate, e quando, invece, un conferimento di capitale di rischio. Ciò anche a causa del frequente utilizzo di denominazioni atecniche ed imprecise da parte dei soci, dell’incerta indicazione dei versamenti nei bilanci, nelle delibere degli organi sociali interessati e in generale, nella relativa documentazione (contratti, o più frequentemente, corrispondenza).
Talvolta l’individuazione della esatta natura del versamento è resa difficile dai soci stessi che, con la «complicità» degli amministratori, qualificano diversamente i versamenti in base all’andamento economico della società; ad esempio, qualificando i versamenti come conferimenti componenti del netto patrimoniale durante il normale esercizio dell’impresa, al fine di creare l’affidamento delle banche sulla congruità dei mezzi propri della società, e successivamente, riconsiderandoli come effettuati a titolo di mutuo, in caso di crisi dell’impresa, per chiederne il rimborso.
L’importanza della distinzione tra apporti eseguiti dai soci a titolo di capitale di rischio o di capitale di credito è stata in parte ridimensionata, per quanto concerne i rapporti con i terzi creditori della società, dalla norma di cui all’art. 2467 c.c. sopra richiamata, la quale prevede la postergazione dei finanziamenti concessi dai soci in un momento di crisi; dal momento che essi non potranno comunque essere pregiudicati perché i soci, indipendentemente dal fatto che abbiano finanziato la società mediante un finanziamento o degli apporti spontanei, non potranno concorrere con loro su un piano di parità in caso di procedura concorsuale. Tale qualificazione mantiene tuttavia la sua rilevanza sia nel caso in cui l’art. 2467 c.c. non sia applicabile, sia relativamente ai rapporti interni fra i soci, dal momento che la postergazione non incide su questo aspetto.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, la corretta qualificazione dell’erogazione di somme da parte del socio deve essere effettuata attraverso un’indagine circa la reale volontà delle parti nel caso concreto, non limitata al solo uso dei termini utilizzati per le annotazioni nelle scritture contabili, in quanto spesso atecnici e quindi non indicativi, bensì estesa anche al modo in cui è stato concretamente effettuato il versamento, le finalità pratiche cui esso è diretto e gli interessi sottesi.
In mancanza di una chiara manifestazione di volontà è significativa l’analisi dell’appostamento delle somme nel bilancio di esercizio, il quale è un documento approvato dai soci ed è idoneo a creare affidamento nei terzi. In tal senso, appare particolarmente significativo l’inserimento della posta derivante dal versamento dei soci tra le voci del patrimonio netto; inoltre, qualora il socio abbia dato il suo voto favorevole all’approvazione dello stesso, tale comportamento rappresenta una manifestazione di volontà, rilevante ex art. 1362 co. 2 c.c., incompatibile con una qualificazione del rapporto in termini di finanziamento.
Sono stati individuati una serie di indici sintomatici della presenza di un versamento in conto capitale quali, ad esempio la sottocapitalizzazione della società, la ristrettezza della compagine sociale, la proporzionalità e la spontaneità delle erogazioni e soprattutto, l’anormalità dell’operazione. Quest’ultima ricorre quando siano presenti condizioni o caratteristiche del versamento tali da renderlo incompatibile con la sussistenza di un rapporto creditizio tra socio e società; fra le quali assumono particolare rilevo la mancanza di un patto di remunerazione delle somme erogate o di un termine per la restituzione, l’inesistenza di garanzie prestate dalla società e le condizioni patrimoniali precarie di quest’ultima.
In ogni caso, la giurisprudenza tende, nei casi dubbi, a qualificare i versamenti dei soci come conferimenti (e non come prestiti) sul presupposto che gli stessi vengono per lo più effettuati quando la società si trova in una condizione di sottocapitalizzazione, al fine di consentire all’impresa di proseguire la propria attività economica. Tale linea interpretativa determina quindi l’inesigibilità delle somme versate dai soci fino alla liquidazione della società, salva una diversa delibera assembleare che incida sulla quantità e qualità del patrimonio netto.
Avv. Valerio Pandolfini
Consulenza legale diritto societario
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