I versamenti dei soci in favore della società: finanziamenti e conferimenti atipici
È prassi diffusa tra i soci di società di capitali, soprattutto a ristretta base personale, di effettuare versamenti in danaro, spesso in assenza di particolari formalità e di precisa causale, finalizzati ad apportare mezzi propri alla società idonei a consentirle di svolgere la propria attività di impresa. Tali erogazioni di denaro possono essere effettuate dai soci con l’intento di finanziare la società,– oppure di rafforzare in modo permanente la struttura patrimoniale e finanziaria della società, senza procedere ad un aumento del capitale sociale. Nel primo caso, sorge l’obbligo di restituzione, con o senza interessi, in capo alla società; nel secondo caso, si tratta di conferimenti “atipici”, che incrementano il patrimonio netto della società senza determinare una variazione del capitale sociale nominale; essi danno luogo a crediti esigibili solo al momento dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo di liquidazione. Può essere complesso qualificare dal punto di vista giuridico i versamenti effettuati dai soci, ovvero stabilire quando gli stessi costituiscano un finanziamento o quando, invece, un conferimento di vero e proprio capitale di rischio. Secondo la giurisprudenza, la corretta qualificazione dell’erogazione di somme da parte del socio deve essere effettuata attraverso un’indagine circa la reale volontà delle parti nel caso concreto, non limitata al solo uso dei termini utilizzati per le annotazioni nelle scritture contabili.
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1. Le erogazioni dei soci in favore della società
È prassi diffusa tra i soci di società di capitali, soprattutto quelle a ristretta base personale, di effettuare attribuzioni patrimoniali in danaro, spesso in assenza di particolari formalità e di precisa causale, finalizzate ad apportare mezzi propri alla società idonei a consentirle di svolgere la propria attività di impresa.
Poiché tali somme di denaro sono erogate in favore della società con modalità diverse rispetto alle tipiche procedure di aumento di capitale sociale, esse sono spesso denominate “versamenti fuori capitale“.
In linea generale, i versamenti fuori capitale – in favore della società possono essere effettuati dai soci con due scopi:
- uno scopo di finanziamento;
- un scopo di rafforzare, in modo permanente, la struttura patrimoniale e finanziaria della società, senza procedere ad un aumento del capitale sociale.
Nel primo caso, gli importi vengono versati dai soci a titolo di mutuo, con obbligo di restituzione degli stessi, con o senza interessi, in capo alla società.
Nel secondo caso si tratta invece di conferimenti “atipici”, che incrementano il patrimonio netto della società senza determinare una variazione del capitale sociale nominale. Essi danno luogo a crediti esigibili solo al momento dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo di liquidazione; il diritto del socio alla loro restituzione è infatti postergato rispetto al diritto dei creditori sociali.
Tali ultimi versamenti – ammessi dal nostro ordinamento ma non disciplinati dal legislatore, se non parzialmente ai fini tributari-si distinguono a loro volta in:
- versamenti a fondo perduto;
- versamenti in conto capitale;
- versamenti in conto aumento di capitale;
- versamenti in conto futuro aumento di capitale.
2. I versamenti dei soci con natura di finanziamento
I soci possono versare importi in favore della società partecipata a titolo di finanziamento. I finanziamenti sono delle somme di denaro che i soci hanno diritto a vedersi restituite, e costituiscono quindi un debito della società.
I finanziamenti dei soci sono un mezzo che consente di incrementare le risorse finanziarie di una società senza ricorrere alle tecniche convenzionali di aumento del capitale. In tal caso, lo scopo del socio è quello di investire il proprio denaro disponibile per accrescere le capacità economiche della società, senza incidere sul capitale sociale.
La nozione di “finanziamento” deve essere intesa in senso estensivo, comprendente tutte le operazioni volte a mettere a disposizione, da parte del socio, in firma diretta o indiretta, somme di denaro: il mutuo, ma è quindi l’unica ipotesi possibile, ben potendo un socio effettuare finanziamenti sotto forma di anticipazione e apertura di credito, dilazioni di pagamento, fideiussioni, apporti non imputabili a capitale, nonché operazioni di sconto, factoring e acquisto pro solvendo di crediti della società verso terzi.
Non è rilevante, ai fini della qualificazione delle erogazioni dei soci come finanziamenti, che esista una pattuizione di interessi, potendo essere tali finanziamenti sia fruttiferi (al tasso che le parti abbiano pattiziamente inteso applicare) che infruttiferi, purché in tal caso l’infruttuosità risulti chiaramente espressa dalla volontà delle parti. In mancanza di diverso accordo scritto, vige per i versamenti (avente natura di finanziamento) una presunzione di interesse al tasso legale, ai sensi dell’art. 1815, comma 1, c.c. che dall’art. 46 t.u.i.r.
Neppure sono decisive, per verificare se i versamenti effettuati costituiscono un finanziamento, sia pure infruttifero – e quindi, se la società è obbligata al rimborso – o invece un conferimento in conto capitale – e quindi la società può acquisire definitivamente l’apporto – le denominazioni utilizzate dai soci al momento del versamento (quali ad esempio: “ soci conto anticipi”, “soci conto finanziamento”, “soci conto finanziamenti infruttiferi”, oppure sul concetto di conferimento: “versamenti in conto capitale”,” versamenti in conto futuro aumento capitale”, etc.). Ciò che rileva al fine di qualificare il versamento dei soci è la finalità sostanziale dell’operazione e le sue modalità, da analizzare e interpretare caso per caso.
I finanziamenti costituiscono per la società debiti e come tali vanno iscritti nel passivo dello stato patrimoniale, mentre per i soci eroganti essi rappresentano crediti di identico ammontare.
I finanziamenti dei soci non necessitano di una delibera assembleare, e possono essere effettuati indipendentemente dalla quota di partecipazione sociale. È preferibile che il finanziamento venga erogato previa stipula di un accordo scritto, ovvero un contratto di mutuo, contenente l’importo della somma da versare e il termine ultimo per il rimborso.
L’accordo di finanziamento tra il socio e la società può anche avvenire in sede di assemblea ordinaria. In tal caso, l’assemblea determina i modi e i tempi di versamento e di restituzione delle somme con delibera vincolante solo per i soci che hanno prestato il loro consenso.
L’art. 11 del D.lgs. n. 385/1993 e la deliberazione CICR del 3 marzo 1994 hanno stabilito delle condizioni in cui il socio si deve trovare per poter finanziare la società senza che tale operazione venga considerata come raccolta del risparmio (la quale è vietata ai soggetti diversi dalle banche, con alcune deroghe). Tali condizioni devono sono:
- l’iscrizione al libro dei soci per un arco temporale non inferiore ai tre mesi;
- l’essere titolare di una quota sociale di almeno il 2% del capitale sociale deliberato con l’ultimo bilancio approvato;
- un’espressa previsione nell’atto costitutivo.
I soci e gli amministratori della società possono sempre accordarsi per rimborsare i finanziamenti effettuati dai soci, totalmente o parzialmente, con eventuale contestuale rinnovo del finanziamento stesso.
Le erogazioni effettuate originariamente a titolo di finanziamento possono pertanto essere successivamente convertite dai soci che le abbiano eseguite in contributi in conto capitale o a fondo perduto, mediante rinunzia a crediti a favore della società percepite o compensazione dei crediti in sede di sottrazione di aumenti di capitale, in modo da provvedere alla copertura delle perdite e scongiurare così l’applicazione degli artt.2446-2447 c.c.
Ciò potrà avvenire, in ogni caso, per volontà dei soci eroganti, risultante in modo chiaro e inequivoco, non potendo la società altrimenti disporne per finalità diverse da quella originariamente impressa loro dai medesimi soggetti eroganti.
Occorre evidenziare che qualora i finanziamenti siano erogati dai soci in una condizione di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto, oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole attendersi un conferimento, il loro rimborso è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori terzi.
3. I finanziamenti dei soci nelle S.p.A. tra società dello stesso gruppo
Il finanziamento dei soci nelle S.p.A. è regolato dall’art. 2497 quinquies c.c., che regolamenta i finanziamenti eseguiti tra società dello stesso gruppo.
La norma prevede che ai finanziamenti effettuati in favore della società da parte di chi esercita attività di direzione e coordinamento o da altri soggetti ad essa sottoposti, si applica l’art. 2467 c.c.
La finalità della norma è quella di limitare la prassi dei gruppi di imprese di distribuire in maniera diseguale il rischio d’impresa tra le società del gruppo che esercitano controllo e coordinamento e quelle che lo subiscono, in situazione di sottocapitalizzazione. La norma, infatti, è diretta a garantire un equilibrio tra due interessi configgenti: l’interesse del creditore a che il socio di controllo non assuma in maniera strumentale la posizione di finanziatore al fine di sottrarsi alla posizione residuale sui valori dell’attivo, e quello del socio a poter adottare le politiche finanziarie della società che reputa più efficienti.
Per tale motivo, il legislatore ha previsto il finanziamento deve essere riqualificato qualora vi siano indizi tali da far ritenere che il ricorso allo stesso sia volto ad eludere la disciplina sui conferimenti, diventando in tal modo uno strumento diretto a perseguire un abuso a danno dei creditori.
La disciplina dell’art. 2467 c.c. si applica quindi ai finanziamenti effettuati, in favore di una società:
- da parte delle società che esercitano su di essa attività di direzione e coordinamento (cioè la capogruppo);
- da parte delle società che sono sottoposte alla direzione e coordinamento da parete dello stesso soggetto che esercita tale attività sulla società finanziata (c.d. società sorelle).
Sono invece esclusi dall’ambito di applicazione della norma i finanziamenti erogati alla società da parte dei soggetti che sono sottoposti alla sua attività di direzione e coordinamento.
La norma prescinde dalla qualità di socio nella società finanziata, richiedendo quale unica condizione, per l’applicabilità della stessa, l’esercizio di attività di direzione e coordinamento da parte del finanziatore. La norma si riferisce quindi non solo al socio della società finanziata, ma anche ai suoi amministratori, titolari di strumenti finanziari e da qualsiasi altro soggetto, sia persona fisica che ente o società, anche privo della qualità di socio, purché eserciti attività di direzione e coordinamento.
Con riferimento, infine, alla qualifica dei beneficiari del finanziamento, l’art. 2497-quinquies c.c., non specificando a quale tipo di società si riferisca l’attività di direzione e coordinamento, si applica anche nel caso in cui il soggetto finanziato sia una società di persone o una società consortile.
4. I patti parasociali di finanziamento
I soci possono accordarsi tra di loro per dotare la società di nuovi mezzi finanziari, attraverso i patti parasociali di finanziamento. La necessità di programmare gli apporti può manifestarsi:
- in fase di avvio dell’attività sociale; in tal caso i soci intendono dotare la società dei mezzi necessari per affrontare gli investimenti iniziali, in particolare quando non si intenda fare ricorso al finanziamento bancario in quanto eccessivamente oneroso o difficilmente ottenibile:
- in un periodo di crisi aziendale; In tal caso i soci, al fine di gestire o superare una fase di crisi dell’impresa e di evitare che sfoci nella liquidazione della società o nell’apertura di una procedura concorsuale, si impegnano ad effettuare nuovi apporti, a prestare garanzie e/o a cedere a terzi le proprie partecipazioni (anche trasferendo ad un altro soggetto il controllo della società).
In tal caso, l’accordo tra i soci paciscenti disciplina:
- l’ammontare del finanziamento (e gli importi che si obbliga a versare ognuno dei soci);
- la scadenza del finanziamento;
- le modalità per il rimborso del prestito;
- il carattere fruttifero o infruttifero del finanziamento.
Il patto può prevedere specifiche clausole circa gli effetti della cessione della partecipazione da parte di uno dei soci paciscenti. Nel caso di apporti a titolo di finanziamento, la cessione della partecipazione sociale da parte del socio finanziatore non determina effetti sul finanziamento, in mancanza di un’espressa pattuizione con la quale quest’ultimo ceda anche il correlativo credito vantato nei confronti della società. Può, in altri termini, accadere che un socio ceda ad un terzo la propria quota di partecipazione mantenendo la qualità di creditore nei confronti della società per il rimborso dei finanziamenti in precedenza effettuati.
Nell’ottica delle finalità perseguite con i patti parasociali di finanziamento, i paciscenti possono avere interesse a concordare un reciproco obbligo a cedere, unitamente alla partecipazione, anche il credito relativo al finanziamento, nel presupposto che l’interesse allo stabile accesso ai mezzi finanziari da parte della società sia strettamente collegato alla qualità di socio. Il socio uscente, infatti, è normalmente disinteressato all’attività sociale e preferisce ottenere il prima possibile il rimborso del finanziamento.
D’altra parte, non potendosi escludere che, in ragione dell’intuitu personae, gli altri paciscenti preferiscano rapportarsi con l’ex socio, è possibile prevedere un autonomo patto di consultazione a maggioranza, avente ad oggetto la decisione circa la cessione del predetto credito, alla quale deve conformarsi il paciscente cedente.
Gli apporti da parte dei soci paciscenti possono anche essere non proporzionali alle quote di partecipazione al capitale. Ciò non determina alcuna conseguenza nell’equilibrio dei rapporti tra gli soci, in quanto l’entità dei versamenti effettuati (e dei relativi diritti di rimborso) risulta dalla corretta imputazione contabile, nella quale assume autonoma evidenza il debito della società nei confronti di ciascun socio.
Trattandosi di patti parasociali, dai patti di finanziamento nascono obbligazioni soltanto a carico dei contraenti (soci); in questo caso, tuttavia, la società non costituisce un mero termine di riferimento al fine di individuare l’ambito delle pattuizioni (come accade per tutte le altre tipologie di patti parasociali), ma è anche destinataria degli effetti (favorevoli) dell’accordo, consistenti nel diritto ad acquisire, a vario titolo, apporti che i soci si sono impegnati ad effettuare. La società, infatti, assume la qualifica di terzo beneficiario, secondo lo schema del contratto a favore del terzo (artt. 1411 e ss. c.c.).
L’applicazione dello schema del contratto a favore di terzo ai patti parasociali di finanziamento è caratterizzato da una particolarità, consistente nella coincidenza soggettiva della parte stipulante con la parte promittente: i soci paciscenti, infatti, rivestono entrambe le qualità, poiché, quale parte stipulante, hanno interesse a stipulare il patto per garantire il perseguimento dell’oggetto sociale e, quale parte promittente, reciprocamente si obbligano ad effettuare l’apporto di finanza (prestazione) nei confronti del terzo (la società).
L’accordo non può produrre obblighi, ma solo effetti positivi (reperimento di nuovi mezzi finanziari) nei confronti della società, la quale conserva il diritto di rifiutare l’apporto oppure di consolidarlo definitivamente, con la dichiarazione di volerne profittare, la quale preclude ai soci di revocarlo. La dichiarazione della società di voler profittare della stipulazione a proprio favore contenuta in un patto parasociale – che può avvenire sia tramite una delibera apposita dell’organo amministrativo che in sede di approvazione, da parte dell’assemblea, del bilancio dal quale risultano i versamenti dei soci – conferisce quindi all’accordo una stabilità non ottenibile con altri tipi di patti parasociali, in quanto i soci paciscenti non possono più sottarsi agli obblighi assunti, non potendo neppure risolvere il patto consensualmente.
Dalla configurazione del patto parasociale in oggetto come contratto a favore del terzo consegue che il diritto di pretendere l’adempimento della prestazione nei confronti del paciscente inadempiente e di proporre le altre azioni discendenti dall’accordo spetta non soltanto agli altri paciscenti (quali stipulanti), ma anche alla società in qualità di terzo aderente al patto. La società, in qualità di terzo ai sensi dell’art. 1411 c.c., può dunque pretendere l’adempimento degli apporti previsti da un patto parasociale stipulato dai soci. Lo stesso risultato (impegno dei soci ad effettuare gli apporti diversi dal capitale) non può invece essere conseguito dalla società con una delibera assembleare che ponga a carico dei soci l’obbligo di eseguire apporti a vario titolo a favore della stessa, non essendo legittimo pretendere dai soci prestazioni ulteriori rispetto ai conferimenti.
La società, peraltro, anche qualora aderisca alla stipulazione a suo favore, può, a fronte dell’inadempimento del patto, scegliere, nell’ambito di una valutazione degli interessi sociali, di rinunciare ad agire per chiedere l’adempimento del patto. Come pure può rifiutare il patto stesso, nel qual caso esso si risolve ai sensi dell’art. 1256 c.c. per impossibilità sopravvenuta di esecuzione delle prestazioni.
5. I versamenti dei soci con natura di conferimenti di patrimonio
5.1 I versamenti a fondo perduto
I versamenti dei soci alla società sono invece qualificabili come conferimenti qualora si tratti di contributi che, comunque denominati (contributi a fondo perduto, a copertura perdite o in conto capitale), e comunque effettuati – tramite versamenti di somme di denaro o rinunzia a crediti – restano acquisite al patrimonio sociale, divenendo mezzi propri della società e appartenendo quindi idealmente alla collettività dei soci, anche se l’erogazione viene effettuata soltanto da alcuni di essi e non da tutti oppure in misura non proporzionale alle rispettive quote di partecipazione .
Come si è accennato, si tratta di conferimenti “atipici”, in quanto non comportano l’acquisto di una quota di partecipazione al capitale sociale – ed anzi presuppongono che colui che esegue il versamento abbia già acquisito la qualità di socio – e quindi incrementano il patrimonio netto della società senza determinare una variazione del capitale sociale nominale. Tali versamenti possono quindi formare oggetto di restituzione ai soci eroganti solo al momento dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo di liquidazione; il diritto del socio alla loro restituzione è infatti postergato rispetto a quello dei creditori sociali.
Il fenomeno è diffuso, in particolare (ma non solo) nelle società sottocapitalizzate, in cui il capitale sociale nominale è inadeguato al perseguimento dell’oggetto sociale. In questi casi, e soprattutto nelle società a ristretta base azionaria, per avere una struttura societaria più snella e per sottrarsi alla disciplina vincolistica del capitale sociale, si preferisce infatti, inizialmente, determinare quest’ultimo in un importo minimo: poiché tuttavia tale importo è insufficiente a realizzare lo svolgimento dell’attività sociale, si rende necessario che i soci effettuino successivamente dei versamenti, che non vengono tuttavia imputati a capitale.
I versamenti a fondo perduto (come i versamenti in conto capitale, di cui ci occuperemo nel paragrafo seguente) sono dunque apporti eseguiti dai soci spontaneamente e senza obbligo di rimborso da parte della società, allo scopo di conferire alla società mezzi propri idonei a consentirle di svolgere la propria attività di impresa, senza essere imputati al capitale sociale e, dunque, essendo sottratti alla relativa disciplina. Essi non danno dunque luogo a crediti esigibili, se non per effetto dello scioglimento della società.
I versamenti a fondo perduto vengono acquisiti nel patrimonio sociale ed essi danno luogo a poste di patrimonio netto attribuibili in maniera indifferenziata a tutti i soci, indipendentemente dal fatto che essi siano stati effettuati in via proporzionale dai soci o meno.
Spesso, soprattutto nelle società a ristretta base azionaria, i soci decidono di far fronte alle difficoltà economiche delle stesse versando somme di denaro al fine di eliminare il disavanzo di bilancio, consentendo così alla società di continuare ad operare senza dover effettuare modifiche al capitale sociale.
Le somme erogate, costituendo per la società una vera e propria sopravvenienza attiva, elidono contabilmente la perdita di esercizio o ne impediscono la formazione, consentendo anche, in determinate condizioni, di evitare l’applicazione delle complesse procedure di riduzione del capitale sociale per perdite, ai sensi degli artt. 2446 e 2447 c.c.
Le modalità esecutive di tale operazione variano a seconda del fatto che le perdite siano già state accertate a livello contabile o meno.
La prima ipotesi si verifica solitamente in occasione dell’accertamento di perdite tali da imporre l’adozione, da parte degli organi sociali, degli adempimenti previsti dagli artt. 2446 e 2447 c.c. In questo caso gli amministratori, rilevata l’entità della perdita, convocano l’assemblea, che però non interviene sul capitale nominale perché i soci, tutti o solo alcuni, decidono di versare delle somme di denaro a fondo perduto che la società, a sua volta, stabilisce di utilizzare per ripianare la perdita.
Nella seconda ipotesi, invece, i soci effettuano versamenti a fondo perduto ancora prima che la perdita sia rilevata, così che la loro iscrizione nel conto economico impedisca la rilevazione della perdita. In presenza di perdite particolarmente significative, l’intervento dei soci dovrà essere esaustivamente illustrato sia nella nota integrativa che nella relazione sulla gestione, assicurando la possibilità per i terzi e per il mercato in generale, di valutare correttamente la reddittività e l’andamento della società.
I soci possono, peraltro, effettuare degli apporti a fondo perduto anche nel caso in cui le perdite non si siano ancora verificate, quindi siano solo future ed eventuali, oppure nel caso in cui, più genericamente, lo scopo sia quello di finanziare la società in vista di determinati obiettivi futuri. Tuttavia, mentre nel caso di versamenti a fondo perduto effettuati a copertura di perdite già verificatesi la volontà del socio erogante è implicita nella struttura dell’operazione, quando non vi sono ancora perdite attuali la rinuncia ad ogni diritto sulle somme erogate richiede una precisa e in equivoca manifestazione di volontà in tal senso da parte del socio, dal momento che si tratta di un vero e proprio atto dispositivo. Solo grazie a questo accorgimento, infatti, sarà possibile escludere qualsiasi collegamento tra le somme versate ed i soci eroganti, con tutte le conseguenze che ne derivano.
In sintesi, le principali caratteristiche dei versamenti a fondo perduto sono le seguenti:
- sono finalizzati a coprire una perdita d’esercizio già verificatasi, e dunque per ridurre il capitale;
- aumentano il patrimonio e diventano completamente disponibili dalla società;
- costituiscono una riserva iscritta in bilancio;
- non sono rimborsabili;
- n0n richiedono la forma dell’atto pubblico;
- non possono essere utilizzate per aumentare il capitale a pagamento, in quanto destinate ad altro scopo;
- possono essere utilizzate per coprire le perdite;
- sono considerati come sopravvenienza attive in bilancio.
5.2 I versamenti in conto capitale
I versamenti in conto capitale consistono-come quelli a fondo perduto-in somme acquisite dal patrimonio netto della società senza alcun obbligo di restituzione, che vengono erogate dai soci spontaneamente e al di fuori di ogni procedura prevista per i conferimenti. Anche i versamenti in conto capitale, pertanto, sono idonei a incrementare patrimonialmente la società, senza modificare il valore nominale del capitale sociale, salvo che, con apposita delibera assembleare di modifica dell’atto costitutivo, non ne venga disposto successivamente l’utilizzo per un aumento del capitale sociale.
In tal caso, la restituzione di quanto apportato dai soci potrà avvenire soltanto allo scioglimento della società, in fase di liquidazione della quota del socio apportante, e nella misura in cui residui dopo la soddisfazione dei creditori.
Nella prassi, i versamenti in conto capitale – diffusi sia in ragione dei benefici fiscali ad essi collegati, sia, soprattutto, perché costituiscono un efficace e flessibile strumento che i soci possono utilizzare per fare fronte a varie esigenze della società-sono diretti a creare disponibilità finanziarie discrezionalmente destinabili dagli amministratori a scopi attinenti all’oggetto sociale.
Sono, quindi, destinati a costituire frazioni del “capitale di rischio”, ovverosia “mezzi propri” della società beneficiaria. Non essendo imputabili a capitale, i versamenti in conto capitale, una volta eseguiti, vanno a costituire una riserva non di utili ma “di capitale”, soggetta, secondo l’opinione prevalente, alla stessa disciplina della riserva da soprapprezzo, seppure “personalizzata” o “targata”, in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che hanno effettuato i versamenti in relazione all’entità delle somme da ciascuno erogate.
Quando infatti gli apporti spontanei non sono effettuati da tutti i soci, o comunque sono effettuati in modo non proporzionale, si possono alimentare poste di patrimonio netto collegate con il socio che li ha effettuati (cd. “riserve targate“), diversamente dai versamenti a fondo perduto che, come si è visto, sono sempre acquisiti dalla società a beneficio dell’intera compagine sociale, indipendentemente dal fatto che siano stati eseguiti in via proporzionale o meno.
Una volta che le somme in conto capitale siano confluite nel patrimonio comune, i soci eroganti, finché dura la società, non possono chiederne la restituzione; quindi, a differenza dei finanziamenti, i versamenti in conto capitale non generano crediti esigibili dei soci nei confronti della società. I soci possono chiedere la restituzione delle somme versate a tale titolo solo dopo o scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione (quindi dopo la liquidazione di tutte le passività sociali).
Tali apporti possono essere utilizzati per l’aumento gratuito del capitale, con attribuzione delle azioni di nuova emissione a tutti i soci proporzionalmente allo loro partecipazione al capitale, senza tenere in conto quanto da ciascun socio versato: si tratta, infatti non di anticipi sulla sottoscrizione di un aumento di capitale, ma di una vera e propria posta di patrimonio netto, pur alimentata non proporzionalmente.
I versamenti in conto capitale, inoltre, in caso di saturazione della riserva legale, possono essere distribuiti nel corso della vita normale della società e le relative somme sono ripartite tra i soci(non in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al captale da ciascun possedute ma) in misura corrispondente a quanto da ognuno versato, ai sensi e nei limiti dell’art. 2431 c.c., con delibera dell’assemblea ordinaria.
In sintesi, le principali caratteristiche dei versamenti in conto capitale sono le seguenti:
- non hanno una specifica finalità;
- i soci non hanno alcun diritto di rimborso durante la vita della società, ma solo al momento della liquidazione, a meno che la stessa non deliberi la restituzione dei versamenti in forma di distribuzione delle riserve disponibili;
- le somme versate sono immediatamente acquisite al patrimonio sociale e rese disponibili per la società;
- non devono essere effettuati da tutti i soci, ma possono essere effettuati anche da uno solo;
- non devono essere necessariamente proporzionali alle quote di partecipazione al capitale;
- non richiedono la forma dell’atto pubblico;
- non possono essere utilizzati per aumentare il capitale a pagamento;
- possono essere adoperati sia per effettuare un aumento gratuito del capitale, sia per coprire eventuali perdite future.
Secondo l’opinione prevalente, la cessione della partecipazione sociale comprende anche i diritti legati alla restituzione dei versamenti in conto capitale, in ragione della loro natura di capitale di rischio, non potendo essere oggetto di un autonomo diritto di credito e, quindi, di disposizione separata. Poiché, tuttavia, il beneficio dell’avvenuto versamento in conto capitale si riverbera indirettamente sul socio cessionario, tale profilo può influenzare la fissazione della misura del corrispettivo della cessione.
5.3 I versamenti in conto aumento(e futuro aumento) di capitale
I versamenti in conto aumento di capitale costituiscono dei veri e propri acconti su versamenti che saranno dovuti, in ragione dell’intenzione di sottoscrivere un determinato aumento di capitale. In altri termini, i versamenti in conto aumento di capitale sono anticipi di versamenti funzionali alla sottoscrizione di azioni o quote di nuova emissione (ma ancora non emesse).
Può infatti accadere che, per esigenze pratiche o necessità finanziaria della società, i soci – o i terzi cui la società intende offrire la sottoscrizione di un futuro (o deliberato ma non ancora eseguito) aumento di capitale – effettuino il versamento funzionale alla sottoscrizione dell’aumento del capitale secondo una procedura temporale “inversa”, al fine di dotare immediatamente la società di nuovi mezzi finanziari, senza dover attendere i tempi di perfezionamento dell’operazione sul capitale.
In particolare, si parla di versamenti in conto aumento di capitale quando l’apporto è messo a disposizione della società dopo la delibera di aumento del capitale ma prima della sua esecuzione (e dunque nel lasso di tempo intercorrente tra la data della delibera e la data di iscrizione della stessa o la data di apertura delle sottoscrizioni), sempre con la finalità di anticipare la provvista per la sottoscrizione delle nuove emittende partecipazioni.
Se quindi l’aumento del capitale sociale è già stato deliberato, ma non ha ancora iniziato a decorrere il termine per la raccolta delle sottoscrizioni delle azioni o quote di nuova emissione, le somme di denaro versate in anticipo alla società hanno natura di conferimenti e come tali devono essere allocate nel patrimonio netto; lo stesso dicasi per i versamenti eseguiti in occasione di un aumento di capitale “scindibile”, cioè destinato ad essere mantenuto fermo qualunque risulti esserne l’ammontare definitivamente sottoscritto, anche se inferiore al limite massimo fino al quale era stato deliberato.
Si parla invece di versamenti in conto futuro aumento di capitale qualora l’apporto sia messo a disposizione della società prima della delibera di aumento del capitale, con l’intento di anticipare alla società la provvista destinata alla sottoscrizione del relativo ammontare, a liberazione delle future emittende partecipazioni. I versamenti in conto futuro aumento di capitale sono quindi dei conferimenti potenziali, che diventano effettivi solo nel momento in cui vanno ad incardinarsi nel capitale sociale, assumendo l’esclusiva destinazione di scopo sottesa al perseguimento dell’oggetto sociale.
Se, quindi l’aumento di capitale non è ancora stato deliberato – ed è quindi futuro – o è “inscindibile”, le erogazioni fatte alla società non possono imputarsi al patrimonio netto, bensì devono iscriversi fra i debiti della società verso coloro che le abbiano eseguite (creditori) poiché se l’aumento di capitale non venisse più deliberato, quanto meno entro un termine ragionevolmente prossimo, oppure non potesse venire attuato a causa della sua mancata integrale sottoscrizione, questi soggetti avrebbero diritto di richiederne alla società stessa la restituzione . Tali erogazioni possono conseguentemente affluire al patrimonio netto della società percipiente solo una volta che abbiano ricevuto una irreversibile imputazione al capitale sociale.
I versamenti in conto futuro aumento di capitale vengono iscritti nel passivo dello stato patrimoniale come “altre riserve distintamente indicate”; essi sono (a differenza dei precedenti) vincolati, potendo essere utilizzati esclusivamente per la liberazione della parte di aumento di capitale a pagamento, riservata ai soci che li hanno eseguiti, cui sono subordinati; essi; in tale ipotesi, in tanto è configurabile un diritto dei soci alla restituzione del denaro così dato (prima e al di fuori del procedimento di liquidazione della società), in quanto il programmato aumento del capitale non venga deliberato entro il termine fissato e, dunque, sia venuta meno la causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali dei soci eseguite in favore della società.
In entrambi i casi, le erogazioni in questione appartengono ai soggetti che le hanno effettuate fino a quando non divengono veri e propri conferimenti; il che avverrà allorché l’aumento di capitale sia stato deliberato e posto in sottoscrizione dalla società, e in ogni caso quando esso sia andato a buon fine (ad esempio perché, se inscindibile, sia stato sottoscritto per intero), ed i soggetti eroganti avranno dichiarato di sottoscrivere le quote di tale aumento di loro rispettiva pertinenza (o, in caso di esercizio del c.d. diritto di prelazione nell’opzione, anche quote aggiuntive a valere sulla parte dell’aumento di capitale risultata inoptata da altri soci che non se ne fossero resi, in tutto o in parte, sottoscrittori) e di volere a tale scopo destinare le somme o i beni già messi in via preventiva a disposizione della società stessa con tale finalità ovvero crediti certi, liquidi ed esigibili dagli stessi vantati nei confronti di questa.
Poiché le somme apportate costituiscono una anticipazione della sottoscrizione del futuro aumento di capitale, qualora questo non venga deliberato nel termine stabilito, i soci avranno diritto alla restituzione delle somme versate in base alle norme sull’indebito. In questa ipotesi, peraltro, le erogazioni possono poi essere riqualificate dal finanziatore stesso come contributi in conto capitali o a versamento perduto, “transitando” quindi idealmente nel patrimonio netto della società, e divenendo peraltro anche idonee, se del caso, a coprire eventuali perdite. In mancanza di termine finale per il completamento dell’operazione di aumento, invece, si ritiene che il socio abbia diritto alla ripetizione di quanto versato nel termine necessario secondo la natura dell’affare o gli usi, in applicazione bile in via analogica dell’art. 1331 co. 2 c.c. in tema di opzione, oppure dell’art. 1326 co. 2 c.c.
Qualora l’apporto dei soci non sia proporzionale al valore della partecipazione, poiché l’appostamento in una riserva indistinta (come accade per i versamenti in conto capitale) potrebbe pregiudicare i diritti del socio che abbia effettuato un versamento più che proporzionale rispetto alla sua quota di partecipazione. Tale inconveniente viene superato, sul piano operativo, mediante l’appostamento di riserve c.d. targate, le quali consentono di individuare l’importo di pertinenza di ciascun socio sia in occasione del programmato aumento sia, in mancanza di quest’ultimo, nell’ipotesi di rimborso di quanto versato.
Secondo l’opinione prevalente, la cessione della partecipazione non comporta necessariamente cessione del diritto alla restituzione dei versamenti in conto futuro aumento del capitale, che sorgerà qualora non si realizzi la deliberazione dell’aumento programmato. Più precisamente, come è stato evidenziato dalla giurisprudenza, non si tratta di un diritto al rimborso, ma di un’obbligazione restitutoria a carico della società determinata dal venir meno della causa giustificativa del versamento eseguito dal socio e, quindi, in ossequio ai principi della ripetizione dell’indebito.
In tal caso, può accadere che il socio uscente mantenga tale diritto di credito nei confronti della società che, peraltro, diverrà esigibile solo nel predetto momento (dovendosi a quel punto trattare, però, di un aumento di capitale riservato, in tutto o in parte, a terzi).
I soci (o anche terzi non soci) possono accordarsi, tramite un patto parasociale, per apportare nuova finanza alla società, incrementandone il capitale sociale a titolo oneroso, obbligandosi a sottoscrivere un aumento di capitale deliberato o deliberando. In tal caso, i paciscenti, quando la delibera non sia stata ancora adottata, avuto riguardo alle necessità finanziarie della società, possono prestabilire l’ammontare complessivo dell’aumento, il suo carattere scindibile od inscindibile, il termine per la sottoscrizione e le modalità di esecuzione dei conferimenti. Qualora l’apporto avvenga, in tutto od in parte, ad opera di un terzo, i soci paciscenti si impegnano reciprocamente a rinunciare, in tutto od in parte, al proprio diritto di opzione (o, per le S.r.l. al diritto di sottoscrizione).
Quando la delibera di aumento del capitale non è stata ancora adottata, l’accordo può comprendere anche un sindacato di voto, con il quale i soci paciscenti si impegnano a votare la stessa in senso favorevole.
Come è noto, l’aumento di capitale a pagamento è ricostruito come fattispecie a formazione progressiva: con l’adozione della delibera di aumento, infatti, la società sottopone una proposta di sottoscrizione ai soci, i quali, entro il termine stabilito, possono accettarla mediante la sottoscrizione della quota di propria pertinenza (nei casi in cui la sottoscrizione non è contestuale alla delibera). Al momento della sottoscrizione i soci assumono l’obbligo di effettuare un conferimento a favore della società e, in caso di conferimenti in denaro, sono tenuti a versare contestualmente alla società almeno il 25% del valore nominale delle azioni sottoscritte (cfr. art. 2439 comma 1 c.c.). È, quindi, nel momento della sottoscrizione che si perfeziona l’accordo tra il singolo socio e la società e che nasce il diritto di quest’ultima a pretendere dal primo l’esecuzione del conferimento.
Quando il patto parasociale è anteriore all’adozione delibera di aumento del capitale, dallo stesso non sorge un diritto soggettivo a favore della società, poiché non vi è ancora una proposta di sottoscrizione. D’altra parte, anche quando il patto è successivo alla delibera di aumento (che abbia fissato un determinato termine per la sottoscrizione), per effetto dello stesso non nasce un diritto soggettivo a favore della società, il quale non è configurabile fino alla sottoscrizione con la quale i soci, esercitando il proprio diritto di opzione (o diritto di sottoscrizione, nel caso delle S.r.l.), contraggono anche un obbligo ad eseguire il conferimento.
Il patto parasociale può altresì prevedere non soltanto un obbligo sottoscrivere l’aumento di capitale, ma specificare (come accade in caso di necessità finanziaria della società) che ciascun paciscente sia tenuto ad effettuare contestualmente l’integrale conferimento (in denaro), in misura, quindi, superiore rispetto al minimo stabilito dalla legge. In tal caso, la pattuizione determina la nascita di un diritto soggettivo a favore della società, in quanto (al fine di perseguire la finalità di dotare al più presto la società dei mezzi finanziari necessari), ha come effetto l’ampliamento dell’oggetto dell’obbligo del socio nascente in seguito alla sottoscrizione dell’aumento, per il quale la società è già titolare di un diritto a richiedere l’adempimento secondo le modalità di legge.
6. La qualificazione giuridica dei versamenti dei soci in favore della società
Può essere controverso qualificare dal punto di vista giuridico i versamenti effettuati dai soci, ovvero stabilire quando gli stessi costituiscano un finanziamento, con conseguente diritto dei soci alla restituzione delle somme versate, e quando, invece, un conferimento di capitale di rischio. Ciò anche a causa del frequente utilizzo di denominazioni atecniche ed imprecise da parte dei soci, dell’incerta indicazione dei versamenti nei bilanci, nelle delibere degli organi sociali interessati e in generale, nella relativa documentazione (contratti, o più frequentemente, corrispondenza).
Talvolta l’individuazione della esatta natura del versamento è resa difficile dai soci stessi che, con la «complicità» degli amministratori, qualificano diversamente i versamenti in base all’andamento economico della società; ad esempio, qualificando i versamenti come conferimenti componenti del netto patrimoniale durante il normale esercizio dell’impresa, al fine di creare l’affidamento delle banche sulla congruità dei mezzi propri della società, e successivamente, riconsiderandoli come effettuati a titolo di mutuo, in caso di crisi dell’impresa, per chiederne il rimborso.
L’importanza della distinzione tra apporti eseguiti dai soci a titolo di capitale di rischio o di capitale di credito è stata in parte ridimensionata, per quanto concerne i rapporti con i terzi creditori della società, dalla norma di cui all’art. 2467 c.c. sopra richiamata, la quale prevede la postergazione dei finanziamenti concessi dai soci in un momento di crisi; dal momento che essi non potranno comunque essere pregiudicati perché i soci, indipendentemente dal fatto che abbiano finanziato la società mediante un finanziamento o degli apporti spontanei, non potranno concorrere con loro su un piano di parità in caso di procedura concorsuale. Tale qualificazione mantiene tuttavia la sua rilevanza sia nel caso in cui l’art. 2467 c.c. non sia applicabile, sia relativamente ai rapporti interni fra i soci, dal momento che la postergazione non incide su questo aspetto.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, la corretta qualificazione dell’erogazione di somme da parte del socio deve essere effettuata attraverso un’indagine circa la reale volontà delle parti nel caso concreto, non limitata al solo uso dei termini utilizzati per le annotazioni nelle scritture contabili, in quanto spesso atecnici e quindi non indicativi, bensì estesa anche al modo in cui è stato concretamente effettuato il versamento, le finalità pratiche cui esso è diretto e gli interessi sottesi.
In mancanza di una chiara manifestazione di volontà è significativa l’analisi dell’appostamento delle somme nel bilancio di esercizio, il quale è un documento approvato dai soci ed è idoneo a creare affidamento nei terzi. In tal senso, appare particolarmente significativo l’inserimento della posta derivante dal versamento dei soci tra le voci del patrimonio netto; inoltre, qualora il socio abbia dato il suo voto favorevole all’approvazione dello stesso, tale comportamento rappresenta una manifestazione di volontà, rilevante ex art. 1362 co. 2 c.c., incompatibile con una qualificazione del rapporto in termini di finanziamento.
Sono stati individuati una serie di indici sintomatici della presenza di un versamento in conto capitale quali, ad esempio la sottocapitalizzazione della società, la ristrettezza della compagine sociale, la proporzionalità e la spontaneità delle erogazioni e soprattutto, l’anormalità dell’operazione. Quest’ultima ricorre quando siano presenti condizioni o caratteristiche del versamento tali da renderlo incompatibile con la sussistenza di un rapporto creditizio tra socio e società; fra le quali assumono particolare rilevo la mancanza di un patto di remunerazione delle somme erogate o di un termine per la restituzione, l’inesistenza di garanzie prestate dalla società e le condizioni patrimoniali precarie di quest’ultima.
In ogni caso, la giurisprudenza tende, nei casi dubbi, a qualificare i versamenti dei soci come conferimenti (e non come prestiti) sul presupposto che gli stessi vengono per lo più effettuati quando la società si trova in una condizione di sottocapitalizzazione, al fine di consentire all’impresa di proseguire la propria attività economica. Tale linea interpretativa determina quindi l’inesigibilità delle somme versate dai soci fino alla liquidazione della società, salva una diversa delibera assembleare che incida sulla quantità e qualità del patrimonio netto.
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Avv. Valerio Pandolfini
Consulenza legale diritto societario
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