Gli amministratori di S.r.l.: poteri, doveri, responsabilità, revoca
Gli amministratori di S.r.l. hanno la responsabilità gestoria esclusiva della società. Essi hanno l’obbligo generale di diligenza e di proseguire l’interesse sociale, e obblighi specifici posti dalla legge o dallo statuto. Gli amministratori sono responsabili nei confronti della società, dei creditori sociali, dei soci e dei terzi. Ai sensi dell’art. 2476 c.c., gli amministratori di S.r.l. sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società; tuttavia la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa e, essendo a conoscenza che l’atto si stava per compiere, abbiano fatto constare il proprio dissenso. La violazione degli obblighi degli amministratori rappresenta un presupposto necessario, ma non sufficiente per affermare la responsabilità risarcitoria degli amministratori: occorre provare l’esistenza del danno subìto dalla società e la riconducibilità causale di detto danno alla condotta omissiva o commissiva degli amministratori. I diversi modelli di amministrazione della S.r.l. prescelti dai soci influenzano il regime di responsabilità degli amministratori. Gli amministratori possono essere altresì revocati, indipendentemente dall’esercizio di un’azione di responsabilità, in via giudiziale o extragiudiziale. Uno strumento molto efficace a disposizione dei soci di minoranza è la denuncia al Tribunale di gravi irregolarità ai sensi dell’art. 2409 c.c., può condurre anch’essa alla revoca degli amministratori e alla nomina di un amministratore giudiziario.
1. Gli obblighi degli amministratori di S.r.l.: a) l’obbligo di diligenza e di perseguire l’interesse sociale
Ai sensi dell’art. 2380-bis c.c., gli amministratori di S.r.l. hanno la responsabilità gestoria esclusiva della società. Ad esclusione delle materie che sono espressamente riservate alla competenza dell’assemblea dei soci (ovvero: approvazione del bilancio, ripartizione di utili, nomina degli amministratori, modifiche dell’atto costitutivo, dell’oggetto sociale o dei diritti dei soci), e ad esclusione delle eventuali ulteriori materie che lo statuto attribuisca espressamente alla potestà decisionale dei soci, tutta la responsabilità gestoria dell’impresa è dunque in capo esclusivamente agli amministratori.
È possibile, se lo statuto lo prevede, che in alcune materie per le quali l’assemblea sia competente in via autorizzatoria, ma questa autorizzazione dell’assemblea non esonera comunque gli amministratori dalla loro esclusiva responsabilità; agli amministratori spetta quindi un giudizio di merito sugli atti autorizzati dall’assemblea. Analogamente, la responsabilità degli amministratori non viene meno in caso di conformità del loro operato alla volontà dei soci o di chi esercita l’attività di direzione e coordinamento.
Gli obblighi degli amministratori si dividono in due categorie:
- obblighi generali di diligenza e di perseguire l’interesse sociale;
- obblighi specifici posti dalla legge o dallo statuto.
Il dovere fondamentale dell’amministratore è quello di gestire la società, ovvero di svolgere l’attività d’impresa per la quale la società è stata costituita. Si tratta di un dovere dal contenuto generico, che si concretizza a seconda delle circostanze del caso e delle caratteristiche della società governata. Il potere di gestione degli amministratori, si distingue in:
- potere di iniziativa, ovvero il compito di convocare l’assemblea nei casi previsti dalla legge e in base alle previsioni dell’atto costitutivo:
- gestione esecutiva, ovvero il potere e il compito di dare esecuzione alle delibere dei soci;
- gestione in senso stretto, cioè il potere di compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale.
Anche se, diversamente da quanto previsto dall’art. 2476 c.c. per le S.p.a., non vi è una disposizione che sancisca in modo specifico che gli amministratori di S.r.l. debbano comportarsi secondo diligenza, si ritiene che il criterio della diligenza debba comunque rilevare nella valutazione della responsabilità dell’amministratore di S.r.l.
Nell’adempimento dei doveri imposti dalla legge e dallo statuto gli amministratori devono infatti operare con la diligenza richiesta per l’adempimento di obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale (art. 1176 c.c.), cioè con il grado di diligenza richiesta dalla natura dell’incarico.
I doveri imposti dalla legge in capo all’amministratore devono essere quindi da questi adempiuti con la diligenza esigibile dalla specifica competenza di quel singolo amministratore (ad esempio, perché esperto legale o tributario, oppure perché avente esperienza in un certo settore industriale o finanziario)
Come principio generale, gli atti gestori degli amministratori sono insindacabili (c.d. business judgement rule). L’amministratore di una società non può infatti esser chiamato a rispondere per aver posto in essere scelte imprenditoriali che si siano poi rivelate inopportune dal punto di vista economico, atteso che la valutazione preventiva sulla opportunità della scelta attiene alla discrezionalità imprenditoriale e, sebbene possa essere posta alla base di una revoca dell’incarico, non può costituire fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società.
Tuttavia, il principio della insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto e la sua operatività trova dei limiti. Se è vero, infatti, che l’attività di amministrazione di una società comporta sempre dei rischi, tali rischi devono essere limitati, attraverso l’assunzione di decisioni ragionevoli e informate.
La discrezionalità dell’amministratore con riferimento alle scelte di gestione della società trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi secondo i parametri della diligenza professionale richiesta all’amministratore stesso e tenendo conto in particolare della mancata adozione delle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, ovvero della diligenza mostrata dall’amministratore nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere.
In questo senso, l’art. 2381, comma 6°, c.c. – norma dettata per le S.p.a., che si ritiene pacificamente applicabile anche alla S.r.l. – prevede che gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato.
Affinché possa escludersi la responsabilità degli amministratori di S.r.l. per il compimento di attività gestorie è pertanto necessario che gli stessi si informino adeguatamente prima di compiere una determinata operazione e che effettuino appropriate valutazioni circa vantaggi e svantaggi derivanti dalle operazioni che hanno in progetto di compiere. La raccolta di un quantitativo sufficiente d’informazioni è infatti espressione della diligenza che deve informare il comportamento degli amministratori. Questi sono inadempienti al loro dovere di diligenza se effettuano scelte di gestione con colpevole improvvisazione, senza soppesare i vantaggi e svantaggi che l’operazione può presentare per la società.
All’amministratore di S.r.l. non è infatti vietato effettuare operazioni rischiose, a condizione che vi sia consapevolezza del rischio e un ragionevole controllo dello stesso. Ciò significa che l’amministratore deve identificare ex ante – cioè, prima del compimento delle operazioni – le possibili conseguenze negative delle decisioni imprenditoriali e identificare possibili alternative meno rischiose. Ad esempio, se l’amministratore di un’azienda che produce e vende macchinari sta per concludere contratti di compravendita, egli, per operare in modo “diligente”, dovrà assumere le opportune informazioni sull’acquirente (in particolare sulla sua solvibilità) e chiedere una forma di garanzia per il pagamento del prezzo.
Gli amministratori devono altresì perseguire l’interesse sociale senza conflitti di interesse.
2. Gli obblighi degli amministratori di S.r.l.: b) gli obblighi specifici posti dalla legge o dallo statuto
Ai sensi dell’art. 2476, comma 1°, c.c. gli amministratori sono tenuti a osservare i doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società; In capo agli amministratori sussistono quindi gli obblighi previsti dalle disposizioni di legge, nonché quelli, aggiuntivi rispetto alla legge, che sono stabiliti nello statuto.
Il Codice civile non contiene un elenco di tutti gli obblighi che gravano sugli amministratori: tali e tanti sono gli adempimenti ai quali gli amministratori sono tenuti nello svolgimento dell’attività sociale, che una completa elencazione sarebbe impossibile e probabilmente poco utile.
I principali obblighi specifici ai quali gli amministratori devono necessariamente adempiere sono:
- la redazione del progetti di bilancio di esercizio nel rispetto dei principi di chiarezza, veridicità e correttezza e del progetto di fusione e scissione;
- la tenuta dei libri sociali e della contabilità (art. 2478 comma 1 c.c.);
- l’effettuazione degli adempimenti pubblicitari previsti dalla legge presso il registro delle imprese;
- la convocazione dell’assemblea nei casi previsti dalla legge, e in particolare in caso di perdite (artt. 2446 e 2447 c.c.);
- accertare senza indugio una causa di scioglimento della società e limitare la gestione alla conservazione del patrimonio sociale (artt. 2485 e 2486, c.c.) (v.par. 8);
- curare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società (art. 2086 secondo comma e 2475 c.c., così come modificati dal D.lgs. n. 14/2019).
3. La responsabilità degli amministratori di S.r.l.
In caso di violazione di obblighi, di natura legale o pattizia, previsti per l’esercizio delle funzioni amministrative, gli amministratori sono responsabili nei confronti:
- della società ( 2392 c.c.) (v. par. 5);
- dei creditori sociali (artt. 2394 e 2394-bis c.c.) (v. par. 6);
- dei soci o dei terzi (art. 2395 c.c.) (v. par. 7).
Funzione, presupposti e natura giuridica di tali responsabilità sono diversi, in quanto diversi sono gli interessi tutelati.
Qualora vi sia una pluralità di soggetti investiti del potere di amministrare una S.r.l., gli amministratori sono responsabili in via solidale (art. 2476, comma 1°, c.c.).
Il meccanismo della solidarietà consente di aumentare le probabilità per il danneggiato di ottenere soddisfazione, in quanto chi agisce in giudizio può chiedere l’intero danno a ciascuno degli amministratori, i quali in tal caso hanno diritto di rivalersi pro quota nei confronti degli altri.
Il fatto che vi siano più amministratori non significa, tuttavia, che essi siano tutti automaticamente responsabili nei confronti della società. La responsabilità dell’amministratore è infatti personale e, in linea di principio, colpisce il solo soggetto che compie l’atto e che cagiona il danno.
In questo senso, l’art. 2476, comma 1° c.c. prevede che la responsabilità non si estende agli amministratori che dimostrino di essere esenti da colpa e, essendo a cognizione che l’atto si stava per compiere, abbiano fatto constare il proprio dissenso.
Pertanto, un amministratore non risponde solidalmente con gli altri qualora:
- sia esente da colpa (come nel caso in cui, ad esempio, subentri a un precedente amministratore e non sia a conoscenza dell’inosservanza di un dovere da parte di un altro amministratore, da cui è derivato il danno);
- se a conoscenza dell’atto, faccia risultare il proprio dissenso.
Il vincolo solidale della responsabilità degli amministratori trova un’altra eccezione quando all’interno dell’organo amministrativo sono stati nominati uno o più amministratori delegati; su questo argomento si rimanda ad altro articolo soci nell’esercizio della propria autonomia contrattuale.
Qualora sia stato previsto un sistema di decisione degli amministratori all’unanimità – in base al quale le decisioni richiedono il consenso di tutti gli amministratori – non si pongono problemi di responsabilità dei singoli amministratori, in quanto la decisione deve essere presa da tutti e tutti ne rispondono, senza che alcuno di essi possa esprimere un dissenso (altrimenti non vi sarebbe una decisione, per mancanza di unanimità).
Diverso è il caso dei modelli di amministrazione in cui le decisioni possono essere prese da singoli amministratori, oppure da una pluralità di amministratori, ma comunque non da tutti insieme e dunque al di fuori dal meccanismo della unanimità dei consensi.
Nell’amministrazione disgiuntiva, in cui ciascun amministratore decide da solo per la società, risponde esclusivamente l’amministratore che ha preso la decisione. Una responsabilità degli altri amministratori potrebbe tuttavia sussistere in caso di omessa opposizione a fronte di un’operazione pregiudizievole. L’art. 2257, comma 2°, c.c., stabilisce infatti che, se l’amministrazione spetta disgiuntamente a più soci, ciascun socio amministratore ha diritto di opporsi all’operazione che un altro voglia compiere, prima che sia compiuta.
Quindi se, ad esempio, in una S.r.l. con tre amministratori e con un modello di amministrazione disgiuntiva, l’amministratore Tizio ha intenzione di acquistare un immobile a un prezzo più elevato del suo valore reale, e comunica agli altri due amministratori, Caio e Sempronio, tale intenzione, se essi non si oppongono rispondono in via solidale con Tizio per il danno arrecato alla società. Qualora invece Caio e Sempronio si oppongano, la decisione verrà rimessa alla maggioranza dei soci, determinata secondo la parte attribuita a ciascun socio negli utili (art. 2257, comma 3°, c.c.). A questo punto, se i soci vietano l’operazione, non si può evidentemente realizzare alcun danno; se invece essi autorizzano l’operazione proposta da Tizio, nonostante l’opposizione di Caio e Sempronio, questi ultimi andranno comunque esenti da responsabilità.
Nel caso poi di amministrazione congiuntiva a maggioranza (art. 2258, comma 2°, c.c.), in cui la decisione viene assunta dalla maggioranza degli amministratori, per andare esente da responsabilità l’amministratore interpellato in ordine a una certa decisione deve, se non è d’accordo, far constare il proprio dissenso.
Infine, nel caso del consiglio di amministrazione, dove le decisioni vengono prese secondo il modello collegiale, l’amministratore dissenziente deve fare risultare il proprio dissenso per andare esente da responsabilità.
Sono responsabili non soltanto ai soggetti immessi, nelle forme stabilite dalla legge, nelle funzioni di amministratori, ma anche coloro che si siano, di fatto, ingeriti nella gestione della società in assenza di una investitura da parte dell’assemblea (amministratori di fatto), sempre che svolgano con continuità tale ruolo, ingerendosi stabilmente, e non occasionalmente, nelle funzioni gestorie, eventualmente in concorso con l’attività dell’amministratore di diritto.
Occorre evidenziare che, ai sensi dell’art. 2476 comma 3 c.c., sono responsabili solidalmente con gli amministratori anche i soci che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi: su questo tema si rimanda all’approfondimento pubblicato su altro articolo.
4. La responsabilità dell’amministratore di fatto
E’ responsabile per il suo operato non soltanto l’amministratore formalmente nominato, ma anche chi esercita funzioni di amministrazione nella società, cioè prende decisioni e compie atti di gestione in nome e per conto della stessa, senza essere stato investito da una formale deliberazione, sulla base della legge o dello statuto (c.d. amministratore di fatto).
La giurisprudenza, infatti, equipara l’amministratore di fatto a quello di diritto sul piano degli obblighi e delle relative responsabilità, sia sul piano civile che sul piano penale, ritenendo che la responsabilità rileva sulla base della effettiva gestione della società, indipendentemente dal dato formale dell’assunzione della carica. In altri termini, ciò che rileva non è la sussistenza di un previo atto d’investitura formale, bensì l’effettivo esercizio dei poteri che la legge associa alla carica sociale dell’amministratore.
Secondo la giurisprudenza prevalente, affinché si possa attribuire a un soggetto la qualifica di amministratore di fatto di una società, è necessario che questi, nell’ambito della stessa, eserciti, in modo continuativo e significativo, e non meramente episodico od occasionale, tutti i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione o anche soltanto di alcuni di essi.
In particolare, le caratteristiche definite dalla giurisprudenza per l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto sono le seguenti:
- autonomia decisionale e poteri di controllo;
- programmazione e adozione di decisioni che investano globalmente la società e il futuro della stessa;
- individuazione come organo direzionale e gestionale anche da parte dei soggetti terzi rispetto alla compagine sociale;
- esercizio in concreto e nel continuo di funzioni quali il controllo della gestione sotto il profilo contabile e amministrativo, la formulazione di programmi e l’emanazione di direttive.
La dimostrazione della posizione di amministratore di fatto di un soggetto si raggiunge mediante l’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico di tale soggetto con funzioni direttive, in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali ad esempio i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti, ovvero in qualunque settore gestionale dell’attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare, senza che sia necessario provare l’esercizio di tutti i poteri propri dell’amministratore di una società.
La giurisprudenza ha altresì precisato che un soggetto deve ritenersi responsabile in qualità di amministratore di fatto anche se svolga funzioni gestorie senza il requisito della sistematicità, qualora lo stesso compia atti di gestione da soli sufficientemente significativi, ovvero di assoluta rilevanza per la vita dell’impresa, tali da potersi giustificare soltanto in virtù di un effettivo inserimento nella gestione. In questo senso, si è ritenuto che il compimento di un atto di gestione quale la dismissione del cospicuo patrimonio immobiliare di una S.r.l., di notevole consistenza economica ed avente effetti sul patrimonio della società stessa, sia da solo sufficiente a integrare gli estremi di un’amministrazione di fatto.
5. La responsabilità degli amministratori nei confronti della società
La responsabilità degli amministratori nella S.r.l. è disciplinata dall’art. 2476 c.c. Il primo comma di tale norma prevede che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società.
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità è appunto volto ad ottenere il risarcimento dei danni provocati alla società dall’inosservanza, da parte degli amministratori, dei doveri loro imposti per l’amministrazione della medesima, dalla legge e dall’atto costitutivo.
La responsabilità dell’amministratore di Srl – a differenza del socio – è illimitata: l’amministratore risponde infatti dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, secondo la regola stabilita dall’art. 2740 comma 1 c.c.
Tuttavia, in alcuni casi, anche i soci della S.r.l. possono essere responsabili, illimitatamente e in solido con gli amministratori, qualora abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società (art. 2476, comma 7°, c.c.). Il tema è stato affrontato in altro specifico contributo.
L’art. 2476 comma 3 c.c. prevede che ciascun socio, indipendentemente dall’entità della propria quota di partecipazione e senza necessità di previa deliberazione assembleare, può promuovere l’azione sociale contro gli amministratori che, nella gestione della società ed in violazione ai loro doveri, hanno provocato un danno al patrimonio sociale.
Il diritto di esercitare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di S.r.l. spetta dunque a ciascun socio. Il socio che agisce contro gli amministratori opera nell’interesse della società, e solo indirettamente nel proprio interesse: l’azione di responsabilità mira difatti ad accertare che l’amministratore ha cagionato danni alla S.r.l., non al singolo quotista, il quale peraltro subisce un danno indiretto, dal momento che i soci sono titolari pro quota del patrimonio sociale.
Tuttavia, nonostante l’assenza di un’esplicita indicazione in tal senso, si ritiene che la legittimazione all’esercizio dell’azione spetti anche alla società (previa delibera dell’assemblea dei soci), che, comunque, è litisconsorte necessaria nel giudizio instaurato dal socio. La società dovrà essere rappresentata in giudizio da un amministratore diverso da quello contro cui è diretta l’azione, o altrimenti da un curatore speciale, ai sensi dell’art. 78 C.p.c.
Ai sensi dell’art. 2393 c.c. (applicabile anche alle S.r.l.), l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori è soggetta a un termine di prescrizione di 5 anni, a decorrere dalla data di cessazione dell’incarico dell’amministratore nei cui confronti è esercitata.
La responsabilità degli amministratori nei confronti della società ha natura contrattuale, in quanto l’operato degli amministratori è espressione delle specifiche mansioni stabilite nel contratto sociale e dei poteri loro attribuiti all’atto della nomina.
Pertanto, in base ai principi generali, la società che agisce in giudizio nei confronti degli amministratori deve dimostrare:
- la condotta inadempiente o illecita effettuata dagli amministratori, cioè la violazione da parte degli amministratori di un obbligo di legge o derivante dallo statuto;
- l’esistenza di un danno al patrimonio sociale;
- il nesso di causalità tra la condotta dell’amministratore e il danno.
Per quanto concerne, in particolare, tale ultimo requisito, la società deve dimostrare l’esistenza di una dipendenza diretta tra la condotta illecita dell’amministratore ed il pregiudizio subito dal patrimonio sociale; tale pregiudizio non deve, infatti, essere la conseguenza di un fatto sopravvenuto e/o imprevedibile. In proposito, occorre evidenziare che, se da un lato appare semplice individuare singole azioni degli amministratori da cui dipendano in modo diretto gli esiti negativi sul patrimonio sociale (e quindi il sorgere di una responsabilità in capo ai membri dell’organo amministrativo), non altrettanto può dirsi in tutti quei casi in cui non siano contestati in modo puntuale singoli addebiti, quanto piuttosto una generica mala gestio.
La società non è invece tenuta a provare anche la colpa degli amministratori; incombe su questi ultimi l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla loro condotta, e quindi di avere osservato i doveri e gli obblighi ad essi imposti dalla legge e dallo statuto.
Per approvare o impedire la rinuncia o la transazione dell’azione promossa nei confronti degli amministratori dalla società occorre il consenso della maggioranza dei due terzi del capitale (dunque una maggioranza più elevata di quella richiesta per le S.p.A.), sempre che non si oppongano tanti soci che rappresentano il 10% del capitale.
6. La responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali
Ai sensi dell’art. 2394 c.c. (che si ritiene applicabile anche alla S.r.l., in mancanza di una apposita norma), gli amministratori incorrono in responsabilità nei confronti dei creditori sociali, qualora il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti e gli amministratori abbiano violato gli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale stesso. Deve inoltre potersi riscontrare un rapporto di causalità tra pregiudizio sofferto dalla società e condotta illegittima degli amministratori.
Affinché sia configurabile tale responsabilità non è necessaria la violazione di obblighi specifici e tipizzati, ma è sufficiente che gli amministratori abbiano compiuto atti di cattiva gestione. Inoltre, solo qualora il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti i creditori possono effettivamente lamentare di aver subito un danno.
L’insufficienza patrimoniale rappresenta un fatto contabile, che si verifica quando il patrimonio della società presenti una eccedenza delle passività sulle attività e dunque l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, sia insufficiente al soddisfacimento dei creditori.
Il danno subito dai creditori non è che un effetto riflesso del danno che gli amministratori hanno arrecato al patrimonio sociale, rendendolo insufficiente a soddisfare i primi. Ne deriva che, se l’azione risarcitoria è già stata esperita dalla società ed il relativo patrimonio è stato reintegrato, i creditori non potranno più esercitare l’azione di loro spettanza dato che gli amministratori sono ovviamente tenuti a risarcire una sola volta il danno. Per contro, qualora la società rinunci all’azione di responsabilità contro l’amministratore, ciò non impedisce che la stessa possa essere intrapresa da parte dei creditori sociali.
Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza, la responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali ha natura extracontrattuale; di conseguenza, il creditore deve provare il fatto illecito da parte dell’amministratore e la commissione dello stesso con dolo o colpa. In ogni caso il creditore che agisce in giudizio deve sempre provare di essere creditore della società, ma non è necessario che il credito sia certo, liquido ed esigibile; è invece sufficiente a fondare la legittimazione la prospettazione fatta dall’attore della sua posizione creditoria, anche se sottoposta ad accertamenti ulteriori.
Il termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione di responsabilità è di cinque anni. Secondo la giurisprudenza prevalente, tale termine decorre dal momento in cui i creditori siano oggettivamente stati in grado di venire a conoscenza dello stato di grave e definitivo squilibrio patrimoniale della società.
Tale situazione può verificarsi, oltre che nell’ipotesi di infruttuosa esecuzione da parte dei creditori e di proposte di concordato giudiziale o stragiudiziale, anche con riferimento alle risultanze del bilancio di esercizio, che costituisce, per la sua specifica funzione, il documento informativo principale sulla situazione della società non solo nei riguardi dei soci, ma anche dei creditori e dei terzi in genere.
7. La responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci e i terzi
Ai sensi dell’art. 2476 comma 6 c.c., gli amministratori sono altresì responsabili nei confronti dei singoli soci e dei terzi, i quali siano direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori.
Gli amministratori incorrono quindi in responsabilità anche nei confronti dei singoli soci e dei terzi, nel caso in cui realizzino atti dolosi o colposi attinenti alla gestione sociale, direttamente lesivi degli interessi dei soggetti tutelati.
Si tratta di un’azione di carattere non residuale rispetto a quella della società e dei creditori sociali, ma autonoma, volta a tutelare gli interessi di una ulteriore tipologia di soggetti; infatti, qualora la violazione dell’amministratore danneggi contemporaneamente sia il patrimonio sociale, sia direttamente quello del socio o del terzo, le diverse azioni di responsabilità possono cumularsi, e l’eventuale rigetto dell’una non preclude la continuazione dell’altra.
Come affermato dalla giurisprudenza, il danno subito dal socio o dal terzo deve essere la diretta conseguenza dell’atto posto in essere dagli amministratori; non può quindi trattarsi di un danno che sia il semplice riflesso del danno eventualmente subito dal patrimonio sociale. In altri termini, deve verificarsi un pregiudizio che abbia incidenza immediata sul patrimonio del socio o del terzo.
La mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non costituiscono, quindi, un danno diretto del singolo socio, poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all’eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell’amministratore.
L’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dei soci o dei terzi richiede pertanto la necessaria coesistenza dei seguenti elementi, la cui prova è a carico dell’attore:
- un danno diretto sul patrimonio del socio o del terzo;
- un atto o un’omissione dolosa o colposa degli amministratori, nell’esercizio della loro funzione gestoria;
- un nesso di causalità tra l’atto illecito e il danno subito dal socio o dal terzo.
La responsabilità nei confronti dei singoli soci e dei terzi ha natura extracontrattuale; pertanto, il socio o il terzo che agisce deve dimostrare, oltre al danno e al nesso di causalità, anche il dolo o la colpa degli amministratori.
8. La responsabilità degli amministratori per irregolarità contabili.
Il più comune inadempimento degli amministratori è costituito dalla irregolare tenuta della contabilità, che può assumere modalità diverse.
La presenza di irregolarità contabili, tuttavia, non implica necessariamente una responsabilità civile a carico degli amministratori. Come si è visto, infatti (v. par. 3), gli amministratori non rispondono a titolo di responsabilità oggettiva, ma, per configurare una loro responsabilità civile è sempre necessario individuare un profilo soggettivo di colpa o dolo nel loro agire. In altri termini, anche in presenza di una iscrizione contabile scorretta, e anche se da essa derivi un danno alla società amministrata o ai terzi, è possibile che non vi sia alcun profilo di colpa né alcuna violazione da parte degli amministratori della diligenza professionale richiesta dalla natura dell’incarico.
Inoltre, poiché, come si è visto, la valutazione dell’operato dei componenti dell’organo amministrativo deve essere espressa con un giudizio ex ante (v. par. 3), devono essere tenuti in considerazione solo gli elementi in possesso al momento dell’assunzione della decisione, o quelli che avrebbero potuto essere conosciuti, con conseguente irrilevanza, ai fini del giudizio sulla condotta degli amministratori, sia degli elementi conosciuti ex post che dei risultati della decisione assunta.
Per le appostazioni contabili, l’errore, in via generale, è rilevante, e quindi integra una condotta negligente dell’amministratore, soltanto qualora alteri la situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, esposta nelle situazioni patrimoniali periodiche o nel bilancio annuale approvato dall’assemblea dei soci o, in genere, nei documenti informativi della società. Non può quindi essere ritenuto negligente l’amministratore che abbia, ad esempio, errato nella iscrizione in bilancio del fondo svalutazione crediti per valori di modesta entità a fronte di un monte crediti di milioni di euro.
D’altra parte, il livello di diligenza richiesto agli amministratori, per quanto elevato possa essere, non può arrivare al punto di far ritenere che soltanto la contabilizzazione totalmente scevra da errori e irregolarità esoneri gli stessi da ogni responsabilità; in considerazione di ciò, la diligenza degli amministratori è spesso misurata valutando gli strumenti di controllo e di analisi di cui hanno dotato la società.
Dunque, in linea di principio, in un sistema complesso quale quello normalmente assunto dalle moderne società di capitali, potrà essere ritenuto negligente un amministratore che non abbia dotato la società di un sistema informatico e di un personale di controllo idoneo e adeguato alla contabilizzazione delle fatture, degli incassi, etc., ma difficilmente – pur in presenza di errori contabili – potrà essere considerato negligente un amministratore che abbia dotato la società di sistemi informatici e di personale di controllo di elevato standard.
Inoltre, spesso le iscrizioni contabili non sono frutto di un mero processo di raccolta dati e di una loro mera catalogazione, bensì di una attività valutativa complessa; le appostazioni sono quindi inevitabilmente connotate da un margine di discrezionalità. Pertanto, qualora laddove l’iscrizione contabile risulti opinabile e non pienamente rappresentativa della situazione patrimoniale della società, ma sia stata comunque compiuta nei limiti della discrezionalità consentita dai criteri dettati dalla legge, si dovrà escludere, in via di principio, la violazione di un obbligo di condotta che possa determinare una responsabilità dell’amministratore.
In questo senso, la giurisprudenza prevalente ritiene che, per quanto attiene alla valutazione dei crediti, poiché il valore dei crediti è condizionato dalla capacità economica e patrimoniale del debitore, l’amministratore è chiamato a formulare un giudizio di prevedibilità che consiste nel riscontrare i dati oggettivi, conosciuti o conoscibili, idonei a modificare la condizione economico-patrimoniale del debitore e a determinare, eventualmente, la necessità di svalutare il credito; in sostanza, l’amministratore deve formulare un giudizio di probabilità quanto alla condotta futura del debitore, tenuto conto della sua solvibilità apparente. Il giudice deve quindi verificare se i presupposti di fatto individuati potessero o meno fondare le conseguenze ipotizzate dall’amministratore, senza possibilità di valorizzare le circostanze sopravvenute, non conosciute, né conoscibili ex ante. La valutazione degli amministratori non è pertanto censurabile se gli stessi dimostrano con adeguata motivazione, di avere rispettato un criterio prudenziale nella valutazione dei rischi, mentre lo è in caso di assoluta arbitrarietà ed insufficiente spiegazione delle ragioni addotte a giustificazione della valutazione compiuta.
Spesso le irregolarità contabili costituiscono per gli amministratori il mezzo attraverso il quale viene realizzato un ulteriore illecito. In particolare, la prosecuzione dell’attività sociale dopo la perdita del capitale sociale ai sensi dell’art. 2447 c.c., in violazione degli artt. 2485 e 2486 c.c. (v. par. 9.1), presuppone frequentemente la redazione della situazione patrimoniale o del bilancio con artifici contabili che occultano la intervenuta perdita del capitale sociale. L’irregolare tenuta della contabilità può, cioè, costituire il presupposto della illegittima prosecuzione dell’attività sociale dopo il verificarsi dello scioglimento della società per perdita del capitale sociale e, quindi, della responsabilità degli amministratori per il compimento di nuove operazioni speculative.
Inoltre, le irregolarità contabili risultano spesso funzionali alla creazione di fondi neri, che sono poi utilizzati per il perseguimento dell’oggetto sociale, o addirittura per scopi extrasociali e, cioè, nell’interesse degli amministratori, dei soci o di terzi.
Le irregolarità contabili possono anche essere finalizzate all’emersione di utili fittizi da distribuire ai soci o, al contrario, per simulare perdite che consentano di evitare il pagamento delle imposte.
In molti casi, tuttavia, le irregolarità contabili non sono specificamente preordinate alla commissione di altri illeciti. In tali casi, generalmente le irregolarità non determinano una responsabilità civile degli amministratori nei confronti della società (v. par. 5), in quanto non cagionano alla stessa danni. Ad esempio, se nell’attivo di bilancio sono esposti crediti che, invece, già all’atto della redazione dello stesso risultavano palesemente irrecuperabili, non vi è alcun danno in capo alla società, in quanto l’asset non faceva comunque parte del patrimonio della società, indipendentemente dall’errore contabile.
Secondo la giurisprudenza prevalente, le irregolarità contabili costituiscono certamente un comportamento inadempiente e censurabile, ma non sono sufficienti ad integrare la fattispecie di responsabilità, la quale richiede la prova, almeno presuntiva, di un danno; pertanto, è onere di chi agisce in giudizio dimostrare che il comportamento degli amministratori ha causato, per colpa, un effettivo depauperamento del patrimonio, provocato o per effetto della sottrazione di beni sociali, o per effetto dell’incremento ingiustificato delle passività.
La giurisprudenza ha affermato che costituiscono ipotesi di danno in capo alla società, direttamente dipendenti dalla tenuta irregolare della contabilità:
- i costi ulteriori sostenuti per la ricostruzione della contabilità sociale;
- l’impossibilità per il curatore fallimentare di incassare un credito o di dimostrare l’avvenuto pagamento di un debito sociale a causa del disordine contabile;
- il mancato pagamento di imposte e contributi;
- un accertamento fiscale induttivo dell’imponibile giustificato dalla inattendibilità delle scritture e dei libri contabili;
- l’interruzione di trattative per operazioni economicamente vantaggiose per l’impresa o l’interruzione di rapporti di credito bancario, a causa delle negative informazioni desumibili dal bilancio manipolato sia pure a scopo esclusivamente fiscale.
Le irregolarità contabili possono altresì costituire fonte di danno per i terzi, compresi i soci, con conseguente responsabilità degli amministratori nei loro confronti. Le irregolarità contabili, infatti, soprattutto qualora si riflettano in documenti aventi rilevanza esterna (quali ad esempio i bilanci, le situazioni patrimoniali e le relazioni destinate ad essere depositate o comunque diffuse ai terzi, i prospetti informativi, etc.), possono costituire presupposti idonei ad integrare la fattispecie di cui all’art. 2476 c.c. (v. par. 7), sempre che siano idonee a trarre in errore il terzo o il creditore sulla situazione patrimoniale ed economica della società, inducendolo a compiere scelte destinate a produrgli un pregiudizio che in mancanza delle suddette irregolarità sarebbe stato in grado di evitare.
Un primo caso tipico di responsabilità degli amministratori nei confronti dei soci e dei terzi per irregolarità contabili si ha quando i soci o i terzi, sulla base delle risultanze della situazione patrimoniale della società, siano stati indotti a sottoscrivere azioni, quote o obbligazioni ad un prezzo superiore al valore effettivo delle stesse, o comunque a condizioni incongrue rispetto all’effettiva situazione patrimoniale ed economica della società.
Altra ipotesi specifica è rappresentata dalla sottoscrizione dell’aumento di capitale da parte del socio senza che gli amministratori avessero fatto risultare che il capitale era interamente perduto, ingenerando così nel socio fiducia nella solidità economica dell’impresa, che invece era già minata dall’andamento della gestione.
In queste ipotesi, l’accertamento della responsabilità risarcitoria degli amministratori presuppone che il socio o il terzo:
- in mancanza degli artifici contabili non avrebbe sottoscritto o acquistato le azioni, quote o obbligazioni dalla società, oppure le avrebbe sottoscritte a differenti condizioni;
- non fossero in grado, utilizzando la ordinaria diligenza, di conoscere le effettive condizioni patrimoniali ed economiche della società al momento della sottoscrizione dell’aumento di capitale o dell’acquisto delle azioni, quote o obbligazioni; è infatti esclusa una responsabilità risarcitoria degli amministratori, pur in presenza di bilanci che non rappresentino correttamente l’effettiva situazione patrimoniale della società, qualora quest’ultima fosse facilmente conoscibile in altro modo (ad esempio da allarmanti notizie di stampa), venendo in tal caso meno il nesso di causalità tra la condotta colposa degli amministratori e il pregiudizio subìto dal socio o dal terzo.
Per quanto concerne, in particolare, l’ipotesi della sottoscrizione di azioni o quote conseguente ad una delibera di aumento di capitale per la quale emerga successivamente – in base alle rettifiche apportate in seguito all’emersione delle irregolarità contabili – che il capitale sociale era in realtà inferiore ai minimi di legge, occorre distinguere due diverse situazioni:
- nel caso in cui l’aumento di capitale, anche attraverso l’apporto del socio o del terzo, abbia consentito alla società di ritornare in bonis, dunque con un patrimonio netto positivo, presumendo che le azioni o quote di titolarità del socio dopo la capitalizzazione conservino un loro valore, il danno risarcibile è pari all’apporto patrimoniale conferito dal socio o dal terzo per sottoscrivere pro-quota l’aumento di capitale, detratto il corrispondente valore delle azioni o quote di titolarità del socio stesso dopo l’aumento di capitale;
- nel caso invece in cui, nonostante l’aumento di capitale, il patrimonio netto sia rimasto negativo per effetto delle rettifiche contabili e la società non sia stata, quindi, in condizioni di continuare ad operare o di portare a termine una liquidazione positiva, il danno è pari all’ammontare dell’apporto patrimoniale del socio o del terzo.
Le stesse considerazioni valgono nell’ipotesi di compravendita di azioni o quote da soggetti diversi dalla società. Infatti, qualora l’acquirente dimostri che in assenza degli artifici contabili non avrebbe acquistato le azioni o quote, gli amministratori colpevoli delle irregolarità contabili saranno tenuti a risarcire un danno pari al prezzo di acquisto delle azioni o quote.
Anche in questo caso, peraltro, è necessario valutare se le azioni o quote conservino un residuo valore o, comunque, se sussista concretamente la possibilità di venderle a terzi, con l’effetto di ridurre l’ammontare del risarcimento del danno in misura corrispondente al valore attuale di mercato, dato che il danno risarcibile sarà determinato dalla differenza tra il prezzo di acquisto e il valore attuale, di mercato, delle azioni o quote.
Occorre inoltre valutare se sussistano fattori esogeni o sopravvenuti che abbiano inciso negativamente e che abbiano comportato una diminuzione del valore delle azioni o quote, indipendentemente dalle irregolarità contabili degli amministratori.
Gli amministratori sono altresì responsabili nei confronti dei soci qualora il bilancio falso che esponeva una situazione tranquillizzante della società abbia indotto i soci stessi ad astenersi dal negoziare le azioni o quote in loro possesso. In questo caso, il danno è commisurato al valore che i soci avrebbero potuto ottenere qualora avessero commercializzato le azioni, o quote, detratto il valore residuo delle azioni o quote medesime, calcolato sulla base dell’effettiva situazione patrimoniale della società; ciò sempre che il socio dimostri l’effettiva intenzione di vendere le azioni o quote, l’esistenza concreta di potenziali acquirenti interessati, nonché l’ammontare del prezzo che tali acquirenti sarebbero comunque stati disposti ad offrire, indipendentemente dalla situazione economico-patrimoniale della società.
Le irregolarità contabili possono poi anche determinare l’effetto di far risultare un patrimonio della società inferiore a quello effettivo, con una corrispondente minore valutazione dei titoli di partecipazione nella società stessa. In questo senso, la giurisprudenza ha affermato, ad esempio, la responsabilità degli amministratori per aver danneggiato i soci che, sulla base dell’errato convincimento circa la reale situazione patrimoniale della società, erano stati indotti a svendere le proprie partecipazioni, ritenendo che il danno risarcibile sia pari alla differenza tra il prezzo di vendita e quello che avrebbe ottenuto qualora la situazione patrimoniale fosse stata correttamente esposta.
Altra ipotesi tipica di responsabilità connessa alla commissione di irregolarità contabili da parte degli amministratori è quella che si può configurare nei confronti dei fornitori della società, ovvero dei terzi finanziatori. In questo caso, le irregolarità contabili consentono di occultare e travisare la reale situazione economica della compagine e possono indurre i terzi a concedere ed erogare crediti, o ad effettuare forniture con pagamento del corrispettivo differito – o con altre pattuizioni sfavorevoli –, che, invece, in presenza della esposizione della effettiva situazione patrimoniale, non sarebbero stati concessi o effettuate, ovvero sarebbero stati concessi o effettuate a condizioni diverse.
Affinché venga affermata la responsabilità degli amministratori occorre che il creditore o il fornitore dimostrino di aver concesso un credito o effettuato una fornitura, o pattuito particolari clausole, indotti dall’esame della tranquillizzante situazione patrimoniale della società – in realtà frutto delle colpose irregolarità commesse dagli amministratori – e che, in assenza di tali artifici, non avrebbero concesso il credito o effettuato la fornitura, o, comunque, non alle condizioni stabilite.
Anche in questo caso, peraltro, il creditore e il fornitore sono tenuti ad adottare la diligenza connaturata al tipo di attività svolta e all’affare concluso; la pretesa risarcitoria non potrà quindi essere accolta qualora l’effettiva situazione patrimoniale della società avrebbe potuto facilmente essere conosciuta dal creditore o dal fornitore. Tale elemento acquista particolare rilevanza per i finanziamenti concessi dalle banche, dato che le stesse sono in grado, prima di erogare il credito, di acquisire notizie approfondite sulla situazione patrimoniale ed economica della società finanziata, senza limitare le proprie indagini alle risultanze dei bilanci o agli altri documenti ufficiali della società.
Qualora infine il terzo fornitore non contesti agli amministratori soltanto la sussistenza di irregolarità contabili che abbiano mascherato la reale situazione patrimoniale della società, ma che tale mascheramento abbia consentito alla stessa di continuare ad operare nonostante l’integrale perdita del capitale sociale, ovvero che, in mancanza di ricapitalizzazione, la società sarebbe stata necessariamente messa in liquidazione e conseguentemente non sarebbe stato concluso il contratto di fornitura o il negozio di concessione del credito, il danno reclamabile dal fornitore o dal creditore corrisponde alla prestazione pecuniaria alla quale sarebbe tenuta in via contrattuale la società e che la stessa, a causa della sua effettiva situazione patrimoniale, non è in grado di adempiere.
9. Il danno risarcibile in caso di responsabilità degli amministratori
Condizione necessaria affinché possa essere fatta valere la responsabilità degli amministratori è la sussistenza di un danno; occorre, cioè, che vi sia una riduzione del patrimonio sociale, in conseguenza di azioni od omissioni poste in essere dagli amministratori in violazione degli obblighi su di essi incombenti. I comportamenti dei membri dell’organo amministrativo non possono invece essere sindacati, anche se contrari ai loro doveri, se non hanno determinato alcun danno.
Secondo il principio generale di cui all’art. 1223 c.c., all’amministratore di una S.r.l, che si sia reso responsabile di una condotta illecita non può essere imputato ogni effetto patrimoniale dannoso che la società abbia subito, ma solo quello che si pone come conseguenza immediata e diretta della violazione degli obblighi incombenti sull’amministratore stesso. La società deve quindi dimostrare non solo la condotta dell’amministratore contraria ai suoi doveri nell’esecuzione del mandato, ma anche la sussistenza di un danno effettivo e direttamente ricollegabile a tale condotta, costituito dalla dispersione di quella ricchezza, al netto delle passività, che l’operato degli amministratori avrebbe dovuto conservare.
Il danno derivante da specifici atti illegittimi per il quale gli amministratori possono essere chiamati a rispondere nei confronti della società non deve essere infatti confuso con il complessivo risultato negativo della gestione della società; il conseguimento di uno sbilancio patrimoniale può presentare molteplici cause, non sempre riconducibili ad atti illegittimi degli amministratori, ma semplicemente alla gestione complessiva e alle scelte discrezionali in cui l’attività gestoria si traduce, come tali non sindacabili in base al principio della business judgment rule (v. par. 1).
Ad esempio, rappresentano atti pregiudizievoli, come tali fonte di danno per la società:
- gli atti distrattivi compiuti sul patrimonio aziendale, a cui può essere associato un danno pari alla conseguente diminuzione patrimoniale;
- le operazioni non inerenti all’oggetto sociale, da cui deriva un pregiudizio economico che corrisponde al valore delle risorse impiegate o dissipate per porre in essere le operazioni stesse;
- l’omesso pagamento per negligenza di oneri fiscali e contributivi, da cui deriva un danno pari alle sanzioni e agli interessi sorti a carico della società.
Viceversa, atti quali l’alterazione delle scritture contabili e la falsificazione del bilancio non sono di per sé produttivi di danno risarcibile, essendo necessario dimostrare che tali condotte abbiano provocato un effettivo danno alla società, e che un corretto adempimento degli obblighi contabili avrebbe avuto l’effetto di evitare la produzione di un simile danno.
La delimitazione dell’area del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità costituisce una questione assai complessa e di non trascurabile rilevanza pratica. Se da un lato, infatti, può risultare agevole accertare la condotta che sia fonte di responsabilità, dall’altro diventa assai complesso misurare in maniera puntuale e certa l’entità del danno prodotto.
La quantificazione del danno è relativamente agevole quando gli amministratori rispondono di addebiti specifici (quali, ad esempio, distrazioni di beni sociali, atti posti in essere in conflitto di interessi a danno della società, prelievi indebiti ed ingiustificati, singole operazioni palesemente negligenti, operazioni non inerenti l’oggetto sociale, violazioni di norme tributarie che abbiano generato sanzioni a carico della società, etc.); in questi casi, infatti, il pregiudizio patrimoniale risarcibile si pone in stretta e diretta correlazione causale con la specifica violazione (ad es. il valore del bene distratto o dissipato).
La questione assume maggiore complessità quando invece agli amministratori viene imputata un’articolata e generale condotta, protratta nel tempo, di mala gestio e/o antigiuridica, che, spesso, si traduce in una crisi aziendale più o meno reversibile. In questo caso, generalmente, non vi infatti una diretta correlazione tra azione o omissione dell’amministratore e danno prodotto.
9.1 La quantificazione del danno risarcibile in caso di prosecuzione dell’attività dopo la perdita del capitale sociale
Come è stato approfondito in altro articolo, in caso di perdita del capitale sociale al di sotto del minimo legale, l’art. 2447 c.c. impone agli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per provvedere alla copertura delle perdite, mediante riduzione del capitale e contemporaneo aumento dello stesso, oppure alla trasformazione della società. In caso di omessa convocazione dell’assemblea ovvero nel caso in cui l’assemblea non deliberi la copertura delle perdite, la riduzione e il contemporaneo aumento del capitale ovvero la trasformazione della società, gli amministratori sono tenuti, verificandosi una causa di scioglimento della società ai sensi dell’art. 2484, comma 1, n. 4, c.c., a iscrivere nel registro delle imprese di una dichiarazione con cui accertano la causa di scioglimento. Ai sensi dell’art. 2486 c.c., inoltre, al verificarsi di una causa di scioglimento – e fino alla consegna ai liquidatori sociali designati di quanto previsto dall’art. 2487 bis c.c. – gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale
In caso di ritardo nella convocazione dell’assemblea, o di prosecuzione dell’attività, successivamente alla perdita del capitale sociale, gli amministratori rispondono personalmente dei danni subiti dalla società, dai soci, dai creditori sociali e dai terzi, ai sensi dell’art. 2485 c.c. Tali azioni di responsabilità molto spesso vengono fatte valere, in via cumulativa, dal curatore nell’ambito di una procedura fallimentare. La responsabilità degli amministratori si realizza dunque qualora:
- il capitale sociale sia diminuito sotto il minimo di legge (artt. 2447 e 2482 ter c.c.);
- gli amministratori siano consapevoli o comunque potessero accorgersi di tale circostanza;
- gli amministratori non abbiano convocato o abbiano ritardato la convocazione dell’assemblea finalizzata alla ricapitalizzazione o trasformazione della società, ovvero abbiano omesso di iscrivere la causa di scioglimento della società;
- gli amministratori, pur conoscendo o potendo conoscere la perdita del capitale e, non avendo adottato gli adempimenti conseguenti, abbiano proseguito l’attività caratteristica della società, ovvero una gestione dell’attività non conservativa dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.
In tale situazione, la giurisprudenza ha elaborato nel corso del tempo due principali metodi per la quantificazione del danno risarcibile cagionato dall’illegittima prosecuzione dell’attività da parte degli amministratori:
- il metodo del deficit patrimoniale, che determina il danno prodotto in misura pari alla differenza tra l’attivo ed il passivo fallimentare; tale metodo è alquanto approssimativo, sia perché non è certo che le passività coincidano con la somma delle domande di ammissione allo stato passivo presentate dai creditori, sia perché l’attivo risente necessariamente della svalutazione di alcuni beni direttamente riconducibile alla dichiarazione di fallimento (ad es. il valore dell’avviamento);
- il metodo del differenziale dei patrimoni netti (o perdita incrementale), in base al quale il danno è quantificato come perdita di patrimonio, e corrispondente alla differenza tra il netto patrimoniale all’apertura della procedura concorsuale ed il patrimonio sociale corrispondente al momento in cui l’attività degli organi sociali non avrebbe dovuto proseguire.
Il metodo del differenziale dei patrimoni netti permette di comprendere nella quantificazione del danno non soltanto il risultato negativo di ogni singola operazione illegittimamente compiuta successivamente alla riduzione del capitale oltre i limiti imposti dalla legge, ma anche il pregiudizio complessivo che la società subisce per effetto del mancato scioglimento, e quindi, della ritardata cessazione dell’attività. Per tale motivo, esso è stato quello più frequentemente utilizzato dalla giurisprudenza nel caso in cui l’organo amministrativo non abbia rispettato la norma di cui all’art. 2447 c.c. e non abbia convocato l’assemblea per la ricostituzione del capitale o la messa in liquidazione, ed abbia compiuto atti gestori estranei alla logica conservativa.
Tale metodo presenta tuttavia alcune criticità, derivanti in particolare dal fatto che non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell’attività d’impresa, potendo essa prodursi anche in pendenza di liquidazione o durante il fallimento in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.
In questo contesto, l’art. 2486 terzo comma c.c., aggiunto dal D.lgs. n° 14/2019 (Codice della Crisi d’Impresa), per ridurre le incertezze applicative che si registravano in giurisprudenza, ha introdotto un parametro di liquidazione del danno specificamente riferito alla prosecuzione da parte degli amministratori dell’attività caratteristica dell’impresa dopo la perdita del capitale sociale, disponendo che in tal caso il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484 c.c., detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione.
La previsione, che deroga alle regole comuni che presiedono al risarcimento del danno, ha natura eccezionale, in quanto tale non applicabile analogicamente ad ipotesi di responsabilità diverse da quelle previste dall’art. 2486 c.c., e segnatamente quelle in cui vengano addebitate quale mala gestio singole, specifiche operazioni produttive di danno (quali ad es. l’omesso pagamento dei debiti tributari, il mancato recupero dei crediti appostati in bilancio, la sottrazione delle rimanenze di magazzino, l’esecuzione di pagamenti preferenziali in violazione della par condicio creditorum, etc.).
Il criterio di quantificazione del danno di cui all’art. 2486 comma 3 c.c. si applica sia nel caso di azione sociale di responsabilità – posto che la perdita del capitale sociale descrive il pregiudizio direttamente subito dalla società – sia nel caso dell’azione di massa dei creditori sociali, dato che tale perdita determina anche l’insufficienza del patrimonio destinato a soddisfare il ceto creditorio. La norma non è invece applicabile per quantificare il danno risarcibile che la prosecuzione dell’attività ha cagionato ai soci, ai terzi ed ai singoli creditori, venendo in tal caso in considerazione un pregiudizio diretto ai relativi patrimoni, non intermediato dal danno al patrimonio sociale.
Il criterio di quantificazione del danno presuntivo dei netti patrimoniali si applica alla duplice condizione che:
- vi siano scritture contabili regolarmente tenute che, anche se non complete, siano comunque tali da consentire la ricostruzione del patrimonio;
- sia stata accertata la responsabilità degli amministratori ai sensi dell’art. 2486 c.c.
La presunzione introduce una agevolazione probatoria, che si giustifica in quanto l’aggravamento delle perdite non deriva da singoli atti dannosi, bensì dalla prosecuzione dell’attività d’impresa, la quale è costituita da un insieme complesso di operazioni, tra di esse correlate, di per sé naturalmente refrattario ad una liquidazione parcellizzata del danno; in questi risulta impossibile fornire una prova specifica dell’ammontare dei pregiudizi direttamente conseguenti a ciascuna singola condotta.
Essa opera anche sul piano del nesso di causalità, consentendo di considerare l’indebita prosecuzione dell’attività caratteristica quale condotta normalmente idonea a generare, in via immediata e diretta, un pregiudizio al patrimonio della società, in termini di aggravamento della perdita patrimoniale. Le perdite che si aggiungono a quelle già maturate nel momento in cui è intervenuto lo scioglimento, ed è sorto l’obbligo di gestire in senso conservativo, sono infatti normalmente prodotte dall’indebita prosecuzione dell’attività caratteristica, per cui in caso di violazione dell’obbligo di gestione conservativa si presume anche il nesso di causalità tra tale inadempimento e il danno cagionato al patrimonio sociale.
La presunzione posta dalla prima parte del terzo comma dell’art. 2486 c.c., in base alla quale il danno risarcibile è pari al differenziale dei patrimoni netti, è relativa, perché la norma fa esplicitamente salva la prova di un diverso ammontare del danno, al fine di pervenire ad una quantificazione maggiormente aderente alle peculiarità del caso concreto.
Il danno derivante dalla violazione dell’art. 2486 c.c. può infine essere liquidato, in via sussidiaria, in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura (c.d. metodo del deficit fallimentare), qualora l’assenza o l’irregolarità delle scritture contabili impediscano di determinare i netti patrimoniali.
Tale criterio di liquidazione del danno patrimoniale in via “forfettaria” non è diretto a compensare il pregiudizio in misura strettamente corrispondente agli effetti dell’illecito, ma tende a sanzionare la condotta dell’amministratore che, violando l’obbligo di predisporre, conservare e consegnare agli organi della procedura concorsuale le scritture contabili, abbia precluso a questi ultimi di ricostruire la genesi della situazione economico-patrimoniale e finanziaria dell’impresa, agevolando l’onere probatorio delle curatela in tale situazione.
10. La revoca degli amministratori di S.r.l.
10.1 La revoca degli amministratori in via giudiziale/cautelare
Le S.r.l. sono di solito composte da pochi soci, spesso legati da qualche forma di vincolo (ad esempio familiare, di parentela o di amicizia). Inoltre, come si è visto gli stessi soci della S.r.l. assumono frequentemente la funzione di amministratore, mentre il ricorso a gestori esterni non è particolarmente frequente. Quando sorgono, per le più diverse ragioni, tensioni fra i soci, una delle prime azioni che viene fatta è quindi quella volta a destituire l’amministratore non gradito dalla sua carica, cioè di revocarlo.
La disciplina della revoca degli amministratori nella S.r.l. è molto scarna. L’art. 2479 comma2 c.c. prevede che sono riservate alla competenza dei soci, fra le altre cose, la nomina degli amministratori, senza disciplinare tuttavia la revoca degli stessi.
L’unica disposizione che fa riferimento alla revoca degli amministratori di S.r.l. è l’art. 2476, comma 3, c.c., secondo cui può essere chiesta, in via giudiziale e cautelare, la revoca degli amministratori solo in caso di gravi irregolarità nella gestione della società che abbiano inciso negativamente sul patrimonio della società.
Nella prassi, la revoca degli amministratori viene sempre chiesta in via cautelare, ai sensi dell’art. 700 C.p.c..; i contrasti fra soci e amministratori devono infatti poter essere risolti velocemente, al fine di garantire il buon funzionamento della società. A tal fine occorrerà che si verifichino i presupposti del fumus boni juris e del periculum in mora (quest’ultimo rappresentato dalla probabilità che l’amministratore, restando in carica, possa aggravare il danno già prodotto alla società).
L’accoglimento della domanda di responsabilità degli amministratori per danni non ne determina la loro revoca automatica. Le due azioni di responsabilità e di revoca hanno infatti scopi diversi: la prima ha l’obiettivo di ottenere il risarcimento del danno patito dalla società – e quindi presuppone l’esistenza di un danno cagionato dall’amministratore – mentre la seconda mira a porre termine alla relazione fra S.r.l. e amministratore, e quindi a destituirlo immediatamente dalla sua carica, in caso di gravi irregolarità nella gestione, indipendentemente dall’esistenza di un danno.
Non vi è uniformità di vedute in ordine al rapporto tra l’azione di responsabilità e la richiesta di provvedimento cautelare di revoca degli amministratori. Secondo la giurisprudenza prevalente, il provvedimento cautelare di revoca può essere chiesto anche prima dell’inizio della causa avente ad oggetto la responsabilità degli amministratori, in presenza di un danno anche solo potenziale (prescindendo quindi dall’azione di responsabilità che, come si è visto, ha natura risarcitoria). Questa soluzione appare preferibile anche perché la protezione legislativa dei soci di S.r.l. è inferiore alla tutela garantita dalla legge ai soci di S.p.a., non potendo gli stessi presentare la denunzia al Tribunale di cui all’art. 2409 c.c.
In caso di revoca dell’amministratore, secondo la giurisprudenza prevalente non è possibile procedere alla nomina di un amministratore giudiziario; pertanto, venuto meno un amministratore, resta dell’assemblea dei soci il potere di nominare un amministratore nuovo, secondo le previsioni dello statuto e in applicazione dell’art. 2479 c.c. L’eventuale inerzia di tutti i soci dà luogo all’impossibilità di funzionamento della società per vuoto gestorio, con conseguente scioglimento e liquidazione della stessa.
10.2 La revoca degli amministratori in via stragiudiziale
Al di là dell’ipotesi di revoca in via giudiziale, l’atto costitutivo può senz’altro contenere disposizioni concernenti la revoca degli amministratori. L’art. 2463 comma 2 c.c. stabilisce infatti che l’atto costitutivo della S.r.l. deve indicare, fra le altre cose, le norme relative al funzionamento della società, tra cui quelle concernenti l’amministrazione e la rappresentanza. I soci possono dunque disciplinare in sede di atto costitutivo anche le condizioni e le modalità di revoca degli amministratori, stabilendo:
- i presupposti che determinano la revoca degli amministratori;
- il procedimento con cui gli amministratori vengono destituiti dalla loro carica.
Nella prassi, spesso l’atto costitutivo della S.r.l. prevede che gli amministratori possono essere revocati a determinate condizioni, in modo da garantire loro una maggiore stabilità e attirare persone esterne alla società; ad esempio, può essere previsto che gli amministratori possono essere revocati solo in presenza di gravi motivi, e/o di giusta causa.
In ordine alla valutazione della giusta causa di revoca degli amministratori, la giurisprudenza ritiene che valgano in linea di massima i principi vigenti in tema di revoca del mandato, e che quindi che essa possa essere individuata, oltre che nell’inadempimento delle prestazioni dovute dall’amministratore, anche in circostanze o fatti che, incidendo sul rapporto fiduciario fra società ed amministratore, non consentano neppure in via provvisoria la prosecuzione del mandato.
In questo senso, si è ritenuto che non sussista una giusta causa di revoca (con conseguente diritto al risarcimento del danno per l’amministratore revocato) nelle seguenti ipotesi:
- mero disaccordo sulla gestione all’interno del CdA;
- esigenze di riorganizzazione dell’organo amministrativo per ragioni economiche dell’azienda, quali ad esempio la riduzione del numero dei consiglieri di amministrazione oppure la modifica dell’assetto dell’organo amministrativo, da collegiale a monocratico;
- il mutamento della compagine sociale, sul presupposto della neutralità del mutamento della maggioranza rispetto al rapporto società amministratore;
- la mancata realizzazione delle prospettive di sviluppo, richiamate in modo generico e/o non imputabili all’amministratore revocato e/o non sopravvenuta ma preesistente allo svolgimento dell’incarico di amministratore.
Secondo la giurisprudenza prevalente, anche la revoca della delega all’amministratore delegato decisa dal CdA deve essere assistita da giusta causa, sussistendo, in caso contrario, il diritto del revocato al risarcimento dei danni eventualmente patiti.
Se l’atto costitutivo non prevede nulla in materia di revoca degli amministratori di S.r.l., si ritiene che, nonostante la mancanza di una norma espressa nella disciplina della S.r.l., sia possibile che la maggioranza dei soci possa comunque revocare gli amministratori, anche qualora non vi siano i presupposti per l’esercizio di un’azione di responsabilità in via giudiziale (in quanto l’amministratore non ha causato danni), qualora venga meno il rapporto di fiducia con gli altri soci.
Ai sensi dell’art. 2479 comma 1 c.c., infatti, i soci della S.r.l. decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo e sugli argomenti che uno o più` amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione. Nel generale potere decisorio dei soci rientra quindi anche la possibilità di decidere sulla revoca degli amministratori.
In questo senso, si ritiene che, in applicazione analogica dell’art. 2383 comma 3 c.c., in assenza di specifiche previsioni nell’atto costitutivo, si ritiene che gli amministratori siano revocabili in qualunque tempo, salvo il diritto al risarcimento dei danni per lo più parametrato all’entità degli emolumenti perduti, se la revoca avviene senza giusta causa o in difetto di un congruo preavviso.
A differenza della revoca degli amministratori per via giudiziaria cautelare, che come si è visto, è consentita espressamente al singolo socio (art. 2476, comma 3, c.c.), la revoca dell’amministratore in via extra-giudiziale è consentita ai soci che dispongano della necessaria maggioranza. Pertanto, il socio che riscontri gravi irregolarità nella gestione della società non ha necessità di raccogliere il consenso della maggioranza dei quotisti per revocare l’amministratore, ma può rivolgersi direttamente al giudice al fine di ottenerne la rimozione; viceversa, per ottenere questo risultato in via extra-giudiziale è necessario il consenso della maggioranza dei soci.
Se l’assemblea dei soci della S.r.l. deve deliberare in merito alla revoca di un amministratore che è anche socio della società, l’amministratore si trova in una situazione di conflitto d’interessi, in quanto l’interesse della società (alla rimozione dalla carica) è diverso dall’interesse del socio (al mantenimento della stessa). In tal caso, il socio-amministratore di S.r.l., della cui revoca si discute in assemblea, non è obbligato ad astenersi dalla votazione; tuttavia, ai sensi dell’art. 2479 ter, comma 2, c.c. la decisione assunta con la partecipazione determinante del socio in conflitto di interessi è impugnabile.
Per quanto attiene al risarcimento del danno dell’amministratore ingiustamente revocato, secondo la giurisprudenza prevalente il danno patrimoniale consiste nel lucro cessante, pari ai residui compensi non percepiti per il periodo in cui l’amministratore avrebbe conservato il suo ufficio se non fosse intervenuta la revoca. L’importo concretamente risarcibile deve essere comunque determinato applicando le regole di cui agli artt. 1223-1227 c.c.
11. La denuncia di gravi irregolarità ai sensi dell’art. 2409 c.c.
Un altro strumento molto efficace a disposizione dei soci di minoranza è la denuncia al Tribunale di gravi irregolarità, prevista dall’art. 2409 c.c. Tale strumento è stato recentemente reintrodotto per le S.r.l. dal Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. n. 14/2019), dopo che la riforma delle società del 2003 l’aveva negato, riservandola alle sole S.p.A.
Ai sensi dell’art. 2409 c.c., i soci che rappresentano almeno 1/10 del capitale sociale (o anche il collegio sindacale) possono, con apposito ricorso, di denunziare al Tribunale, in presenza di “fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate”, i fatti che abbiano dato luogo alle irregolarità medesime. Presupposti per l’operatività della norma sono quindi:
- il compimento da parte degli amministratori di gravi irregolarità nella gestione, derivanti dalla violazione dei doveri che gravano sugli stessi;
- il possibile danno per la società, derivanti da tali irregolarità.
Le irregolarità devono essere ancora in atto (non rilevando quindi irregolarità pregresse che abbiano esaurito il loro effetto) e devono riguardare l’intera attività sociale, cioè la gestione della società nel suo complesso, e non singoli atti autonomamente impugnabili. Il rimedio di cui all’art. 2409 c.c. ha infatti carattere residuale, cioè può essere esperito solo laddove non siano possibili altri rimedi più specifici, quali ad esempio l’impugnazione di delibere assembleari o consiliari. Possono essere oggetto di denuncia al Tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c. fatti gravi commessi dagli amministratori, come:
- la violazione delle norme tributarie e previdenziali;
- le operazioni in conflitto di interessi;
- l’ uso di beni sociali a fini privati;
etc.
Non è necessario che il socio denunziante fornisca una vera e propria prova delle irregolarità, essendo sufficiente un “fondato sospetto”, ovvero gravi indizi, affinché il Tribunale si attivi.
Anche se il procedimento ex art. 2409 c.c. non è finalizzato ad ottenere la condanna degli amministratori al risarcimento dei danni subiti dalla società, le gravi irregolarità devono avere carattere dannoso, seppure potenzialmente; devono, cioè, integrare violazioni di legge o dello statuto sociale, tali da procurare un danno al patrimonio sociale.
A seguito di una denuncia ex art. 2409 c.c. può accadere che la società si attivi subito sostituendo gli amministratori con soggetti dotati di adeguata professionalità che si adoperino subito per rimediare alle irregolarità; se, per esempio, venga denunciata la sistematica omissione di versamenti fiscali e previdenziali, i nuovi amministratori si dovranno attivare subito per regolarizzare i relativi pagamenti. In tali casi, il procedimento ex art. 2409 c.c. è sospeso.
Se invece la società, a seguito della denuncia ex art. 2409 c.c., non si attiva, il Tribunale può, alternativamente:
- disporre l’ispezione della società e quindi, all’esito della medesima, gli opportuni provvedimenti;
- nei casi più gravi, revocare gli amministratori (ed eventualmente anche i sindaci), e nominare un amministratore giudiziario, determinandone poteri e tempo di durata.
Il controllo giudiziario, attivato dal sospetto di gravi irregolarità, può dunque arrivare ad una ingerenza molto penetrante nell’organizzazione aziendale, dato che il Tribunale può nominare un ispettore giudiziario o, qualora vi siano danni potenziali ingenti per la società, revocare gli amministratori e sostituirli con un amministratore giudiziario.
In quest’ultimo caso, l’amministratore giudiziario gestisce la società nel rispetto dei compiti allo stesso attribuiti dal Tribunale. Così, ad esempio, se le irregolarità consistono nella redazione del bilancio di esercizio in maniera non conforme ai criteri di cui agli artt. 2423 e ss. c.c., l’amministratore giudiziario dovrà predisporre un nuovo bilancio e sottoporlo all’approvazione dell’organo assembleare.
L’amministratore giudiziario può anche proporre l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (e del collegio sindacale), indipendentemente dai compiti conferitigli dal Tribunale, essendo tale potere attribuitogli direttamente dalla legge (art. 2409, comma 5, c.c.).
Prima della scadenza dell’incarico l’amministratore giudiziario deve rendere il conto della gestione compiuta al tribunale (art. 2409, comma 6, c.c.). Ultimato l’incarico, l’amministratore giudiziario dovrà convocare l’assemblea dei soci per la nomina del nuovo organo amministrativo (e, se revocato, del collegio sindacale). L’organo assembleare potrà essere convocato anche al fine di deliberare sullo scioglimento e la messa in liquidazione della società o sulla richiesta di ammissione ad una procedura concorsuale.
La denunzia ex art. 2409 c.c. rappresenta quindi per i soci di minoranza un efficace strumento che consente di superare alcuni limiti dell‘azione di responsabilità contro gli amministratori ex art. 2476 c.c., ovvero in particolare:
- i notevoli costi da sostenere (la denuncia ex art. 2409 c.c. dà infatti luogo ad un giudizio di volontaria giurisdizione, che ha costi inferiori);
- la difficoltà di ricostruire i fatti ed acquisire le prove (dati gli ampi poteri istruttori concessi al Giudice a seguito di denunzia ex art. 2409 c.c.);
- la durata del giudizio (salva la possibilità di un ricorso cautelare);
- l’impossibilità per il Tribunale adito in sede di azione di responsabilità ex 2476 c.c. di nominare un amministratore indipendente in via provvisoria, con conseguente possibilità dei soci di maggioranza, di rinominare, a seguito della revoca disposta dal Giudice, un organo gestorio compiacente.
E’ possibile scaricare un modello di verbale dell’assemblea revoca amministratore unico di S.r.l. cliccando qui, con l’avvertenza che è necessario procedere alle opportune modifiche in rapporto alle specificità del singolo caso.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in Diritto Societario
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