Il conflitto di interessi degli amministratori di S.r.l.
L’art. 2475-ter c.c. prevede una disciplina del conflitto di interessi degli amministratori di S.r.l. autonoma e diversificata rispetto a quanto previsto per le S.p.a. Al primo comma, la norma prevede l’annullabilità, su domanda della società, dei contratti conclusi dagli amministratori rappresentanti in conflitto di interessi, per conto proprio o di terzi, con la società medesima, purché il conflitto fosse conosciuto o riconoscibile dal terzo. Al secondo comma, la norma dispone l’impugnabilità, entro novanta giorni, da parte degli amministratori e, ove esistenti, del collegio sindacale o del revisore, delle decisioni assunte dal consiglio di amministrazione con il voto determinante di un amministratore in conflitto di interessi con la società, qualora esse le cagionino un danno patrimoniale, con salvezza dei diritti acquistati in buona fede da terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della decisione.
1. Differente disciplina del conflitto di interessi degli amministratori nella S.r.l. e nella S.p.A.
L’art. 2475-ter c.c. costituisce l’unica disposizione specifica in materia di conflitto di interessi degli amministratori di S.r.l.
Al primo comma, la norma prevede l’annullabilità, su domanda della società, dei contratti conclusi dagli amministratori rappresentanti in conflitto di interessi, per conto proprio o di terzi, con la società medesima, purché il conflitto fosse conosciuto o riconoscibile dal terzo.
Al secondo comma, la norma dispone l’impugnabilità, entro novanta giorni, da parte degli amministratori e, ove esistenti, del collegio sindacale o del revisore, delle decisioni assunte dal consiglio di amministrazione con il voto determinante di un amministratore in conflitto di interessi con la società, qualora esse cagionino un danno patrimoniale, con salvezza dei diritti acquistati in buona fede da terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della decisione.
L’art. 2475-ter c.c. prevede una disciplina delle S.r.l. autonoma e diversificata rispetto a quanto previsto per le S.p.A. dall’art. 2391 c.c., in quanto:
- rilevano, nell’ambito delle S.r.l., i soli interessi dell’amministratore che siano in contrasto con l’interesse sociale, mentre per le S.p.A., l’art. 2391 c.c. prende in considerazione ogni interesse che l’amministratore possa avere in una determinata operazione;
- manca, nella S.r.l., una disciplina concernente obblighi di comunicazione, motivazione ed astensione diretti a prevenire l’abuso da parte degli amministratori in conflitto;
- i rimedi previsti nella S.r.l. per reagire all’assunzione di una decisione o al compimento di un atto viziato da conflitto di interessi hanno carattere successivo ed invalidatorio, diversamente dalla disciplina prevista per le S.p.A. caratterizzata dall’impostazione, in via preventiva, di obblighi comportamentali gravanti sugli amministratori.
Le ragioni della differente disciplina tra S.r.l. e S.p.A. vengono individuate nella diversità dei ruoli degli amministratori e dei soci nei due tipi di società e nel più ampio spazio riservato dalla disciplina della S.r.l. all’autonomia statutaria, cui è possibile ricorrere, ove reputato opportuno, per integrare la regolamentazione con norme corrispondenti a quelle dettate per le S.p.A.
2. Nozione di conflitto di interessi
Il fenomeno giuridico del conflitto d’interessi è disciplinato da numerose norme del Codice civile, come ad esempio in ambito contrattuale, nella rappresentanza, e in ambito societario, relativamente al voto espresso in assemblea. La ratio delle diverse norme in materia è comune: evitare che determinati soggetti, chiamati a rivestire un ruolo qualificato nella sfera giuridica altrui, possano abusare dei poteri loro attribuiti per perseguire interessi propri e contrastanti con le finalità volute dal legislatore.
La nozione di “conflitto di interessi” non è definita dal legislatore. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, si ha conflitto di interessi quando gli interessi portati di cui i soggetti sono portatori sono contrapposti e compatibili, sì che il soddisfacimento dell’uno comporta inevitabilmente il sacrificio dell’altro.
In particolare, nelle S.r.l. sussiste un conflitto di interessi tra amministratore e società quando, in relazione ad una determinata decisione, ad un vantaggio anche potenziale dell’amministratore fa fronte uno svantaggio, o anche un minor svantaggio, della società, o viceversa (potendo anche accadere che l’amministratore, per evitare un danno, pregiudichi le ragioni della società).
Il legislatore non ha attribuito rilievo al semplice fatto che l’amministratore abbia un interesse nell’operazione, bensì alla circostanza che questi abbia fatto in concreto prevalere l’interesse proprio su quello della società, qualora quest’ultimo sia incompatibile con il primo.
Ai fini dell’applicazione dell’art. 2475-ter c.c. rileva l’interesse della società in quanto soggetto giuridico distinto dai suoi soci, e non gli interessi dei singoli soci. Seppure, dunque, spesso l’esistenza di un conflitto di interessi tra amministratore e società implichi anche, indirettamente, un conflitto con gli interessi dei soci in quanto tali (poiché i pregiudizi subiti dalla società hanno di regola un impatto sul valore e la redditività della quota), occorre tenere ben distinto il primo, rilevante in base alla disciplina sul conflitto di interessi, dai secondi.
In linea generale, l’amministratore è portatore di un interesse proprio e per conto di altri soggetti ogniqualvolta ricorra un rapporto, di natura patrimoniale o non patrimoniale, tale da incidere sulla sua autonomia decisionale e sulla sua capacità di perseguire disinteressatamente gli interessi della società. Ad esempio, possono essere rilevanti relazioni di parentela, l’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente o autonomo, oppure un rapporto associativo quale quello di società.
Non è necessario che sussista un rapporto di identità o proporzionalità tra i rispettivi vantaggi e svantaggi dell’amministratore e della società; deve infatti considerarsi in conflitto di interessi anche l’amministratore che, da una certa operazione, attenda un guadagno molto inferiore (o superiore) rispetto alle perdite che la società potrebbe subire.
Si ritiene che, affinché sussista il conflitto di interessi, non occorra un’assoluta incompatibilità fra la realizzazione dell’interesse dell’amministratore e quello sociale, ma sia sufficiente anche una incompatibilità relativa, nel senso che assieme all’interesse dell’amministratore potrebbe risultare parzialmente realizzato anche quello sociale.
Inoltre, non è necessario un rapporto di identità o di proporzionalità tra i rispettivi vantaggi e svantaggi dell’amministratore e della società, dovendosi considerare in conflitto anche l’amministratore che, da una determinata operazione, attenda un guadagno molto inferiore (o superiore) rispetto alle perdite che la società potrebbe subire, salvo che il beneficio o il pregiudizio sia tanto limitato da non essere giuridicamente rilevante.
L’accertamento dell’esistenza del conflitto deve essere, peraltro, condotto non in termini astratti ed ipotetici, ma con specifico riferimento al singolo atto, sulla base del contenuto e delle modalità dell’operazione.
3. Il potere di rappresentanza degli amministratori di S.r.l.
L’ambito di applicazione dell’art. 2475-ter c.c. è limitato agli amministratori che hanno la rappresentanza della società. In ragione delle variegate forme che può assumere l’organo gestorio nella s.r.l., la norma è quindi applicabile a:
- l’amministratori unico;
- l’amministratori delegato con poteri rappresentativi e anche gestori (rientranti nella delega loro conferita);
- l’amministratore munito di poteri di rappresentanza, ma privo dei corrispondenti poteri di gestione;
- gli amministratori rappresentanti in regime di amministrazione disgiuntiva.
Il potere di rappresentanza per gli amministratori di S.r.l. è disciplinato all’art. 2475-bis c.c., il quale stabilisce che:
- gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società;
- la società è vincolata dagli atti compiuti dagli amministratori in violazione delle limitazioni poste al loro potere di rappresentanza dall’atto costitutivo o dall’atto di nomina, anche se pubblicate, salvo che non si provi che il terzo abbia agito a danno della società (c.d. exceptio doli).
L’atto costitutivo o l’atto di nomina possono senz’altro attribuire ad alcuni soltanto degli amministratori il potere rappresentativo, come avviene frequentemente per le figure del presidente e dell’amministratore delegato. È così possibile che una clausola statutaria o l’atto di nomina limiti i poteri rappresentativi degli amministratori all’ordinaria amministrazione o ad alcuni specifici atti (magari con valore inferiore ad un determinato corrispettivo), riservare il potere decisionale su alcuni atti al consiglio di amministrazione o all’assemblea dei soci.
Secondo l’orientamento prevalente, tale riserva (o modalità di esercizio) del potere di rappresentanza assume anche efficacia esterna, dal momento che determina in capo agli amministratori esclusi dalla rappresentanza la carenza assoluta della titolarità del potere e non una mera limitazione del medesimo. L’esclusione statutaria del potere di rappresentanza in capo ad alcuni dei membri dell’organo gestorio di S.r.l. può essere opposta ai terzi al di fuori dei limiti stabiliti dall’art. 2475-bis, co. 2, c.c., in quanto tale fattispecie non costituisce una limitazione statutaria della rappresentanza, ma un difetto originario del potere amministrativo. Ricade quindi sui terzi l’onere di verificare, prima della stipulazione del contratto, la titolarità del potere rappresentativo di chi appone la firma.
L’inosservanza delle limitazioni statutarie al potere di rappresentanza, fatta salva l’ipotesi dell’exceptio doli, rileva, dunque, unicamente sul piano interno, e costituisce un inadempimento che può legittimare l’azione di responsabilità ai sensi dell’art. 2476, co. 1, c.c. nei confronti dell’amministratore inadempiente, la giusta revoca ex art. 2476, co. 3, c.c. e, infine, costituire motivo di denuncia al collegio sindacale, quando quest’organo sia nominato.
Qualora il potere di rappresentanza sia attribuito a più amministratori congiuntamente, l’assenso dell’amministratore interessato è un elemento essenziale affinché la società manifesti validamente la propria volontà, e l’accordo non può essere raggiunto senza la firma, determinante per il perfezionamento del contratto, del soggetto in conflitto di interessi. Può quindi verificarsi la situazione in cui il contratto è concluso degli amministratori che hanno la rappresentanza della società, alcuni dei quali si trovano in conflitto di interessi.
In tal caso, si applica comunque l’art. 2475-ter, comma 1, c.c. e dunque il contratto concluso con il contributo di un amministratore in conflitto di interessi è annullabile anche quando, per il perfezionamento del vincolo negoziale, è necessario il consenso di altri amministratori. È quindi auspicabile che, in caso di rappresentanza congiunta, che lo statuto preveda adeguati meccanismi atti a consentire che, se uno degli amministratori è portatore di un interesse in contrasto con quello sociale, la società possa essere validamente rappresentata dai soli amministratori non interessati.
4. I contratti conclusi dagli amministratori in conflitto di interessi
L’art. 2475-ter, comma 1, c.c., prevedendo l’annullabilità dei contratti conclusi in conflitto di interessi, si applica a tutti i contratti, compresi quelli associativi con comunione di scopo (come il negozio di conferimento in società) e i c.d. contratti a prestazione unilaterale (come la donazione, il comodato e la fideiussione), che quindi possono essere annullati, anche se stipulati a titolo gratuito, se stipulati dal rappresentante in una situazione di conflitto di interessi conosciuta o conoscibile dal terzo.
Perché possa essere annullato un contratto concluso con i terzi, il comma 1 dell’art. 2475-ter c.c., richiede che la società fornisca la prova:
- della situazione di conflitto di interessi del rappresentante al momento della conclusione del contratto;
- della conoscenza o riconoscibilità, da parte del terzo, del conflitto.
Se dalle modalità secondo cui l’operazione è stata compiuta emerge il ragionevole sospetto che l’amministratore si sia determinato al perseguimento dell’interesse proprio a discapito di quello sociale, il contratto può essere annullato su istanza della parte verosimilmente destinata a subire il danno, vale a dire la società.
Il conflitto di interessi deve essere attuale, cioè valutabile nel momento della formazione del negozio, e riscontrabile non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento al singolo atto, cioè tale da incidere concretamente sul contratto stesso e che non realizza, dunque, gli interessi del rappresentato.
Ai fini probatori possono essere utilizzate anche presunzioni; il conflitto di interessi può infatti risultare anche da elementi indiziari significativi ed univoci (quali, ad esempio, l’esistenza di un rapporto di parentela o di coniugio tra il rappresentante ed il terzo contraente), tali da far ritenere la comunanza di interessi tra i due soggetti e la riconoscibilità di tale situazione da parte del terzo. Il rappresentante può comunque sempre escludere il conflitto di interessi fornendo la prova liberatoria della non conoscenza o inconsapevolezza.
La società deve altresì dimostrare la conoscenza o conoscibilità del conflitto del rappresentante da parte del terzo contraente, nel caso specifico, alla luce degli elementi di fatto della singola vicenda contrattuale. I terzi sub-acquirenti a titolo oneroso in buona fede possono essere anche soci, o componenti dell’eventuale organo di controllo, ovvero amministratori diversi da quello in conflitto, anche se il ruolo rivestito nella società può rendere in fatto meno probabile la sussistenza della loro buona fede.
La possibilità di dimostrare la conoscenza o la conoscibilità del conflitto naturalmente è quando l’interesse conflittuale con quello della società, di cui l’amministratore è portatore, fa capo allo stesso soggetto che conclude il contratto in veste di controparte.
Al di fuori di tale ipotesi, la prova del requisito è influenzata dalla circostanza che l’interesse in conflitto sia dello stesso amministratore – nel qual caso il conflitto è in linea di massima più facilmente conoscibile – o di un altro soggetto. In assenza di particolari obblighi di disclosure, il contraente nei confronti del quale si intenda l’annullamento del contratto può non essere a conoscenza nemmeno dei legami tra l’amministratore e il soggetto che questi potrebbe avvantaggiare a scapito della società.
In ogni caso, l’eventuale annullamento del contratto concluso in conflitto di interessi non necessariamente travolge i diritti acquistati da eventuali successivi aventi causa della controparte della società. È infatti applicabile l’art. 1445 c.c., in forza del quale l’annullamento che non dipende da incapacità legale non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, salvo gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento.
Il primo comma della norma non richiede espressamente la prova del danno – attuale o potenziale – quale presupposto per l’annullamento del contratto, al contrario del secondo comma, che, come si vedrà, invece lo considera essenziale per la declaratoria di invalidità della delibera. Tuttavia, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti ritengono che, ai fini dell’annullabilità del contratto, occorra dimostrare anche l’esistenza di un danno, almeno potenziale per la società.
In questo senso, in giurisprudenza si è precisato che, per l’annullamento dei contratti conclusi dall’amministratore di S.r.l. in conflitto di interessi, ai sensi dell’art. 2475 ter c.c., è sufficiente la potenzialità lesiva dell’atto, non essendo richiesto il danno per la relativa azione. Ad esempio, in una ipotesi di cessione, da parte dell’amministratore, alla società di un proprio credito contestato dal terzo, si è ritenuto che grava sull’amministratore l’onere di provare l’inesistenza in concreto di una situazione di conflitto pregiudizievole per la società ovvero una specifica circostanza di fatto atta a superare tale situazione.
È controverso se il contratto sia annullabile ai sensi della norma in esame anche quando l’amministratore rappresentante si sia limitato a dare attuazione a una decisione di un altro organo sociale (tipicamente, del consiglio di amministrazione o di un altro amministratore) rappresentando ai terzi la volontà dell’ente.
Secondo l’opinione prevalente, è necessario che l’amministratore-rappresentante, portatore di un interesse conflittuale con quello della società, abbia la possibilità di influire sul contenuto del contratto; al contrario, ove egli si limiti a tradurre in termini negoziali la volontà sociale preventivamente formatasi in una decisione assunta in seno alla società, verrebbe meno la ratio che giustifica l’applicazione della regola in esame, non sussistendo il rischio di una condotta opportunistica da parte del soggetto dotato del potere di rappresentanza. Sembra infatti applicabile anche all’amministratore di S.r.l. la norma di cui all’art. 1395 c.c. secondo cui il contratto concluso con sé stesso dal rappresentante in conflitto di interessi non è annullabile se il suo contenuto è stato predeterminato dal rappresentato, escludendo così la possibilità di conflitto di interessi.
Il contratto concluso dal legale rappresentante in esecuzione di una decisione degli amministratori viziata da conflitto di interessi è pertanto ritenersi annullabile ai sensi del primo comma dell’art. 2475-ter c.c. solo nel caso in cui la decisione lasci margini di discrezionalità nel definire il contenuto dell’accordo e per i profili del contratto non oggetto di preventiva definizione da parte dell’organo collegiale. Al di fuori di tale ipotesi, affinché la società possa svincolarsi dalle obbligazioni derivanti dalla esecuzione della decisione assunta con il voto determinante di un amministratore in conflitto di interessi, occorre che la decisione sia tempestivamente impugnata, ai sensi dell’art. 2475-ter, comma 2, c.c. e che il terzo sia a conoscenza di tale vizio.
Secondo la giurisprudenza, il contratto con sé stesso stipulato dall’amministratore di una società può essere legittimo a condizione che venga autorizzato preventivamente e specificatamente dall’assemblea dei soci, ai sensi dell’art. 2479 comma 4 c.c. Tale norma consente infatti a ciascun amministratore di rimettere la decisione circa il compimento di un determinato atto all’assemblea.
Tuttavia, l’autorizzazione a concludere un contratto con sé stesso è idonea ad escludere la possibilità di un conflitto di interessi, e quindi l’annullabilità del contratto, solo qualora sia accompagnata dalla puntuale determinazione degli elementi negoziali, e non sia generica.
Inoltre, affinché i soci – investiti della decisione su una determinata operazione da parte dell’amministratore – non incorrano in responsabilità illimitata e solidale con l’amministratore ai sensi dell’art. 2476 comma 7 c.c., occorre l’autorizzazione richiesta sia specifica (cioè riferita ad un determinato atto da stipulare) e non intenzionale, in quanto ai soci non deve essere chiesto di esercitare un potere gestorio o decisorio, bensì solo di valutare se nel singolo caso risulti pregiudicato l’interesse della società.
Nel caso dell’amministratore unico di S.r.l. unipersonale che contratti con sé stesso, alla luce di quanto disposto dagli artt. 1394 e 1395 c.c., il contratto non potrà essere autorizzato dall’assemblea dei soci, in quanto l’assemblea è costituita dall’unico socio, che oltre ad essere anche l’amministratore unico è l’altro contraente. In tal caso, quindi, la possibilità di conflitto è esclusa in radice, perché il contenuto del contratto voluto dalla parte acquirente non può essere che lo stesso voluto dalla parte venditrice.
5. La legittimazione all’annullamento del contratto concluso dall’amministratore in conflitto di interessi
L’art. 2475-ter, comma 1, c.c. attribuisce la legittimazione a chiedere l’annullamento del contratto concluso dall’amministratore in conflitto esclusivamente la società, quale titolare dell’interesso oggetto della tutela apprestata, e, quindi, al soggetto rappresentato. La giurisprudenza ha infatti evidenziato che solo rispetto alla società è ricostruibile un conflitto di interessi.
Si deve quindi escludere la legittimazione ad agire in capo al singolo socio, al quale deve, però, riconoscersi legittimazione a proporre l’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore, ai sensi dell’art. 2476 c.c.
La decisione di procedere all’impugnazione può tuttavia essere assunta anche dai soci, qualora sia previsto dallo statuto o allorché essi si avvalgano del potere gestorio a loro favore riconosciuto dall’art. 2479, primo comma, c.c. il quale prevede che i soci possano decidere sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale sottopongano alla loro approvazione. La legittimazione dei soci consente di ovviare all’inerzia dell’organo amministrativo, soprattutto in presenza di amministratore unico in conflitto di interessi.
Inoltre, l’atto costitutivo può attribuire la legittimazione ad impugnare l’atto compiuto in conflitto di interessi anche al singolo socio, quale particolare diritto inerente all’amministrazione ai sensi dell’art. 2468, terzo comma, c.c.
La legittimazione attiva della società crea particolari problemi qualora il modello gestorio scelto dalla società sia l’amministratore unico (e questi sia ancora in carica) ovvero qualora, in caso di amministrazione pluripersonale, l’amministratore in confitto possa influire anche sulla decisione di intraprendere l’azione di annullamento.
In tali casi, l’eventuale inerzia dell’organo amministrativo può dare luogo ai rimedi endosocietari come la revoca dell’amministratore da parte dell’assemblea ovvero la revoca della delega da parte del consiglio di amministrazione ovvero ancora l’assunzione, da parte dell’assemblea ai sensi dell’art. 2479 c.c., della decisione di impugnare il contratto.
Nell’ambito del giudizio instaurato, la società dovrà provare che l’amministratore, in relazione alla determinata operazione di cui si discute, fosse portatore di un interesse la cui realizzazione era incompatibile con l’interesse della società e, quindi, potenzialmente dannoso e, successivamente, che il terzo conoscesse o avrebbe potuto conoscere, con l’ordinaria diligenza, il conflitto al momento della conclusione del contratto.
Con riferimento al termine per l’esercizio dell’azione di annullamento, in assenza di previsioni contenute nel comma 1 dell’art. 2475-ter c.c. si ritiene che, in applicazione analogica dell’art. 1394 c.c., il contratto concluso in violazione del comma 1 dell’art. 2475-ter c.c. è soggetto al termine di prescrizione quinquennale, con decorrenza dalla conclusione dell’accordo. Tale lungo termine si giustifica alla luce della difficoltà, per soggetti terzi esterni alla società, di valutare la sussistenza dei presupposti dell’impugnazione.
6. L’impugnazione delle delibere del consiglio di amministrazione in conflitto di interessi
L’art. 2475-ter comma 2 c.c. prevede l’invalidità delle decisioni adottate dall’organo di amministrazione della S.r.l assunte in conflitto di interessi. Le decisioni consiliari assunte con il voto determinante dell’amministratore interessato possono essere impugnate entro 3 mesi dalla decisione; tale breve termine si giustifica in quanto una protratta instabilità della decisione dell’organo di amministrazione potrebbe risultare maggiormente pregiudizievole dell’attività sociale e della certezza dei traffici giuridici.
La norma in esame si ritiene applicabile anche qualora siano adottate nella S.r.l., ai sensi dell’art. 2475 c.c., un’amministrazione disgiuntiva o un’amministrazione congiuntiva, e dunque non si sia in presenza di un consiglio di amministrazione, né di un procedimento collegiale che richieda l’espressione di un voto in senso tecnico.
Qualora invece la S.r.l. sia amministrata da un unico amministratore, trova applicazione la norma di cui all’art. 2475-ter, comma 1, c.c.
Nel caso in cui la S.r.l. abbia adottato una amministrazione congiuntiva, essendo necessaria l’unanimità degli amministratori ai fini dell’assunzione della decisione, ogni amministratore dispone di un vero e proprio potere di veto; ne consegue che, in presenza di un amministratore in conflitto di interessi, le decisioni di gestione nella S.r.l. sono sempre caratterizzate da una certa instabilità in quanto, ricorrendo i presupposti previsti dal comma 2 dell’art. 2475-ter c.c., esse sono in ogni caso soggette ad impugnazione.
Il secondo comma dell’art. 2475-ter, c.c. trova applicazione anche nel caso in cui lo statuto devolva alla competenza dei soci determinate decisioni amministrative (artt. 2475, 2468, e 2479 c.c.), nel qual caso può assumere rilevanza anche il conflitto di interessi dei soci in relazione alle decisioni rispetto alle quali gli stessi abbiano competenza.
7. Gli obblighi degli amministratori di informazione, motivazione e astensione
A differenza del regime previgente alla riforma del diritto societario, e della attuale disciplina dettata per le S.p.A. per la S.r.l. non è prevista una disciplina generale avente ad oggetto obblighi, gravanti sugli amministratori in conflitto, di informazione preventiva, motivazione o astensione.
Tuttavia, si ritiene che alcuni di tali obblighi gravino anche sugli amministratori di S.r.l. In particolare, si ritiene sussistente il dovere di trasparenza, che si sostanzia in un dovere che impone all’amministratore di comunicare la situazione di conflitto ai soci ovvero agli altri amministratori, in modo da consentire di valutare l’impatto di tale situazione sulla decisione e l’opportunità di una determinata operazione.
Non è invece configurabile nelle Srl né un obbligo di astensione né un obbligo di motivazione, in quanto incompatibili con la semplificazione dei processi decisionali di tale società.
Indipendentemente dalla configurabilità di specifici obblighi di comunicazione o di astensione, la violazione del divieto di agire in conflitto di interessi è fonte di responsabilità e giusta causa di revoca dell’amministratore.
In altre parole, l’inadempimento degli obblighi di disclosure derivante dall’obbligo di diligente gestione dell’amministratore, se non può inficiare la validità del procedimento deliberativo consiliare, può rilevare in termini di responsabilità dell’amministratore per l’eventuale danno che sia potuto derivare alla società dalla sua omissione.
In questo senso, in giurisprudenza si è affermato che gli obblighi di diligenza e correttezza, che gravano sugli amministratori di s.r.l., fanno sì che, in determinati casi, anche l’amministratore di s.r.l. in conflitto deve, per concludere l’operazione, ottenere una deliberazione del C.d.A.
È comunque possibile ed anzi opportuno che l’atto costitutivo disciplini appositamente le ipotesi di conflitto di interessi, stabilendo, ad esempio:
- obblighi di informazione, astensione e motivazione a carico degli amministratori;
- la devoluzione all’organo amministrativo collegiale o alla collettività dei soci ai soci ai sensi dell’art. 2479, comma 1 c.c., delle decisioni che uno dei membri di tale organo sarebbe abilitato ad adottare singolarmente (perché, per esempio, egli sia un amministratore “delegato” o un amministratore “disgiuntivo”) e sulle quali egli, tuttavia, si trovi in conflitto d’interessi;
- l’estensione della disciplina del conflitto di interessi ad ogni ipotesi di amministratore titolare di interessi, in applicazione delle regole dettate per la S.p.a.
Inoltre, l’art. 2479, comma 1, c.c. prevede la possibilità che gli amministratori, o tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale, sottopongano un argomento alla decisione dei soci; si tratta di un ulteriore strumento utilizzabile per prevenire il compimento di atti in conflitto di interessi da parte dell’organo di gestione o per approvare determinate operazioni nelle quali uno o più amministratori risulterebbero in conflitto di interessi, evitando il rischio di impugnazione della decisione e circoscrivendo le possibili conseguenze negative in capo ai componenti l’organo di gestione.
8. I requisiti per l’annullamento delle delibere del consiglio di amministrazione in conflitto di interessi
Il secondo comma dell’art. 2475-ter c.c. richiede ai fini dell’impugnazione e dell’annullamento della decisione i seguenti presupposti:
- l’esistenza di una situazione di conflitto di interessi dell’amministratore;
- il ruolo determinante del voto dell’amministratore in conflitto di interessi al fine del raggiungimento dei quorum richiesti per l’adozione delle deliberazioni o delle decisioni (c.d. prova di resistenza);
- il prodursi, quale conseguenza della decisione, di un danno al patrimonio della società.
Il primo presupposto che permette l’impugnazione delle decisioni del consiglio di amministrazione ai sensi del secondo comma dell’art. 2475-ter, c.c. consiste nella presenza di un conflitto di interessi in capo ad un amministratore.
La decisione può inoltre essere impugnata solo se il voto dell’amministratore in conflitto è stato determinante per il raggiungimento del quorum richiesto per l’adozione di quella decisione (c.d. prova di resistenza).
Infine, le decisioni possano essere impugnate soltanto quando producano “un danno patrimoniale”. Rientra in tale concetto non solo il danno al patrimonio della società, rilevando anche l’interesse alla reddittività della gestione sociale, sia esso attuale – cioè verificatosi al momento dell’impugnazione o dell’annullamento della decisione – o solo potenziale.
9. La legittimazione all’impugnazione delle delibere del consiglio di amministrazione
Legittimati ad impugnare le decisioni di cui al secondo comma dell’art. 2475-ter c.c. sono i singoli componenti del consiglio di amministrazione.
La scelta se impugnare o meno è rimessa alla discrezionalità degli amministratori e degli organi di controllo. In realtà si ritiene che i poteri di questi soggetti vadano esercitati per la realizzazione dell’interesse sociale (amministratori) o per garantire la legalità dell’azione sociale (organi di controllo) e quindi si tratta di poteri-doveri. La discrezionalità nell’esercizio dell’impugnazione della decisione viziata da conflitto di interessi è meramente tecnica, anche se i margini di sindacabilità sull’uso della stessa sono ristretti, in applicazione della c.d. business judgment rule.
Sono legittimati all’impugnazione, inoltre, sindaci e/o revisori, qualora siano presenti. L’art. 2475-ter, co. 2, c.c. non prevede invece espressamente la legittimazione ad impugnare da parte dei soci. In materia la giurisprudenza appare divisa. Alcune sentenze non consentono l’impugnazione da parte dei soci di S.r.l., altre invece, sono orientate in senso positivo, in analogia con l’art. 2388, co. 4, c.c.
10. La salvezza dei diritti acquisiti in buona fede dai terzi
In caso di accoglimento dell’impugnazione, sono fatti salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della decisione.
Il termine “diritti” utilizzato nella disposizione in commento va inteso in senso lato, come attinente cioè a tutte le possibili posizioni giuridiche di vantaggio scaturenti dall’operazione, siano esse acquistate a titolo oneroso o gratuito.
Per quanto riguarda invece l’individuazione dei soggetti terzi della norma in commento, non può escludersi dalla qualifica di terzo, eventualmente tutelato dalla clausola di buona fede, il socio e, in casi particolari, un membro degli organi di amministrazione o controllo (ovviamente diverso dall’amministratore in conflitto di interessi).
I diritti dei terzi sono fatti salvi purché questi siano in buona fede, cioè abbiano ignorato l’esistenza del conflitto di interessi, sempre che l’ignoranza non sia dovuta a colpa grave. Si ritiene che l’onere probatorio dello stato soggettivo di buona fede del terzo ricada su quest’ultimo.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in diritto Societario
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