I pagamenti nei contratti commerciali tra imprese (B2B)
I termini di pagamento nei rapporti tra imprese (B2B) sono disciplinati, oltre che dall’autonomia privata, dal D.lgs. n. 231/2002, che ha introdotto nel nostro ordinamento norme che derogano alla tradizionale disciplina del Codice civile, con la finalità di contrastare il fenomeno dei ritardati pagamenti e conseguentemente di eliminare le distorsioni alla concorrenza causati dall’imposizione da parte delle grandi imprese e della P.A. di termini di pagamento eccessivamente dilazionati. In particolare, il Decreto prevede termini di pagamento massimi e un interesse di mora particolarmente elevato, che scatta senza necessità di costituzione in mora del debitore, oltre al rimborso dei costi sostenuti per il recupero del credito. La disciplina del Decreto 231 è di natura dispositiva, e quindi può essere derogata dalle parti, con alcuni limiti, tra i quali quello generale della grave iniquità in danno del creditore.
1. Il Decreto n.231/2002 sui termini di pagamento nei contratti commerciali
Generalmente, i contratti commerciali tra imprese (B2B) disciplinano espressamente al loro interno i termini di pagamento del corrispettivo; ad esempio, è frequente imbattersi in contratti nei quali si prevede un termine di pagamento a trenta o sessanta giorni data fattura, o fffm (fine fattura fine mese), e così via.
Ma le parti sono totalmente libere di stabilire a loro piacimento qualunque termine di pagamento o sono invece soggette a dei limiti derivanti dal rispetto di norme di legge?
E qual è la disciplina che si applica nel caso in cui non siano i previsti i termini di pagamento nel contratto?
Per rispondere a queste domande, occorre esaminare brevemente la principale normativa sui termini di pagamento nei contratti commerciali, ovvero il D.lgs. n. 231/2002 («Decreto 231»).
Il Decreto 231, emanato in attuazione della Direttiva 2000/35/Ce, successivamente modificato dal D.lgs. n. 192/2012, ha introdotto nel nostro ordinamento numerose norme che derogano alla tradizionale disciplina del Codice civile, con la finalità di contrastare il fenomeno dei ritardati pagamenti e conseguentemente di eliminare le distorsioni e gli ostacoli della concorrenza, causati dalla imposizione da parte delle grandi imprese e della P.A. di termini di pagamento eccessivamente dilazionati.
In questo senso, la finalità del Decreto 231 è essenzialmente quella di tutelare, nell’attuale congiuntura economico-finanziaria, le imprese, e in particolare quelle di dimensioni medio-piccole (PMI), le quali costituiscono, come è noto, l’ossatura del sistema produttivo nazionale ma, essendo dotate di minore capacità finanziaria e di minore possibilità di accesso, al credito, sono incise in misura molto rilevante dal fenomeno dei ritardati pagamenti, in special modo nei rapporti con la P.A.
Il Decreto 231 ha un ambito applicativo molto vasto: esso si applica infatti a tutti i pagamenti a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale, ovvero nell’ambito di contratti – tra imprese (B2B) o tra imprese e P.A. (B2P) – che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo.
Dunque, il Decreto 231 si applica alle obbligazioni pecuniarie che hanno fonte in qualunque contratto commerciale, come ad esempio la compravendita, l’appalto, la somministrazione, il contratto d’opera, la mediazione, il trasporto, il deposito, la commissione, la spedizione, l’agenzia, etc.
Restano invece esclusi dall’ambito applicativo del Decreto 231 tutti i pagamenti relativi a contratti di credito, come il contratto di mutuo, di apertura di credito, di sconto, di factoring, e i contratti di garanzia, come la fidejussione. Sono altresì esclusi i contratti di utilizzazione di beni dietro corrispettivo in denaro, come la locazione, l’affitto e il leasing.
Sono inoltre espressamente esclusi dall’ambito applicativo del Decreto 231:
- i debiti oggetto di procedure concorsuali, comprese le procedure finalizzate alla ristrutturazione del debito;
- i pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno, compresi i pagamenti effettuati a tale titolo da un assicuratore.
Sotto il profilo soggettivo, il Decreto 231 si applica solo ai contratti:
- tra imprese (B2B);
- tra imprese e P.A. (B2P).
Il Decreto 231 non si applica, invece, ai pagamenti dovuti sulla base di contratti dei quali sia parte un consumatore, né a quelli dovuti in base a contratti stipulati tra soggetti pubblici.
Ai sensi dell’art. 11 del Decreto 231, sono salve le vigenti disposizioni del Codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore. Di conseguenza, la normativa sulle transazioni commerciali di cui al Decreto 231 non si applica ai seguenti rapporti, che prevedono una disciplina sui termini di pagamento più favorevole al creditore:
- contratti di subfornitura (art. 3 L. n. 192/1998);
- contratti di trasporto (art. 83-bis L. n. 133/2008);
- contratti di cessione di prodotti agro-alimentari, (art. 62 L. n. 27/2012).
L’art. 4 comma 2 del Decreto 231 prevede che nelle transazioni commerciali tra imprese (B2B) il pagamento del corrispettivo è dovuto decorsi trenta giorni dalle seguenti date:
- la data di ricevimento, da parte del debitore, della fattura o di una richiesta equivalente di pagamento;
- la data di consegna della merce o la prestazione del servizio, qualora la data di ricevimento della fattura o quella della richiesta equivalente di pagamento non siano certe, oppure la data la consegna della merce o la prestazione del servizio sia successiva a quella di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento da parte del debitore;
- la data di accettazione o verifica della conformità della merce o del servizio alle previsioni contrattuali, se previsti dalla legge o dal contratto, sempre che la fattura o la richiesta equivalente di pagamento sia pervenuta al debitore in data anteriore. A tal proposito, si prevede che la procedura di accettazione o verifica non può avere una durata superiore a 30 gg. dalla data della consegna della merce o della prestazione del servizio, salvo deroga delle parti (che nel caso di transazioni tra imprese e P.A. deve essere prevista nel bando di gara), e in ogni caso non può essere superiore a 60 giorni.
Non hanno effetto sulla decorrenza dei termini cui sopra le richieste di integrazione o modifica formali della fattura o di altra richiesta equivalente di pagamento.
Dunque – rispondendo al secondo quesito che abbiamo posto all’inizio – nel caso in cui le parti di un contratto commerciale B2B non abbiano previsto nel contratto i termini di pagamento del corrispettivo, si applicano automaticamente i termini di pagamento previsti nel Decreto 231, sopra indicati.
2. I termini di pagamento nelle transazioni tra imprese e P.A. (B2P)
Con riferimento alle transazioni commerciali tra imprese e P.A. (B2P) – nelle quali quest’ultima sia parte debitrice, il Decreto 231 – così come modificato dal Decreto 192 – prevede termini di pagamento identici a quelli delle transazioni B2B; il termine di pagamento è peraltro automaticamente elevato a 60 giorni per:
- gli enti che forniscono assistenza sanitaria (ASL, aziende ospedaliere e Policlinici);
- le “imprese pubbliche” tenute al rispetto dei requisiti di trasparenza nelle relazioni finanziarie con la P.A. previsti dal D.lgs. n. 333/2003.
Tuttavia, a differenza di quanto previsto per i rapporti B2B, i termini di pagamento per i rapporti B2P sono parzialmente inderogabili.
La natura imperativa, anziché dispositiva, della disciplina sui termini di pagamento relativi alle transazioni tra imprese e P.A. deriva essenzialmente dall’esigenza di apprestare maggiore tutela alle imprese, che scontano un deficit di potere contrattuale ed economico nei confronti del soggetto pubblico, e che sono quindi soggette alla generalizzata stipula di accordi anche pesantemente derogatori a quelli previsti dal Decreto 231.
È ben nota, a tal proposito, la prassi, ampiamente diffusa tra le amministrazioni appaltanti, di introdurre nella lex specialis di gara clausole che prevedevano termini di pagamento maggiori di quelli legali previsti dal Decreto 231, quale condizione di partecipazione alla gara, oppure criteri di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa premianti per i concorrenti, i quali proponessero condizioni di pagamento più favorevoli per la P.A. rispetto a quelli previsti dal Decreto 231. Tale prassi aveva dato luogo ad un ampio dibattito giurisprudenziale, avente ad oggetto la legittimità degli accordi in deroga alla disciplina legale sui termini di pagamento o gli interessi di mora previsti nelle gare d’appalto; dibattito che è stato superato dalle nuove disposizioni, inderogabili, del Decreto 231.
La giurisprudenza esclude infatti la possibilità della P.A. di derogare nei bandi di gara alla disciplina del Decreto 231, ritenendo, conseguentemente, configurabile, la violazione degli artt. 4 e 5 del Decreto 231 quale vizio di legittimità della lex specialis di gara, nella parte relativa alla diversa indicazione dei termini di pagamento della fornitura e del relativo saggio di interessi (v. Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 469 del 2 febbraio 2010).
L’art. 4, comma 4 del Decreto 231 prevede che, relativamente alle transazioni tra imprese e P.A., gli accordi derogatori ai termini legali di pagamento di cui all’art. 4 comma 2 del Decreto 231 (in termini peggiorativi per il creditore), oltre a dover essere pattuiti espressamente e provati per iscritto:
- devono essere giustificati “dalla natura o dall’oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione” (cioè al momento della conclusione dell’accordo stesso);
- in ogni caso, non possono eccedere il limite di sessanta giorni(dalla scadenza delle date descritte al comma 2 dell’art. 4).
Il presupposto di validità degli accordi sui termini di pagamento in deroga a quelli legali è articolato in modo piuttosto generico. Il riferimento alla natura e all’oggetto del contratto (tra impresa e P.A.) allude alle situazioni nelle quali un differimento del termine di pagamento sia giustificato da ragioni riconducibili all’organizzazione amministrativa e all’attività gestionale della P.A. e alla complessità tecnica delle prestazioni oggetto del contratto, mentre il riferimento alle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’accordo riguarda i particolari fattori giuridici che possono condizionare il pagamento, imponendone una posticipazione (si pensi ad esempio al caso in cui il pagamento del corrispettivo di un appalto dipenda dall’erogazione di un mutuo, o ai tempi necessari ad espletare le procedure di verifica imposte dalla legge prima di procedere ai pagamenti- con riferimento ad esempio al DURC o, ancora, alla necessità di ottemperare al patto interno di stabilità).
In ogni caso, la (limitata) facoltà di deroga prevista dal Decreto 231 impone un onere di motivazione in capo alla P.A., la quale, nell’ambito delle clausole derogatorie contenute nei vari atti rilevanti (regolamenti, circolari, capitolati d’appalto) non può limitarsi ad una motivazione astratta e generica ma deve individuare con esattezza le ragioni ed esigenze oggettive in base alle quali ritenga di derogare ai termini legali di pagamento.
Qualora non sussistano i presupposti di cui sopra per la deroga pattizia – in esito, verosimilmente, ad un accertamento da parte dell’autorità giudicante – la relativa clausola è nulla, con conseguente sostituzione della previsione pattizia con i termini legali, ai sensi dell’art. 1419, commi 1 e 2 c.c., e con salvezza delle rimanenti clausole contrattuali.
Relativamente alla procedura di accettazione o verifica, il Decreto 231 prevede che tale procedura non possa avere una durata superiore a trenta 30 giorni dalla data della consegna della merce o della prestazione del servizio, salvo deroga delle parti. Tale deroga non potrà comunque essere superiore, anche in questo caso, a sessanta giorni, dovrà avvenire nel rispetto dei limiti già visti per i rapporti tra imprese (ovvero la grave iniquità dell’accordo ai sensi dell’art. 7 del Decreto 231 – v. par. 4 – l’accordo espresso e la forma ad probationem) e dovrà essere prevista nella documentazione di gara. Qualora tale attività non sia conclusa entro il termine massimo ora menzionato, il soggetto privato ha diritto agli interessi di mora, ai sensi dell’art. 5 del Decreto 231, a prescindere dall’avvenuta definizione della fase di verifica da parte della P.A.
3. La derogabilità dei termini di pagamento previsti dal Decreto 231
Ma – venendo al primo quesito che abbiamo posto all’inizio – cosa accade se le parti di un contratto commerciale hanno previsto dei termini di pagamento diversi da quelli previsti dal Decreto 231?
In particolare: essendo certamente lecito qualsiasi accordo che preveda un termine di pagamento inferiore a quello previsto dal Decreto 231, è lecito anche pattuire un termine di pagamento superiore a quello previsto dal Decreto 231?
In linea generale, la disciplina del Decreto 231 è di carattere dispositivo; le parti possono quindi derogare ad essa, stabilendo termini di pagamento diversi (e quindi superiori) a quelli previsti nel Decreto 231.
Vi sono tuttavia tre limiti alla facoltà di deroga delle parti. I primi due limiti sono di tipo formale, in quanto:
- qualora il termine di pagamento previsto nel contratto sia superiore a trenta giorni dalle date previste dal Decreto 231, sopra descritte, ma inferiore a sessanta giorni, l’accordo in deroga deve essere provato per iscritto;
- qualora il termine di pagamento previsto nel contratto sia superiore a sessanta giorni dalle date previste dal Decreto 231, sopra descritte, l’accordo in deroga, oltre che essere munito di forma scritta ad probationem – deve essere “espresso”, cioè non può essere concluso tacitamente, anche se deve non necessariamente rivestire la forma scritta.
Il terzo limite, più importante, è invece di tipo sostanziale: l’accordo in deroga alle previsioni del Decreto 231 non può essere gravemente iniquo in danno al creditore. Qualora tale accordo in deroga dovesse essere gravemente iniquo in danno al creditore, esso è nullo e si applicano automaticamente i termini previsti dal Decreto 231, sopra descritti.
Ma cosa si intende per accordo sui tempi di pagamento “gravemente iniquo in danno del creditore”?
L’art. 7 del Decreto 231 pone un limite all’autonomia contrattuale, per evitare che quest’ultima sia finalizzata a far ottenere ad una delle parti – nella specie, il debitore – vantaggi ingiustificati, suscettibili di turbare gli scambi commerciali; in tale ottica, la norma vieta appunto gli accordi gravemente iniqui in danno del creditore.
La nozione di “grave iniquità” si caratterizza, peraltro, per una estrema elasticità ed indeterminatezza, configurandosi come una clausola generale che deve essere di volta in volta valutata.
L’art. 7 comma 2 del Decreto 231 stabilisce che, ai fini della valutazione della “grave iniquità” dell’accordo sui termini di pagamento, si devono considerare “tutte le circostanze del caso, tra cui il grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura della merce o del servizio oggetto del contratto”.
Il legislatore ha così indicato due parametri, indicativi ed esemplificativi, di valutazione della “grave iniquità” dei termini di pagamento, il cui accertamento deve essere effettuato caso per caso, ovvero:
- un importante scostamento rispetto alla prassi commerciale del settore, contrario ai principi generali di buona fede e correttezza;
- le caratteristiche della merce o del servizio oggetto del contratto.
Per quanto concerne i termini di pagamento, dunque, se le parti hanno previsto termini superiori a quelli previsti dal Decreto 231, tali termini potrebbero essere considerati gravemente iniqui – con la conseguenza che si applicherebbero i termini previsti dal Decreto 231, nonostante la diversa pattuizione – se, alla luce di un’analisi da condurre nel caso concreto, vi sia una notevole differenza tra i tempi di pagamento pattuiti e quelli usuali nella prassi commerciale del settore, tale da contrastare con i principi di buona fede e correttezza, e/o i tempi di pagamento pattuiti non siano giustificati dalla natura del prodotto o del servizio oggetto del contratto.
Tali parametri devono essere considerati alla luce del complessivo rapporto tra le parti; in particolare, occorre accertare se i termini di pagamento maggiori rispetto a quelli previsti dal Decreto 231 possano considerarsi in qualche modo bilanciati (e dunque non considerati gravemente iniqui) da una maggiorazione del corrispettivo, o da altri vantaggi per il creditore.
In concreto:
- qualora nel contratto sia previsto un termine di pagamento superiore a 30 giorni – ma inferiore a 60 giorni – dalla data della fattura o dalla data di consegna della merce o la prestazione del servizio, probabilmente tale clausola è lecita, in quanto difficilmente potrà essere considerata gravemente iniqua;
- qualora nel contratto sia previsto un termine di pagamento superiore a 60 giorni dalla data della fattura o dalla data di consegna della merce o la prestazione del servizio, vi è un rischio che tale clausola sia illecita, in quanto gravemente iniqua, con conseguente applicazione automatica del termine di 30 giorni previsti dal Decreto 231. Tale rischio dovrà essere valutato in base ad un’analisi caso per caso – alla luce della prassi commerciale del settore e dell’analisi del complessivo rapporto contrattuale – ed aumenta all’aumentare dei tempi di pagamento che siano stati previsti nel contratto.
4. Il tasso di interesse di mora nei contratti commerciali tra imprese (B2B)
L’art. 5 del Decreto 231 prevede che in caso di ritardo nei pagamenti (derivanti da una transazione commerciale) il debitore deve corrispondere interessi di mora ad un tasso diverso – e considerevolmente più alto – rispetto a quello previsto in generale dall’art. 1284 c.c.
Si tratta di uno dei principali strumenti attraverso i quali il legislatore nazionale e, prima ancora, il legislatore comunitario, cercano di frenare il fenomeno dei ritardi nel pagamento del corrispettivo e, più in generale, di disincentivare il ritardo nell’adempimento da parte del debitore.
L’art. 5, comma 1 del Decreto 231 stabilisce il debitore in mora nel pagamento del corrispettivo deve corrispondere al creditore interessi legali al tasso pari a quello del principale strumento di finanziamento della Banca centrale europea, applicato alla sue più recenti operazioni di rifinanziamento principale, maggiorato di otto punti percentuali. Il saggio di interesse legale sopra individuato, al netto della maggiorazione dei sette punti percentuali, viene comunicato dal Ministero dell’economia e delle finanze e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale nel quinto giorno lavorativo di ciascun semestre.
Si tratta dunque di un tasso notevolmente elevato. Il tasso d’interesse per le transazioni commerciali ai sensi del Decreto 231 attualmente vigente, valevole per il semestre 1° luglio – 31 dicembre 2024, è pari al 12,25%, contro il tasso legale del 2,50% attualmente vigente ai sensi dell’art. 1284 c.c. (dunque quasi di quasi 10 punti maggiore).
Di seguito una tabella riepilogativa dei tassi di interesse nelle transazioni commerciali ai sensi del Decreto 231, vigente dal 2002 ad oggi:
Periodo | Tasso | G.U.R.I. |
08.08.2002 – 31.12.2002 | 10,35% | n. 33 del 10.02.2003 |
01.01.2003 – 30.06.2003 | 9.85% | n. 33 del 10.02.2003 |
01.07.2003 – 31.12.2003 | 9,10% | n. 160 del 12.07.2003 |
01.01.2004 – 30.06.2004 | 9,02% | n. 11 del 15.01.2004 |
01.07.2004 – 31.12.2004 | 9,01% | n. 159 dello 09.07.2004 |
01.01.2005 – 30.06.2005 | 9,09% | n. 5 dello 08.01.2005 |
01.07.2005 – 31.12.2005 | 9.05% | n. 175 del 29.07.2005 |
01.01.2006 – 30.06.2006 | 9,25% | n. 10 del 13.01.2006 |
01.07.2006 – 31.12.2006 | 9,83% | n. 158 del 10.07.2006 |
01.01.2007 – 30.06.2007 | 10,58% | n. 29 dello 05.02.2007 |
01.07.2007 – 31.12.2007 | 11,07% | n. 175 del 30.07.2007 |
01.01.2008 – 30.06.2008 | 11,20% | n. 35 dell’11.02.2008 |
01.07.2008 – 31.12.2008 | 11,10% | n. 169 del 21.07.2008 |
01.01.2009 – 30.06.2009 | 9,50% | n. 26 dello 02.02.2009 |
01.07.2009 – 31.12.2009 | 8,00% | n. 199 del 28.08.2009 |
01.01.2010 – 30.06.2010 | 8,00% | n. 40 del 18.02.2010 |
01.07.2010 – 31.12.2010 | 8,00% | n. 190 del 16.08.2010 |
01.01.2011 – 30.06.2011 | 8,00% | n. 31 dello 08.02.2011 |
01.07.2011 – 31.12.2011 | 8,25% | n. 165 del 18.07.2011 |
01.01.2012 – 30.06.2012 | 8,00% | n. 22 del 27.01.2012 |
01.07.2012 – 31.12.2012 | 8,00% | n. 162 del 13.07.2012 |
01.01.2013 – 30.06.2013 | 8,75% | n. 14 del 17.01.2013 |
01.07.2013 – 31.12.2013 | 8,50% | n. 166 del 17.07.2013 |
01.01.2014 – 30.06.2014 | 8,25% | n. 51 del 03.03.2014 |
01.07.2014 – 31.12.2014 | 8,15% | n. 167 del 21.07.2014 |
01.01.2015 – 30.06.2015 | 8,05% | n. 12 del 10.01.2015 |
01.07.2015 – 31.12.2015 | 8,05% | n. 168 del 22.07.2015 |
01.01.2016 – 30.06.2016 | 8,05% | n. 19 del 25.01.2016 |
01.07.2016 – 31.12.2016 | 8,00% | n. 178 dello 01.08.2016 |
01.01.2017 – 30.06.2017 | 8,00% | n. 18 del 23.01.2017 |
01.07.2017 – 31.12.2017 | 8,00% | n. 171 del 24.07.2017 |
01.01.2018 – 30.06.2018 | 8,00% | n. 17 del 22.01.2018 |
01.07.2018 – 31.12.2018 | 8,00% | n. 158 del 10.07.2018 |
01.01.2019 – 30.06.2019 | 8,00% | n. 18 del 22.01.2019 |
01.07.2019 – 31.12.2019 | 8,00% | n. 183 dello 06.08.2019 |
01.01.2020 – 30.06.2020 | 8,00% | n. 36 del 16.02.2020 |
01.07.2020 – 31.12.2020 | 8,00% | n. 191 del 31.07.2020 |
01.01.2021 – 30.06.2021 | 8,00% | n. 29 dello 04.02.2021 |
01.07.2021 – 31.12.2021 | 8,00% | n. 166 del 13.07.2021 |
01.01.2022 – 30.06.2022 | 8,00% | n. 20 dello 26.01.2022 |
Per i contratti aventi ad oggetto la cessione di prodotti alimentari deteriorabili, il tasso d’interesse moratorio è stabilito in misura ancora maggiore: l’art. 4, comma 3, del Decreto 231 prevede infatti, in tal caso, che, parallelamente al maggiore termine per il pagamento del corrispettivo rispetto a quello previsto in via generale (sessanta giorni, anziché trenta, dalla consegna o dal ritiro), il tasso degli interessi moratori è maggiorato di ulteriori due punti percentuali, e inoltre – a differenza, come si vedrà, di quest’ultimo – è inderogabile.
Il comma 7 del Decreto 231 prevede inoltre che, qualora le parti si accordino per un pagamento del corrispettivo rateale, in caso di mancato pagamento di una delle rate alla data concordata, gli interessi moratori sono calcolati esclusivamente sulla base degli importi scaduti. La norma mira ad evitare che sul debitore gravi un obbligo risarcitorio eccessivo, date le rilevanti conseguenze sanzionatorie collegate al ritardo nell’adempimento, costituite dal tasso di interesse moratorio stabilito in misura particolarmente elevata e dal risarcimento dei costi di recupero del credito (v. par. 7).
Il mancato pagamento di una rata del corrispettivo non si riflette quindi – al di fuori dell’ipotesi della decadenza dal beneficio del termine, ex art. 1186 c.c. – sulle rate successive non ancora scadute; pertanto, il creditore – il quale chieda l’esecuzione del contratto, ovvero il pagamento della rata scaduta – non ha diritto di ricevere gli interessi di mora su un credito in linea capitale che non è ancora esigibile.
5. La decorrenza degli interessi moratori nei contratti commerciali tra imprese (B2B)
L’art. 4 del Decreto 231 stabilisce che gli interessi di mora decorrono automaticamente, senza la necessità di costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine per l’adempimento previsto dalle parti.
Qualora le parti non abbiano stabilito, nel contratto, un termine per l’adempimento, gli interessi decorrono automaticamente decorsi trenta giorni da una delle seguenti quattro date (alternative):
- il ricevimento, da parte del debitore, della fattura o di una richiesta equivalente di pagamento;
- la consegna della merce o dalla prestazione dei servizi, qualora la data di ricevimento della fattura o quella della richiesta equivalente di pagamento non siano certe, o qualora le stesse siano sia anteriori a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi;
- l’accettazione o verifica della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, se previsti dalla legge o dal contratto, sempre che la fattura o la richiesta equivalente di pagamento sia pervenuta al debitore in data anteriore.
Per i prodotti alimentari deteriorabili, gli interessi decorrono dal termine (superiore) di sessanta giorni dalla consegna o dal ritiro di tali prodotti.
Presupposto essenziale per il nascere dell’obbligo, in capo al debitore, di corrispondere gli interessi di mora è, dunque, il ricevimento da parte del debitore stesso di una fattura, o di una richiesta di pagamento equivalente alla prima, proveniente dal creditore. In caso di inerzia di quest’ultimo, il quale non provveda ad inviare al debitore uno dei menzionati documenti, non vi sarà pertanto obbligo per il debitore di corrispondere gli interessi in caso di ritardo nel pagamento, neppure qualora a quest’ultimo sia stata già consegnata la merce o prestati i servizi oggetto del contratto.
Il creditore è tenuto non soltanto ad inviare la fattura o la richiesta equivalente di pagamento al debitore, ma altresì ad inviare tali documenti con una modalità tale che risulti la data di ricevimento degli stessi da parte del destinatario (a prescindere dal fatto che essa sia certa, ai sensi dell’art. 2704 c.c.); infatti, qualora non vi fosse traccia della data di ricevimento da parte del debitore (ad esempio, perché la fattura non è stata inviata tramite lettera raccomandata con avviso di ritorno), non potrà scatterà il termine di decorrenza per il pagamento degli interessi.
Vi è quindi un onere di diligenza a carico del creditore, consistente nell’invio al debitore di una fattura o di una richiesta di pagamento equivalente, con modalità idonee a far risultare il ricevimento degli stessi.
Il comma 7 del Decreto 231 prevede inoltre che, qualora le parti si accordino per un pagamento del corrispettivo rateale, in caso di mancato pagamento di una delle rate alla data concordata, gli interessi moratori sono calcolati esclusivamente sulla base degli importi scaduti. La norma mira ad evitare che sul debitore gravi un obbligo risarcitorio eccessivo, date le rilevanti conseguenze sanzionatorie collegate al ritardo nell’adempimento, costituite dal tasso di interesse moratorio stabilito in misura particolarmente elevata e dal risarcimento dei costi di recupero del credito.
Il mancato pagamento di una rata del corrispettivo non si riflette quindi – al di fuori dell’ipotesi della decadenza dal beneficio del termine, ex art. 1186 c.c. – sulle rate successive non ancora scadute; pertanto, il creditore – il quale chieda l’esecuzione del contratto, ovvero il pagamento della rata scaduta – non ha diritto di ricevere gli interessi di mora su un credito in linea capitale che non è ancora esigibile.
6. La derogabilità del tasso di interesse di mora nei contratti tra imprese
Nelle transazioni commerciali tra imprese, il tasso d’interesse di mora può essere liberamente fissato dalle parti anche in misura diversa da quella stabilità dall’art. 5 del Decreto 231; infatti in linea di massima la disciplina del Decreto 231 è di tipo dispositivo, e dunque può essere derogata dalle parti nel contratto.
Viceversa, nelle transazioni commerciali tra imprese e P.A. il tasso d’interesse è inderogabile. Pertanto, qualora le parti, nell’ambito di una transazione commerciale tra imprese e P.A., dovessero pertanto convenire un tasso di interesse moratorio inferiore a quello stabilito dall’art. 5 del Decreto 231, tale previsione sarà senz’altro nulla, con conseguente sostituzione del tasso di interessi pattizio con quello legale, secondo il meccanismo di cui all’art. 1419 c.c.
Le parti (in un contratto B2B) possono quindi prevedere un tasso d’interesse moratorio superiore o inferiore a quello legale; tuttavia, anche in questo caso – come per i termini di pagamento – vige il limite generale della grave iniquità di cui abbiamo parlato in precedenza (v. par. 4). La pattuizione sugli interessi di mora non può quindi essere gravemente iniqua in danno del creditore, per evitare che una delle parti – nella specie, il debitore – ottenga vantaggi ingiustificati, suscettibili di turbare gli scambi commerciali.
Se la clausola sul tasso di interessi risulta gravemente iniqua ai danni del creditore, la stessa è nulla; di conseguenza, si applica la disciplina legale del Decreto 231.
Nel caso degli interessi di mora, il legislatore ha indicato un parametro, indicativi ed esemplificativi, di valutazione della “grave iniquità”, il cui accertamento deve essere effettuato caso per caso. L’art. 7 comma 3 del Decreto 231 stabilisce infatti che l’accordo con il quale le parti escludano l’applicazione di interessi di mora in caso di ritardo nell’adempimento da parte del debitore si presume gravemente iniquo in danno del creditore, ed è dunque nullo; tale presunzione è assoluta e non ammette prova contraria.
Dunque, le previsioni contrattuali con le quali oppure venga escluso l’obbligo in capo al debitore di corrispondere interessi in caso di ritardo – come pure la successiva rinuncia agli interessi da parte del creditore – sono senza dubbio gravemente inique, e quindi nulle, con conseguente applicazione del tasso di cui al Decreto 231.
Può altresì essere ritenuta gravemente iniqua la pattuizione con la quale venga stabilito un tasso di interessi di mora inferiore rispetto a quello stabilito dal Decreto 231. In questo caso, tuttavia, occorre effettuare una valutazione caso per caso, alla luce dei parametri indicati dall’art. 7 del Decreto (v. par. 4); in particolare, occorrerà accertare se la previsione di un basso tasso di interesse moratorio possa considerarsi in qualche modo bilanciata da una maggiorazione del corrispettivo, o da altri vantaggi per il creditore.
Utili indici di riferimento a tal proposito possono essere inoltre costituiti, da un lato, dal tasso minimo applicato dalla Banca centrale europea alle operazioni di rifinanziamento principali, di cui all’art. 5 del Decreto 231, e dall’altro dai tassi di mercato, come il “prime rate” rilevato dall’A.B.I., al di sotto dei quali il tasso d’interesse potrebbe risultare troppo squilibrato a vantaggio del debitore, e dunque iniquo.
Si noti, peraltro, che facendo applicazione di tali parametri, ne conseguirebbe che il rinvio pattizio al saggio d’interesse legale stabilito, in generale, dall’art. 1284 c.c., stante la misura dell’attuale saggio d’interesse, sarebbe probabilmente viziato da nullità, essendo inferiore di quasi 10 punti rispetto a quello previsto dal Decreto 231.
Inoltre, potrebbero essere considerati gravemente iniqui, e dunque nulli, anche gli accordi, i quali stabiliscano la decorrenza degli interessi di mora con riferimento a eventi diversi rispetto a quelli previsti dall’art. 4 del Decreto 231, e in particolare prevedano che tali interessi decorrano solo a seguito della richiesta da parte del creditore (anziché automaticamente, come previsto dal Decreto 231).
Tali accordi non possano essere considerati di per sé nulli, non potendo escludersi che, nella fattispecie concreta, possa comunque sussistere un interesse del creditore ad una deroga al principio dell’automatismo della mora. Ciò potrebbe accadere, ad esempio, qualora tra le parti intercorra un elevato numero di transazioni commerciali, anche di ridotto importo – per cui potrebbe essere in ogni caso conveniente per il creditore evitare gli oneri amministrativi e contabili derivanti dall’automatico decorso degli interessi di mora – oppure nel caso di rapporti contrattuali tra società appartenenti ad un medesimo gruppo, ove i vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo siano tali da compensare in qualche modo l’onere conseguente ad un tale accordo.
Un ulteriore limite alle parti relativamente alla fissazione del tasso d’interesse di mora è inoltre costituito dal rispetto della soglia dell’usura, di cui all’art. 2 L. n. 108/1996, che si applica, oltre che agli interessi corrispettivi, anche agli interessi moratori.
7. Il rimborso dei costi di recupero del credito
L’art. 6 del Decreto 231 prevede inoltre che il creditore ha diritto di essere rimborsato dal debitore dei costi sostenuti per il recupero del credito. Pertanto, il creditore, in caso di non tempestivo pagamento da parte del debitore, ha diritto a ricevere da quest’ultimo – senza necessità di un preventivo atto di sollecito o messa in mora – oltre agli interessi moratori al tasso legale di cui all’art. 5 del Decreto 231, anche i costi che ha affrontato per il recupero del credito.
Il comma 2 dell’art. 6 del Decreto 231 stabilisce inoltre un importo forfettario spettante in favore del creditore a titolo di risarcimento dei costi di recupero, pari a Euro 40,00. Tale importo si riferisce ai costi amministrativi interni sopportati dal creditore per il recupero del credito, ovvero, a tutti quei costi, a ciò finalizzati, attinenti all’utilizzo della propria entità organizzativa (tipicamente, l’ufficio legale interno), e che non riguardano l’eventuale incarico a soggetti esterni. Il rimborso di tali costi è dovuto al creditore, senza necessità di dimostrazione.
Il creditore ha altresì diritto di essere risarcito dell’eventuale maggior danno, ovvero dei costi di assistenza per il recupero del credito – cioè nei costi “esterni”, derivanti dall’incarico che il creditore abbia attribuito a studi legali o delle società di recupero crediti – subordinatamente alla dimostrazione del loro effettivo avvenuto esborso da parte del creditore, e della rivalutazione monetaria.
Ai sensi dell’art. 7 comma 4 del Decreto 231, l’accordo con il quale viene escluso il risarcimento dei costi di recupero, di cui all’art. 6 del Decreto 231 si presume gravemente iniquo in danno del creditore, ed è dunque nullo; tale presunzione è tuttavia relativa, e quindi ammette prova contraria.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in E-commerce
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