Coronavirus: causa di forza maggiore o hardship?
L’emergenza coronavirus sta purtroppo avendo un fortissimo impatto sui rapporti contrattuali delle imprese, sia interni che internazionali. I problemi più frequenti che tale situazione sta generando riguardano ritardi o impossibilità di consegnare prodotti o effettuare servizi.
Il tutto è aggravato da un vero e proprio effetto domino: un ritardo infatti può generare a sua volta un altro ritardo e così via. Risulta così interessata sulla l’intera catena di approvvigionamento (cd. supply chain), come è appunto accaduto in Cina, dove, a causa della chiusura di molte fabbriche, porti, aeroporti etc., si è prodotta una paralisi delle forniture sia interne che con l’estero.
Cosa possono fare le imprese in questa situazione, per molti versi inedita?
Occorre distinguere tra diverse ipotesi, a seconda della concreta ricaduta dell’epidemia sull’attività dell’impresa. In primo luogo, se l’epidemia coronavirus ha reso impossibile una determinata prestazione, si rientra nell’ipotesi della forza maggiore (force majeure). Spesso i contratti commerciali – soprattutto con l’estero – contengono una clausola di forza maggiore, nella quale si elencano una serie di eventi che si considerano di forza maggiore (ad esempio catastrofi naturali, quali incendi, terremoti, alluvioni, inondazioni, uragani, etc. o eventi umani di particolare gravità come guerre, atti terroristici, rivolte, scioperi, ordini del governo etc.).
Tali elencazioni non sono comunque mai tassative, bensì solo indicative, servono cioè solo per guidare l’interprete nei casi non espressamente menzionati. Il principio generale – valido in realtà in tutto il mondo – è che si considera di forza maggiore un evento, indipendente dalla volontà umana e ragionevolmente imprevedibile ed inevitabile, che rende impossibile o eccessivamente difficile una determinata prestazione contrattuale. E l‘epidemia da coronavirus che si stà diffondendo in Italia rientra a pieno titolo in questo principio.
La diffusione del coronavirus può causare infatti l’impossibilità della prestazione sia per l’impatto del virus sulla salute, e quindi sulla possibilità dei dipendenti e collaboratori di poter svolgere attività lavorativa, sia per le misure adottate dalle autorità pubbliche per contenere il virus. In particolare, gli ultimi decreti del Governo italiano hanno stabilito una serie di restrizioni sempre più stringenti (impedimento di spostamenti, distanza tra le persone, rallentamento dei trasporti etc.) che di fatto possono rendere impossibile per molte imprese effettuare la propria normale attività e quindi adempiere regolarmente ai propri obblighi contrattuali.
Questo significa che, operando il virus come causa di forza maggiore, il ritardo cui l’impresa vada incontro nella consegna di un prodotto o nell’effettuazione di un servizio non può considerato imputabile all’impresa stessa, e quindi non dà luogo a responsabilità. Quindi, anche se nel contratto fosse stabilita ad esempio una penale in caso di ritardo, la penale non sarà dovuta, finché permane la situazione di forza maggiore.
Occorre tuttavia esaminare attentamente le singole clausole di forza maggiore, in particolare per verificare se sia stato rispettato l’obbligo di diligenza da parte dell’impresa una volta verificatosi l’evento. Spesso infatti tali clausole prevedono che la parte che ha subito l’impedimento deve informare prima possibile, o comunque entro un certo termine dal verificarsi dell’evento, l’altra delle circostanze verificatesi e delle potenziali conseguenze, e deve adottare le misure ragionevolmente possibili per mitigare i pregiudizi dell’evento.
Qualora invece nel contratto non sia stata inserita una clausola di forza maggiore, occorrerà verificare qual è la legge applicabile al contratto. Quindi, nel caso di commercio con l’estero, occorrerà verificare cosa prevede la legge che regola il contratto stesso, posto che non tutti gli ordinamenti adottano la stessa definizione e regolamentazione della forza maggiore.
Indipendentemente dall’operare come caso di forza maggiore – il che implica come detto che la prestazione diventi oggettivamente impossibile – il coronavirus può operare come causa di eccessiva onerosità sopravvenuta (hardship), cioè può rendere una determinata prestazione contrattuale non impossibile, ma eccessivamente onerosa, trattandosi di un evento sopravvenuto non prevedibile e non imputabili all’impresa. Si pensi ad esempio ad un bene o un componente intermedio che diventi molto più difficile da reperire, in quanto non più reperibile dal proprio paese d’origine (la Cina) bensì da un paese più lontano o a condizioni molto più onerose economicamente.
Anche in questi casi, occorre verificare se sia stata inserita nel contratto una clausola di hardship, e conformarsi alla relativa regolamentazione. Ad esempio, spesso in tali clausole si prevede un obbligo delle parti di rinegoziare i termini dell’accordo, e la rinegoziazione fallisce entro un certo periodo, il contratto si risolve.
Se invece non è stata inserita tale clausola nel contratto, occorrerà verificare cosa prevede la legge applicabile al contratto. Qualora si applichi la legge italiana, il contratto potrà essere risolto se l’epidemia (che sicuramente è un fatto imprevedibile) abbia alterato significativamente l’originario equilibrio delle prestazioni tra le parti, in base ad un’analisi da effettuarsi attentamente caso per caso.
In ogni caso, in questo difficile momento è altamente consigliabile alle (molte) imprese che si trovino in questa situazione rivolgersi ad un legale qualificato, in modo da non commettere errori ed evitare così di andare incontro a rischi legali, peggiorare ulteriormente la situazione.
Avv. Valerio Pandolfini
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