Assumere dipendenti di un’impresa concorrente: quando è lecito e quando no?
La situazione di crisi economica ha accentuato un fenomeno da sempre esistente, ovvero assumere dipendenti di un’impresa concorrente.
E’ noto che la capacità competitiva e concorrenziale di un’impresa si basa in gran parte sulle capacità e la professionalità dei propri dipendenti e collaboratori.
Quanto più un’impresa è dinamica e innovativa, tanto più facilmente l’originalità dei suoi processi produttivi, che ne costituisce peculiare fattore di successo, si fonda su conoscenze, competenze tecniche, abilità specifiche dei propri lavoratori, che l’impresa stessa ha formato e sviluppato nel corso degli anni, in prospettiva della propria affermazione e crescita nel mercato.
In questo contesto, si verificano sempre più spesso, come confermano le numerose decisioni giurisprudenziali, situazioni in cui un’impresa – specialmente se si affaccia per la prima volta sul mercato – cerca di accaparrarsi lavoratori dotati di specifici e qualificati skills professionali (c.d. core workers), ai danni di un’altra impresa concorrente, che magari versa in condizioni di difficoltà.
In questo modo, un’impresa riesce a penetrare immediatamente nel mercato, approfittando delle conoscenze dei lavoratori acquisiti, con sforzi, costi e tempi assai inferiori a quelli che servirebbero per formare gli stessi dipendenti da zero.
Inoltre, assumere dipendenti di un’impresa concorrente fa sì che l’impresa stessa è in grado di offrire i propri prodotti o servizi ad un prezzo più competitivo, dato che risparmia sui costi di ricerca e sviluppo che avrebbe dovuto sostenere, e che sono stati sostenuti dall’altra impresa “saccheggiata” dei propri core workers, difficilmente sostituibili.
Valutare se e in quali termini tali condotte siano lecite è complesso.
Vengono in gioco due principi tra loro tendenzialmente contrastanti:
- da una parte, i principi, costituzionalmente garantiti, della libera circolazione del lavoro (art 4 Cost.) e della libertà di iniziativa economica quale presidio del libero mercato (art. 41 Cost.), oltre alla libertà dei lavoratori di scegliere l’impresa con cui collaborare e di recedere dal contratto di lavoro (art. 2118 c.c.);
- dall’altra, l’esigenza di tutelare l’impresa nei confronti di atti di concorrenza sleale da parte di un’altra impresa, esigenza tutelata dall’art. 2598, comma primo, n. 3) c.c., secondo cui compie atti di concorrenza sleale chiunque “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
Dunque quando è lecito per un’impresa assumere dipendenti di un’altra impresa concorrente, e quando invece ciò è illecito (c.d. storno di dipendenti)?
In sintesi, la giurisprudenza ha identificato il discrimine tra la lecita acquisizione di lavoratori da parte di un’impresa, frutto di una dinamica fisiologica del mercato e tra ciò che costituisce un illecito atto di concorrenza sleale, sotto forma di storno di dipendenti (e quindi fonte di danno risarcibile), in un elemento: il c.d. animus nocendi, ovvero l’intento di danneggiare l’impresa concorrente.
Tale presupposto viene tuttavia inteso non come mero elemento psicologico, bensì come situazione oggettiva, che si realizza qualora, all’esito di un analisi delle specificità di ogni singolo caso, si verifichino una serie di indici dai quali risulti che, da una parte, l’impresa (stornata) venga messa in difficoltà dalla perdita dei suoi dipendenti o collaboratori – in quanto dotati di competenze particolarmente qualificate, tali da renderli insostituibili o comunque difficilmente sostituibili – subendo uno shock sull’ordinaria attività di offerta di beni o servizi non riassorbibile attraverso un’adeguata organizzazione d’impresa; e dall’altra, l’impresa (stornante), attraverso le nuove collaborazioni, si impossessi di conoscenze tecniche specialistiche senza i tempi e i costi di investimenti in ricerca e in formazione che sarebbero stati necessari.
L’animus nocendi viene quindi valorizzato in base all’intensità dell’offesa all’integrità aziendale, che in via presuntiva fa inferire l’elemento soggettivo.
In questa ottica, lo storno di dipendenti viene considerato illecito ove il concorrente sleale si appropri di risorse umane altrui con modalità:
- non fisiologiche, in quanto potenzialmente rischiose per la continuità aziendale dell’imprenditore che lo subisce, tenuto conto, da un lato, delle normali dinamiche del mercato del lavoro in un preciso contesto economico e, dall’altro, delle condizioni interne dell’impresa;
- non prevedibili, in grado cioè di provocare alterazioni non immediatamente riassorbibili, ed aventi un effetto shock sull’ordinaria attività di offerta di beni o di servizi dell’impresa che subisce lo storno;
- in violazione della disciplina giuslavoristica e/o dei diritti di proprietà intellettuale dell’impresa concorrente.
In tale ottica, sono state sanzionate in particolare due situazioni. Da un lato, il c.d. storno di staff, ovvero l’acquisizione di un gruppo di lavoratori esperti in un determinato settore in una zona determinata, attuata allo scopo di crearsi un vantaggio competitivo svuotando l’organizzazione concorrente di sue specifiche possibilità operative.
Dall’altro, il c.d. “cherry picking”, cioè l’assunzione di collaboratori dell’impresa concorrente dotati di una specifica competenza, in quanto provenienti da uno specifico settore e con un ruolo apicale nel comparto interessato.
Una recente sentenza del Tribunale di Milano (sentenza n. 4006 del 9 aprile 2018) ha fatto applicazione di tali criteri in una interessante vicenda.
Nella vicenda in cui si è pronunciato il Tribunale, Alfa, una società leader di mercato nel settore della consulenza informatica, progettazione e realizzazione di software personalizzabili in base alle specifiche esigenze dei clienti, lamentava di essere stata oggetto di una condotta concorrenziale illecita da parte di Beta, neo-costituita società concorrente, la quale aveva assunto sei suoi dipendenti “chiave” preposti a progetti in corso di sviluppo per alcuni clienti, con l’obiettivo di disgregare la propria organizzazione aziendale, sottraendole forza lavoro per acquisirne i clienti storici.
Il Tribunale, accertato che le due società operavano nello stesso mercato di riferimento – nella specie quello dell’I.T. Banking, in cui le società di consulenza informatica sviluppano e modificano software per gli istituti bancari – ha proceduto ad una accurata ricognizione del mercato di riferimento, caratterizzato da notevole dinamicità, competitività e scarsa fidelizzazione, in quanto il cliente, in base al principio di libera concorrenza, non è obbligato a rivolgersi alla stessa impresa che ha sviluppato il software e può sempre affidarsi ad altre per interventi di manutenzione e sostituzione.
Ciò premesso, il Tribunale ha ritenuto che nella fattispecie la condotta di Beta non integrasse un’ipotesi di illecito storno dei dipendenti di Alfa, in quanto:
- il numero di soggetti del dipartimento IT di Alfa passati alla concorrente Beta, a fronte della complessiva forza lavoro di cui si componeva tale comparto, non era dotato di una potenzialità distruttiva rispetto ad una società leader del mercato quale era Alfa;
- non era significativa la concentrazione temporale degli episodi di storno (circa un anno), tenuto conto della struttura aziendale e della qualificazione tecnico-commerciale dei dipendenti stornati rispetto a quelli rimasti, nonché alla luce della prevedibilità di un mercato del lavoro dinamico in libera concorrenza;
- dei dipendenti stornati, solo tre erano stati reimpiegati da Beta presso lo stesso cliente, e solo uno di essi era stato collocato da Beta in progetti analoghi a quelli seguiti quando lavorava in Alfa, la cui destinazione non era avvenuta né immediatamente né in via esclusiva sui progetti di tale cliente;
- di dipendenti stornati avevano competenze professionali fungibili, tanto da avere consentito ad Alfa la loro regolare sostituzione;
- non vi era alcuna prova che Beta avesse tenuto una condotta attiva diretta a destrutturare la concorrente Alfa, tenuto conto che a tal fine non assume rilievo l’attività di convincimento svolta dall’impresa stornante per indurre alla trasmigrazione il personale dell’impresa stornata.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato Contrattualistica d’Impresa
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