Gli amministratori nelle società di persone (società semplici, S.n.c., S.a.s.): nomina, poteri, revoca, responsabilità
Il potere di amministrare una società consiste nel compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, ovvero che sono strumentali al perseguimento dell’attività d’impresa. Nelle società di persone (Società semplici, Snc, Sas) ogni socio illimitatamente responsabile è amministratore della società. L’atto costitutivo può tuttavia prevedere che l’amministrazione sia riservata solo ad alcuni di essi. I soci amministratori possono essere nominati direttamente nell’atto costitutivo o con atto separato; la distinzione ha rilievo ai fini della revoca della facoltà di amministrare. Quando l’amministrazione della società spetta a più soci e l’atto costitutivo nulla dispone circa le modalità di esercizio del potere di amministrazione, ciascun socio amministratore ha il potere di intraprendere da solo tutte le operazioni rientranti nell’oggetto sociale, senza essere tenuto a richiedere il consenso o il parere degli altri soci amministratori. L’atto costitutivo può tuttavia prevedere l’amministrazione congiuntiva, nel qual caso occorre il consenso di tutti o della maggioranza dei soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali. I soci amministratori hanno il dovere di compiere tutti gli atti necessari alla realizzazione dell’oggetto sociale, in modo diligente, in buona fede e con lealtà e correttezza. Incombono sugli amministratori anche numerosi doveri specifici. In caso di inadempimento a tali doveri, gli amministratori sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso la società.
1. L’amministrazione delle società di persone
L’amministrazione della società è, come noto, l’attività di gestione dell’impresa sociale. Il potere di amministrare è il potere di compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, ovvero che sono strumentali al perseguimento dell’attività d’impresa.
Secondo la disciplina del Codice civile, nelle società di persone (Società semplici, Snc, Sas) ogni socio illimitatamente responsabile – e quindi, nella Snc, ogni socio – è amministratore della società (art. 2257 c.c.). L’atto costitutivo può tuttavia prevedere che l’amministrazione sia riservata solo ad alcuni soci, dando così luogo alla distinzione fra soci amministratori e soci non amministratori.
I soci investiti dell’amministrazione possono essere nominati direttamente nell’atto costitutivo. L’atto costitutivo può tuttavia anche stabilire che gli amministratori saranno nominati dai soci con atto separato. La distinzione fra amministratori nominati nell’atto costitutivo e amministratori nominati con atto separato acquista rilievo, come si vedrà in seguito, ai fini della revoca della facoltà di amministrare. (v. par. 8)
Affinché il rapporto di amministrazione possa dirsi instaurato, non è necessaria un’accettazione espressa, formale, da parte dell’amministratore designato con la nomina, potendosi il contratto perfezionare anche per fatti concludenti, attraverso l’inizio fattivo dell’esercizio dei poteri gestori.
La qualità di amministratore è distinta dalla qualità di socio; il rapporto di amministrazione costituisce infatti rapporto autonomo e distinto dal rapporto sociale. Si può quindi essere soci senza essere amministratori e si può cessare di essere amministratori pur conservando la qualità di socio. In ogni caso, il rapporto di amministrazione è fonte di diritti, poteri, obblighi e responsabilità diversi e distinti da quelli del socio.
Quando l’amministrazione della società è riservata soltanto ad alcuni dei soci, i soci esclusi dall’amministrazione hanno ampi poteri di informazione e di controllo (art. 2261 c.c.). Ogni socio non amministratore infatti ha:
- il diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali;
- il diritto di consultare i documenti relativi all’amministrazione e, quindi, tutte le scritture contabili della società;
- il diritto di ottenere il rendiconto degli affari sociali quando gli affari per cui fu costituita la società sono stati compiuti, ovvero – se la società dura oltre un anno – al termine di ogni anno, salvo che il contratto stabilisca un termine diverso.
I singoli soci non amministratori non possono impartire direttive vincolanti ai soci amministratori in merito alla condotta degli affari sociali, in quanto in regime di amministrazione disgiunta il diritto di opposizione spetta solo ai soci amministratori (art. 2257, comma 2 c.c.), mentre il singolo socio non amministratore non può opporsi alle iniziative degli amministratori, ed a maggior ragione non può esigere comportamenti positivi.
In caso, tuttavia, di amministratore unico nominato per atto separato, i soci non amministratori possono pretendere dallo stesso (a maggioranza o quanto meno all’unanimità) comportamenti positivi, e impartirgli direttive vincolanti sulla gestione che, in quanto tali, lo esonerano da responsabilità verso le società (art. 2260, 2 comma c.c.).
Nelle S.a.s., l’amministrazione della società (potere di gestione e di rappresentanza) non può essere affidata ad un esterno, cioè ad un non socio (art. 2318, comma 2 c.c.). Secondo l’opinione prevalente, la figura dell’amministratore estraneo è invece ammissibile nella S.n.c. In tale società, infatti, non vi è il pericolo che attraverso la nomina di un amministratore estraneo venga eluso il principio della responsabilità personale ed illimitata dei soci per le obbligazioni sociali, in quanto nella S.n.c. – diversamente che nella società semplice – tutti i soci sono sempre e comunque responsabili personalmente nei confronti dei creditori sociali.
La posizione del terzo amministratore – a differenza di quella del socio amministratore – è assimilabile a quella di un mandatario generale o di un institore, sia pur con poteri estesi al compimento di tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale. La nomina di un amministratore estraneo non priva quindi i soci del potere di direzione dell’impresa comune, dato che il terzo amministratore gestisce l’impresa sociale nell’interesse esclusivo dei soci. Pertanto, il terzo amministratore è revocabile ad nutum anche se designato nell’atto costitutivo ed è tenuto a rispettare le direttive che provengono dai soci.
2. Amministrazione e rappresentanza della società
Gli amministratori hanno per legge il potere di rappresentanza della società, ovvero il potere di agire nei confronti di terzi in nome della società, dando luogo all’acquisto di diritti e all’assunzione di obbligazioni da parte della stessa (c.d. potere di firma) (art. 2266, 1 comma c.c.).
Gli amministratori hanno la c.d. rappresentanza organica della società, avendo il potere di manifestare la volontà della società all’esterno, conferito loro dalla legge o dallo statuto. L’amministratore “legale rappresentante”, quindi, non ha un potere derivato (come quello del procuratore), ma un potere diretto in quanto organo dell’ente.
Il rapporto organico che lega l’amministratore della società non esclude comunque l’applicabilità delle norme del Codice civile in materia di rappresentanza negoziale, in quanto compatibili (artt. 1387 c.c. e ss. c.c.). Così ad es. si applica anche alla rappresentanza organica:
- la norma di cui all’art. 1398 c.c. in tema di contratto concluso da un rappresentante senza poteri;
- la norma di cui all’art. 1388 c.c. relativa agli effetti nei confronti del rappresentato del contratto concluso in suo nome dal rappresentante, se quest’ultimo si è mantenuto nei limiti delle facoltà conferitegli.
Il potere di rappresentanza si distingue dal potere di gestione; quest’ultimo è il potere di decidere il compimento degli atti sociali, e riguarda l’attività amministrativa interna, la fase decisoria delle operazioni sociali. Il potere di rappresentanza riguarda invece l’attività amministrativa esterna, la fase di attuazione con i terzi delle operazioni sociali.
Nelle società di persone, secondo il modello legale (art. 2266, 2 comma c.c. e art. 2298 c.c.) potere gestorio e potere di rappresentanza coincidono, sia per quanto riguarda i soggetti investiti dell’uno e dell’altro, sia per quanto riguarda le modalità di esercizio e l’ampiezza dei due poteri. Infatti, in mancanza di diversa disposizione dell’atto costitutivo, la rappresentanza della società spetta a ciascun socio amministratore, disgiuntamente o congiuntamente a seconda di come sia stata conformata l’amministrazione.
Nelle società di persone, pertanto, qualora solo il potere amministrativo sia oggetto di un’esplicita limitazione, anche il potere amministrativo deve ritenersi limitato. In altri termini, se un amministratore è investito dei soli poteri di ordinaria amministrazione, potrà spendere il nome della società solo in relazione a negozi che rientrino in questa categoria, essendogli invece preclusa la rappresentanza in atti eccedenti l’ordinaria amministrazione. Parimenti, qualora ad es. sia investita dalla straordinaria amministrazione solo la maggioranza dei soci, questi potranno affidare la rappresentanza per l’esecuzione di un atto rientrante in tale categoria, a un socio, mediante decisione collegiale secondo le maggioranze previste dallo statuto.
L’attribuzione della rappresentanza a un terzo, invece, deve avere, oltre ai presupposti previsti dallo statuto (ad es. decisione a maggioranza qualificata), la forma prevista per la procura ai sensi dell’art. 1392 c.c., secondo cui la procura non ha effetto se non è conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere.
L’atto costitutivo può tuttavia prevedere una diversa regolamentazione del potere di gestione e del potere di rappresentanza. Esso infatti può:
- riservare la rappresentanza legale della società solo ad alcuni dei soci amministratori, dando così luogo ad una dissociazione fra potere di gestione e potere di rappresentanza;
- stabilire per la rappresentanza modalità di esercizio diverse da quelle che valgono per il potere di gestione (ad esempio, può essere stabilita la firma congiunta per determinati atti anche se l’amministrazione è disgiunta);
- limitare l’estensione del potere di rappresentanza del singolo amministratore, prevedendo, ad esempio, la firma disgiunta per gli atti che non superano un dato importo o per quelli di ordinaria amministrazione e la firma congiunta per quelli di ammontare superiore o eccedenti la normale gestione.
Per quanto concerne la S.n.c., le limitazioni convenzionali al potere di rappresentanza degli amministratori, sia originarie che successive, del potere di rappresentanza degli amministratori non sono opponibili ai terzi se non sono iscritte nel registro delle imprese o se non si provi che i terzi ne hanno avuto effettiva conoscenza (art. 2298, 1 comma c.c.). Gli amministratori con rappresentanza sono tenuti a depositare la loro firma autografa nel registro delle imprese entro quindici giorni dalla notizia di nomina (art. 2298, 2 comma c.c.).
Nella società semplice, mancando un regime di pubblicità legale, si applica la disciplina generale prevista dall’art. 1396 c.c. Di conseguenza, le limitazioni originarie del potere di rappresentanza sono sempre opponibili a terzi, sui quali incombe l’onere di accertare se il socio che agisce in nome della società abbia effettivamente il potere di rappresentanza. Le limitazioni successive o l’estinzione del potere di rappresentanza devono invece essere portate a conoscenza a terzi con mezzi idonei, ed in mancanza sono loro opponibili solo se la società prova che le conoscevano.
Il potere di amministrare nelle società di persone può essere delegato a uno o più soci, purché tale delega avvenga nell’atto costitutivo o con decisione unanime dei soci. La possibilità di delegare l’attività gestoria impone infatti che il potere di amministrare discenda o da un’espressa opposizione dello statuto o da un atto separato, assunto all’unanimità dei soci (art. 2252 c.c.).
In entrambi i casi, le deleghe dei poteri devono risultare da atto scritto, e ai fini dell’opponibilità ai terzi, devono essere iscritte al Registro delle imprese.
Vi è, però, un limite alla trasmissibilità. Infatti, non rientrano nell’attività di gestione delegabile gli atti che, esulando dalla conduzione dell’impresa, investono l’organizzazione sociale. In tali ipotesi si applica, salva diversa disposizione dello statuto, la regola dell’unanimità dei consensi prevista dall’art. 2252 c.c. In altri termini, ad es. non può essere delegato il potere di modificare l’atto costitutivo, salvo che la possibilità di delegare tale potere sia espressamente disciplinato nello statuto.
3. L’amministrazione disgiuntiva
Quando l’amministrazione della società spetta a più soci e l’atto costitutivo nulla dispone circa le modalità di esercizio del potere di amministrazione, si applica il modello legale dell’amministrazione disgiuntiva (art. 2257 c.c.).
In base a tale modello, ciascun socio amministratore ha il potere di intraprendere da solo tutte le operazioni rientranti nell’oggetto sociale, senza essere tenuto a richiedere il consenso o il parere degli altri soci amministratori, né ad informarli preventivamente delle operazioni progettate. Ciò salva diversa eventuale disposizione dello statuto, che potrebbe limitare il potere individuale degli amministratori ad un determinato valore, ed attribuire la gestione per gli atti di valore superiore all’amministrazione congiunta di tutti gli amministratori.
L’amministrazione disgiunta offre indubbi vantaggi sotto il profilo della rapidità delle decisioni, ma può presentarsi ad abusi, in quanto può presentare il pericolo che il singolo amministratore possa porre in essere operazioni non proficue per la società all’insaputa degli altri.
Nella S.n.c., la spettanza del potere di amministrazione disgiuntamente a ciascuno dei soci (in difetto di diversa previsione statutaria) comporta che, quando vi siano due soli soci, e si verifichi il recesso o la revoca dell’amministrazione di uno di essi, non è consentito richiedere la nomina di un amministratore giudiziario, mentre l’altro socio può esercitare i compiti di amministrazione e quindi anche agire a tutela dell’interesse sociale contro il primo per la reintegrazione del patrimonio sociale danneggiato dal medesimo.
L’amministratore di una società di persone, che in forza della legge o del patto sociale compia disgiuntamente dagli altri amministratori negozi giuridici, acquistando beni che intesta a sé medesimo, è tenuto a rimettere alla società i beni mobili o immobili che siano stati oggetto, nell’esercizio delle sue funzioni, della compravendita; ne consegue che nel caso in cui tale amministratore non rimetta alla società detti beni, questi non possono considerarsi parte del patrimonio sociale fin quando a seguito dell’esercizio dell’azione di cui all’art. 1706 c.c. non sia ottenuto un titolo giudiziale che dichiari e/o costituisca il dritto di proprietà della società su di essi.
Per contenere i rischi conseguenti all’autonomia di azione dei singoli amministratori, e per consentire una unità di indirizzo nella gestione sociale, è previsto un temperamento al potere di iniziativa individuale di ciascun socio amministratore, in quanto è riconosciuto il diritto di opposizione (c.d. diritto di veto) a ciascuno degli altri soci amministratori che vengano a conoscenza dell’intenzione di altro amministratore di compiere una certa operazione di gestire, qualunque ne sia l’importanza.
Il diritto di veto può essere utilmente esercitato, con l’effetto di paralizzare il compimento dell’operazione intrapresa, solo se opposto tempestivamente, cioè prima che l’operazione intrapresa sia compiuta (art. 2257, 2° comma, c.c.); diversamente, il compimento dell’atto da parte di uno degli amministratori è immediatamente efficace per la società e nulla potrebbero quindi fare gli altri amministratori per evitare tale efficacia dopo che l’atto è stato posto in essere nei confronti dei terzi.
Infine, l’atto già compiuto da parte di un socio amministratore in via disgiuntiva dagli altri, è, e rimane, valido nei confronti dei terzi, in tal modo impegnando la società di persone all’esterno, nonostante l’atto in questione possa essere dannoso per la società.
Inoltre, l’esercizio dell’opposizione esplica i suoi effetti solo nell’ambito dei rapporti interni alla società e non anche in quelli esterni: essa, cioè, incide, paralizzandolo, solo sul potere di amministrazione del socio e non anche su quello, eventuale, di rappresentanza; con la conseguenza che se il socio amministratore destinatario dell’opposizione conduce ugualmente a compimento l’operazione col terzo, l’operazione è vincolante per la società se il terzo non è stato informato dell’intervenuta opposizione o se comunque non abbia avuto conoscenza.
Peraltro, qualora l’atto compiuto da un socio amministratore, non condiviso dagli altri, sia già stato compiuto e, pertanto, non sia più possibile opporsi ad esso, resta la possibilità di procedere alla revoca dell’amministratore, ai sensi dell’art. 2259 c.c. (v. par. 8). Infatti, qualora poi le operazioni compiute dal socio amministratore, sulle quali vi è dissenso, concretino la violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela delle finalità e degli interessi economici dell’ente e degli altri soci, vi è la possibilità di escludere il socio, ai sensi dell’art. 2286 c.c.
L’opposizione può essere proposta solo dagli altri soci amministratori, non anche dagli altri soci (non amministratori), ancorché investiti della rappresentanza; il socio che sia solo rappresentante, non partecipando alla gestione non è infatti competente a giudicare sulla convenienza o meno dell’affare in questione.
L’esercizio dell’opposizione produce l’effetto di paralizzare il potere gestorio del singolo amministratore in ordine alla determinata operazione sociale contro la quale essa è proposta. Anche il potere di veto, come ogni altra facoltà riconducibile al potere di amministrazione, deve tuttavia essere esercitato nell’interesse della società e nel rispetto dei criteri di prudenza e diligenza ai quali deve sempre ispirarsi chi è investito di quel potere, con la conseguenza che l’esercizio avventato e comunque imprudente del diritto di veto può essere fonte di responsabilità.
La legge non prescrive una forma specifica per la manifestazione dell’opposizione, che pertanto può essere compiuta con ogni modalità. La legge non prevede neppure che essa sia motivata, potendo le ragioni che l’hanno determinata essere illustrate direttamente ai soci chiamati a pronunciarsi sulla sua fondatezza.
E’ sufficiente che l’opposizione sia comunicata solo al socio amministratore che avesse intrapreso l’operazione contestata; tuttavia, poiché l’opposizione può essere considerata come una causa di revoca, o di sospensione del potere amministrativo (non anche di quello di rappresentanza), è opportuno, per evitare controversie col terzo, che l’opposizione sia comunicata anche al terzo interessato all’operazione.
Sulla fondatezza dell’opposizione decide la maggioranza dei soci (amministratori e non), determinata secondo la parte attribuita a ciascun socio negli utili; si tratta quindi di una maggioranza per quote di interesse e non per teste (art. 2257, 3° comma, c.c.).
Il potere di decidere sull’opposizione è rimesso all’intera collettività dei soci, cioè tanto dei soci amministratori quanto di coloro che, eventualmente, non siano stati investiti del potere di amministrazione; ciò in quanto, essendo stata proposta opposizione contro una certa operazione, essa può essere ragionevolmente considerata quantomeno potenzialmente dannoso per la società e tale, quindi, da pregiudicare l’interesse dedotto da ciascun socio nella stessa società, senza che alcun rilievo abbia a riguardo il riconoscimento al socio del potere di amministrazione. In altri termini, essendo coinvolto nella società l’interesse di ciascun socio, ciascuno di essi deve poter concorrere alla decisione sull’opposizione.
L’oggetto della decisone della maggioranza dei soci non è costituito dall’operazione decisa da un amministratore e contrastata da altro (al fine di valutarne l’opportunità), ma l’opposizione stessa, al fine di valutare il buon uso dell’esercizio del diritto di veto. In altri termini, l’esercizio dell’opposizione non determina l’attribuzione alla maggioranza dei soci del potere di decidere il compimento di atti di amministrazione, seppur limitatamente all’operazione contro la quale è proposto il veto, ma, più limitatamente, la sottoposizione alla valutazione della collettività dei soci della fondatezza dell’opposizione.
Da ciò consegue che la maggioranza dei soci valuta fondata l’opposizione è definitivamente precluso il compimento dell’operazione contro la quale essa è stata proposta; diversamente, se la decisione della maggioranza è nel senso dell’infondatezza dell’opposizione l’operazione contrastata non verrà necessariamente attuata, essendo la decisione in merito sempre e pienamente rimessa all’amministratore che aveva intrapreso l’operazione o ad altro amministratore che intendesse compiere lo stesso atto di gestione.
Secondo l’opinione prevalente, ai fini della decisione non è necessaria né la convocazione di una assemblea né la decisione rivesta particolari forme, e il consenso dei singoli soci può essere manifestato anche separatamente.
4. L’amministrazione congiuntiva
I soci possono poi prevedere nell’atto costitutivo un metodo alternativo di amministrazione, ovvero l’amministrazione congiuntiva (art. 2258 c.c.).
In tal caso, occorre il consenso di tutti i soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali (amministrazione congiuntiva all’unanimità), e i singoli amministratori non possono da soli compiere alcun atto di gestione.
Il consenso deve essere unanime; nel caso in cui un amministratore compia un atto sul quale non vi è il consenso unanime degli altri soci amministratori, l’atto rimane comunque valido nei confronti del terzo coinvolto nell’operazione, mentre, all’interno dei rapporti tra soci, potrà essere fatta valere la responsabilità dell’amministratore che agito in tal modo.
Solo nel caso in cui si raggiunga la prova del dolo del terzo (che era quindi a conoscenza (i) del sistema di amministrazione congiuntiva all’unanimità adottato dalla società, (ii) del mancato consenso all’atto anche di un solo amministratore, e ciò nonostante abbia deciso di prendere parte all’atto de quo), allora l’atto in questione potrà essere ritenuto invalido e inefficace anche nei confronti del terzo, in tal modo non obbligando la società all’esterno.
Il rifiuto del consenso da parte di un socio amministratore, nell’amministrazione congiuntiva, costituisce per la società un ostacolo insuperabile al compimento dell’operazione; è tuttavia possibile promuovere azione di responsabilità verso il socio amministratore che con il proprio irragionevole rifiuto abbia cagionato un danno alla società, salva la revoca dell’amministratore stesso.
Anche le decisioni dei soci amministratori da adottarsi congiuntamente possono essere assunte senza una formale convocazione e riunione degli amministratori, i quali, invece, possono manifestare il loro consenso all’operazione separatamente ed anche tacitamente; occorre invece che il consenso sia richiesto ed espresso per determinate operazioni, individuate nella loro portata economica e giuridica.
L’atto costitutivo può tuttavia prevedere che per l’amministrazione o per determinati atti sia necessario il consenso della maggioranza dei soci amministratori, calcolata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili (amministrazione congiuntiva a maggioranza).
L’amministrazione congiuntiva a maggioranza può essere prevista:
- per il compimento di tutti gli atti gestori di competenza degli amministratori;
- soltanto per alcuni tipi di atti singolarmente individuati;
- soltanto per una o più categorie di atti tipizzate.
La maggioranza si calcola secondo la parte attribuita a ciascun socio negli utili. È in ogni caso possibile la deroga a tale modalità di computo della maggioranza, che può essere sostituito con uno diverso (ad es. secondo la misura dei conferimenti).
Qualora la gestione della società sia affidata ad una pluralità di amministratori in regime di amministrazione congiunta a maggioranza, trova applicazione la regola della c.d. “raccolta interna del consenso”, secondo la quale è sufficiente la raccolta del consenso espresso dalla maggioranza dei soci, senza necessità, una volta raggiunta quest’ultima, di procedere oltre nella consultazione. In particolare, mentre nel caso in cui sia accolta la regola dell’unaninità il consenso deve essere espresso da tutti gli amministratori, qualora sia accolta la regola della maggioranza è sufficiente la raccolta del consenso della sola maggioranza, senza necessità di consultare gli altri amministratori.
Anche nell’amministrazione congiuntiva, i singoli amministratori possono agire individualmente quando vi sia urgenza di evitare un danno alla società (art.2258, 3°’ comma c.c.)., sempre che non si sia già manifestato un disaccordo tra i soci sul compimento dell’atto in questione, con l’espressione di dinieghi o voti contrari.
Le condizioni per l’esercizio di tale autonomo potere da parte del singolo amministratore sussistono quando, essendo imminente il pericolo di un danno (non necessariamente grave) alla società, gli amministratori – tutti o la maggioranza di essi – non possono consultarsi preventivamente e decidere congiuntamente il compimento di un certo atto sociale, così che dal mancato compimento dell’atto la società può subire un pregiudizio (situazione di urgenza).
L’amministratore che voglia procedere con il compimento di un atto in via d’urgenza dovrà ben ponderare, in buona fede e con la diligenza dovuta, tutti gli elementi necessari per la valida operatività della deroga al principio di unanimità/maggioranza ex art. 2258, comma 3 c.c. pena la propria responsabilità in caso di dolo, colpa, errore non scusabile nell’effettuare tale valutazione. Nel caso in cui il presupposto d’urgenza in realtà non sussista (per dolo/colpa/errore inescusabile dell’amministratore), l’atto compiuto in via d’urgenza rimane comunque valido ed efficace all’esterno, tranne nel caso in cui il terzo sia consapevole della mancanza dei requisiti per l’operatività della deroga.
Amministrazione disgiuntiva e congiuntiva possono essere fra di loro diversamente – combinate: ad esempio, per certe operazioni può essere prevista l’amministrazione disgiunta, per altre quella congiunta a maggioranza, per altre ancora l’atto costitutivo può richiedere il consenso di tutti gli amministratori, etc. si possono quindi avere diverse varianti, quali:
- amministrazione disgiuntiva affidata solo ad alcuni dei soci;
- amministrazione congiuntiva affidata a tutti i soci;
- amministrazione congiuntiva affidata ad alcuni soci;
- amministrazione congiuntiva a maggioranza, di tutti o soltanto di alcuni soci;
- amministrazione a uno solo dei soci;
- amministrazione congiuntiva o disgiuntiva, limitata ad alcuni soci (o a uno solo) per taluni atti e rimessione alla maggioranza di tutti i soci degli altri atti (seguendo la classifica dicotomia tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione).
5. I poteri e i diritti dei soci amministratori
Ai sensi dell’art. 2260 c.c., i diritti e gli obblighi degli amministratori sono disciplinati dalle regole dettate per il mandato. Agli amministratori di società di persone non è tuttavia applicabile tutta la disciplina del mandato, in quanto i poteri e doveri degli amministratori sono diversi e più ampi di quelli di un mandatario generale o dell’istitore, pur non potendo essere identificati con quello dell’imprenditore. La disciplina del mandato è quindi applicabile agli amministratori di società nei limiti compatibili con le peculiarità del relativo rapporto, e sempre che non contrasti con principi della disciplina societaria.
L’amministratore è investito per legge (art. 2266 c.c.) del potere di compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, non operando il limite degli atti di ordinaria amministrazione posto per il mandatario generale, né i limiti ai poteri dell’institore posti dall’art. 2207 c.c., dato che per legge l’amministratore può certamente alienare o ipotecare gli immobili sociali.
Poiché, nelle società di persone, gli amministratori sono, in generale, anche soci, il primo contrappeso al loro potere gestorio deriva dal fatto che essi rispondono personalmente ed illimitatamente delle obbligazioni che, come amministratori, contraggono per la società.
Nel compimento degli atti di gestione sociale, l’amministratore soggiace a limiti tipici di quell’attività:
- il fine della realizzazione dell’oggetto sociale e, dunque, il limite dell’idoneità e dell’adeguatezza degli atti compiuti a tal fine
- l’impossibilità di modificare il contratto sociale (art. 2252 c.c.).
La facoltà gestoria dell’amministratore è connotata dalla mancanza di una predeterminazione delle caratteristiche, delle modalità esecutive, dei limiti dell’incarico conferito. Diversamente dal mandatario – per il quale sono espressamente e rigorosamente regolate nell’atto di conferimento dell’incarico le caratteristiche e i limiti del mandato, oltre i quali il mandatario non può andare pena la propria responsabilità – al socio amministratore compete un’ampia discrezionalità nell’esercizio delle proprie prerogative gestorie, con il solo limite dell’oggetto e dello scopo sociale.
Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e le circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità.
Il diritto/potere di amministrare è esercitato dagli amministratori a titolo gratuito, salvo diversa disposizione, qualora l’atto di nomina sia contenuto nel contratto sociale. Si presume infatti che con l’atto costitutivo siano stati disciplinati per intero anche gli interessi di contenuto economico di tutti i soci (anche amministratori), come ad esempio la misura di partecipazione di ciascuno agli utili (e alle perdite), l’entità dei conferimenti, etc.
Nel caso, invece, di nomina dell’amministratore con separato atto, si presume, analogamente al rapporto di mandato, che sussista un diritto al compenso per l’amministratore, generalmente pattuito nel contratto – autonomo – di nomina. In mancanza di pattuizione, al fine della quantificazione del compenso, si applica l’art. 1709 c.c.
In applicazione dell’art. 1727 c.c. sul mandato, il socio amministratore ha diritto di rinunciare all’incarico. La rinuncia all’incarico di amministratore non fa venir meno la qualifica di socio, dato che il rapporto di amministrazione e quello sociale sono distinti. In applicazione dell’art. 1727 c.c., il socio amministratore che rinuncia all’incarico ha diritto al rimborso delle anticipazioni e delle spese effettuate nell’interesse della società nell’esecuzione dell’incarico, oltre al risarcimento di eventuali danni subiti a causa dello svolgimento del mandato, solo qualora vi sia stata una giusta causa di rinuncia.
6. Gli obblighi e le responsabilità dei soci amministratori
I soci amministratori hanno il dovere di compiere tutti gli atti necessari alla realizzazione dell’oggetto sociale, nel rispetto della legge e del contratto sociale, in modo diligente, in buona fede, con lealtà e correttezza, nel rispetto del rapporto fiduciario che si instaura tra società-soci e amministratore al momento della nomina.
Incombono sugli amministratori anche numerosi doveri specifici. In particolare, gli amministratori della S.n.c. devono tenere le scritture contabili, redigere il bilancio di esercizio e provvedere agli adempimenti pubblicitari connessi all’iscrizione nel registro delle imprese, redigere il rendiconto.
In caso di inadempimento, ai sensi dell’art. 2260 c.c. gli amministratori sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso la società, indipendentemente dall’adozione di un sistema di amministrazione congiuntivo o disgiuntivo.
I presupposti della responsabilità degli amministratori sono:
- il comportamento inadempiente;
- il danno subito dalla società;
- il nesso causale tra inadempimento e danno.
La società può esercitare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, per reintegrare il patrimonio sociale danneggiato dalle condotte illegittime degli stessi, nel termine di prescrizione quinquennale a decorrere dal momento in cui essi non sono più in carica. E’ controverso la legittimazione attiva all’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’amministratore colpevole sia anche in capo a ciascun socio o alla maggioranza dei soci non amministratori.
Sono legittimati ad agire anche i soci e i terzi per i danni che siano stati direttamente cagionati loro dai comportamenti degli amministratori, in applicazione analogica dell’art. 2395 c.c. Infatti, la società personale, ancorché priva di autonoma personalità giuridica, costituisce un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci, ed è dunque configurabile una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci.
Tuttavia, l’azione individuale dei soci per il risarcimento dei danni cagionati dagli atti dolosi o colposi degli amministratori non siano solo il riflesso di quelli arrecati eventualmente al patrimonio sociale, ma siano direttamente cagionati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori stessi. Il diritto alla conservazione del patrimonio sociale spetta infatti alla società e non al socio come tale, il quale non ha titolo al risarcimento dei danni che costituisca un mero riflesso del pregiudizio arrecato alla società.
In particolare, in giurisprudenza si è affermato che nelle società di persone, se l’amministratore non presenta il rendiconto ai sensi dell’art. 2261 c.c. e non distribuisce gli utili ai soci ai sensi dell’art. 2262 c.c., il socio può agire direttamente nei confronti dell’amministratore per farne valere la responsabilità, in quanto subisce, in via diretta ed immediata, un danno, dato che il diritto del socio di percepire gli utili nasce con l’approvazione annuale del bilancio e non discende da una apposita delibera assembleare, come invece accade nelle società di capitali.
L’art. 2260 c.c. prevede che sono esonerati da responsabilità gli amministratori che dimostrino di essere esenti da colpa. Tale dimostrazione cambia a seconda che la società abbia adottato un sistema di amministrazione disgiuntivo o congiuntivo.
In caso di amministrazione disgiuntiva, l’amministratore deve dimostrare la mancata conoscenza dell’atto dannoso compiuto da uno o più soci amministratori (prima e durante il suo verificarsi), con il limite del dovere di diligenza (media) e del dovere si vigilanza che grava su ogni amministratore rispetto alle operazioni compiute dagli altri. La prova della mancanza di colpa potrà essere desunta anche dal fatto di aver proposto l’opposizione ai sensi dell’art. 2257 comma 2 c.c., respinta dalla maggioranza dei soci. L’amministratore potrà altresì dimostrare che nel caso specifico era stata pattuita una ripartizione dei compiti tra gli amministratori e che l’atto dannoso rientri nella sfera di competenze tipiche attribuite solo a quell’amministratore.
In caso di amministrazione congiuntiva, la dimostrazione della mancanza di colpa potrà essere fornita dall’amministratore attraverso la prova, ad esempio:
- che l’atto dannoso è stato compiuto da un amministratore in via d’urgenza all’insaputa degli altri;
- di aver manifestato il proprio dissenso in relazione all’atto dannoso;
- di aver espresso un voto contrario, se si tratta di amministrazione congiuntiva a maggioranza.
7. I soci accomandatari nella S.a.s. e l’amministrazione della società
Ai sensi dell’art. 2318 c.c., i soci accomandatari hanno gli stessi diritti e obblighi dei soci della S.n.c. e il potere di amministrare la società (potere di gestione e di rappresentanza). Essi, ai sensi dell’art. 2291 c.c., rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni della S.a.s.
È dunque nullo un eventuale patto che escluda la responsabilità degli accomandatari, anche se non amministratori, sia un patto che attribuisca una responsabilità siffatta in capo agli accomandanti.
Ai soci accomandatari, in quanto amministratori, si applicano tutte le regole già evidenziate in materia di responsabilità gestoria verso la società, verso i soci e verso i terzi. Lo statuto, fermo restando che l’amministrazione della società può essere affidata solo agli accomandatari, può disporre che questi operino congiuntamente o disgiuntamente, in applicazione degli artt. 2257 e 2258 c.c. Nel primo caso, gli accomandatari dovranno essere unanimi nel compimento di ogni operazione, salvo che lo statuto ammetta il consenso della maggioranza, da determinare in base alla parte che ciascun accomandatario abbia sigli utili di esercizio.
In applicazione dell’art. 2558 c.c., ciascun accomandatario, qualora gli altri accomandatari fossero assenti dal luogo in cui si è presentata l’occasione dell’operazione amministrativa, è autorizzato in caso di urgenza di evitare un danno alla società a compiere l’operazione individualmente, confidando nella successiva adesione degli altri accomandatari.
La responsabilità dei soci accomandatari per le obbligazioni contratte dalla società è illimitata e non circoscritta alle somme eventualmente loro conferite in base al bilancio finale di liquidazione, nonostante l’estinzione della società a seguito della cancellazione dal registro delle imprese; tale evento non determina l’estinzione dell’obbligazione sociale ma solo il trasferimento della stessa in capo ai soci, i quali ne rispondono secondo lo stesso regime di responsabilità vigente prima della liquidazione.
Si presume che, nel caso in cui l’atto costitutivo della s.a.s. non disponga diversamente, il regime di amministrazione vigente tra i soci accomandatari sia quello disgiuntivo, così come previsto per la società semplice, sulla base del richiamo effettuato dall’art. 2315 c.c. agli artt. 2291 e ss. c.c. All’interno, poi, del regime di amministrazione prescelto, analogamente a quanto accade nella società semplice, l’esercizio di tutte o di talune specifiche funzioni gestorie individuate singolarmente o per categoria può essere conferito solo ad uno o ad alcuni soci accomandatari espressamente individuati.
Può quindi accadere che uno o più soci accomandatari, pur dovendo rispondere solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, non detengano i poteri gestori di amministrazione della S.a.s., e ciò in relazione soltanto a talune specifiche attività, oppure a tutti gli atti di amministrazione, a seconda di quanto previsto nell’atto costitutivo. In questo caso si ha la figura di un socio accomandatario (con le relative responsabilità) non amministratore, analoga alla figura del socio di S.n.c. escluso dalla gestione della società.
Analogamente a quanto accade nella società semplice, al socio accomandatario non amministratore che dissente dall’operato di uno o più soci accomandatari amministratori, è riconosciuto il potere di opposizione, ai sensi dell’art. 2257 c.c.; nella S.a.s., tuttavia, non parteciperanno alla votazione i soci accomandanti.
I soci accomandanti sono invece esclusi dall’amministrazione della società, non potendo compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari.
Qualora i soci accomandanti contravvengano tale divieto di immistione, essi, ai sensi dell’art. 230 comma 1 c.c., divengono illimitatamente responsabili verso i terzi e possono essere esclusi dalla società, con decisione a maggioranza degli altri soci (accomandatari ed accomodanti). L’accomandante che viola il divieto di immistione non diventa però un socio accomandatario a tutti gli effetti e perde il beneficio della responsabilità limitata solo nei confronti dei terzi.
Rispetto alle obbligazioni sorte dall’azione di immistione di un accomodante, la società resta obbligata soltanto se l’accomodante ha agito in base a regolare procura (generale o speciale) o se il suo operato è stato successivamente ratificato dagli amministratori; in caso contrario, è responsabile verso il terzo soltanto l’accomandante che ha compiuto l’atto, così come previsto per il rappresentante senza poteri.
Per quanto riguarda l’amministrazione interna, i soci accomandanti sono privi di ogni potere decisionale autonomo in merito alla condotta sociale, non possono decidere da soli alcun atto di impresa né partecipare alle decisioni degli amministratori o condizionare l’operato. I pareri e le autorizzazioni eventualmente previsti dall’atto costitutivo non possono riguardare tutti gli atti di amministrazione, ma solo operazioni determinate. Non contrasta invece con divieto di immistione la collaborazione degli accomodanti all’amministrazione interna alla società (ad esempio tenuta della contabilità o direzione del personale), sotto le direttive degli accomandatari e nel quadro di un rapporto di subordinazione rispetto a questi ultimi, come ammesso dall’art. 2320 secondo comma c.c..
Per quanto riguarda invece l’attività esterna, il contenuto del divieto di immistione è meno rigido, in quanto l’accomandante può legittimamente trattare e concludere affari in nome della società in forza di procura speciale per singoli affari.
Agli accomandanti sono tuttavia riconosciuti per legge, o possono essere riconosciuti per contratto, alcuni diritti e poteri di carattere amministrativo. I soci accomandanti infatti hanno il diritto di concorrere (sia pure in posizione non paritetica) con gli accomandatari alla nomina e alla revoca degli amministratori, quando l’atto costitutivo prevede la designazione degli stessi con atto separato. È infatti al riguardo necessario il consenso di tutti i soci accomandatari e l’approvazione di tanti soci accomandanti che rappresentano la maggioranza del capitale da essi sottoscritto (art. 2319 c.c.).
Per quanto riguarda poi la partecipazione all’attività dell’impresa comune, i soci accomandanti possono:
- trattare o concludere affari in nome della società, sia pure solo in forza di una procura speciale per singoli affari e quindi in modo tale da restare pur sempre assoggettati alle direttive degli amministratori;
- prestare la loro opera, manuale o intellettuale, all’interno della società sotto la direzione degli amministratori e quindi mai in posizione autonoma ed indipendente;
- se l’atto costitutivo lo consente, dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni, nonché compiere atti di ispezioni e di controllo, sia pur nei limiti imposti dal generale divieto di ingerenza nell’amministrazione.
In ogni caso, i soci accomandanti hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite e di controllare l’esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società (art.2320, 3 comma). Inoltre, gli accomandanti hanno anche il diritto di concorrere all’approvazione del bilancio, senza che ciò implichi violazione del divieto di immistione.
In quanto esclusi dall’amministrazione della società, gli accomodanti, in deroga al dettato dell’art. 2303 c.c., non sono tenuti a restituire gli utili fittizi eventuale riscossi, purché ricorra la duplice condizione che essi siano in buona fede e che gli utili risultino da un bilancio regolarmente approvato (art. 2321 c.c.).
8. La revoca degli amministratori nella società semplice e nella S.n.c.
L’art. 2259 c.c. detta una disciplina diversa per la revoca dell’amministratore di società di persone (società semplice o S.n.c.), a seconda che l’amministratore sia stato nominato nell’atto costitutivo, ovvero con atto separato.
Qualora l’amministratore sia stato nominato con l’atto costitutivo – o assuma tale qualità in difetto di una disposizione dell’atto costitutivo relativa alla facoltà di amministrare – la revoca è efficace solo ove ricorra una “giusta causa”, in applicazione dell’’art. 1723, comma 2, c.c.
Integra giusta causa di revoca dell’amministratore qualsiasi inadempimento degli obblighi allo stesso imposti dalla legge ed eventualmente dal contratto sociale. Secondo la giurisprudenza, ricorre il presupposto della giusta causa qualora l’amministratore compia qualsiasi comportamento che – quand’anche non definibile quale inadempimento degli obblighi dell’amministratore in senso stretto – renda impossibile il naturale svolgimento del rapporto di gestione, ovvero intacchi, per la sua significatività e gravità, il rapporto fiduciario.
Possono ad esempio costituire violazioni degli obblighi/doveri dell’amministratore tali da configurare una giusta causa di revoca della facoltà di amministrare, così come previsto dall’art. 2259 c.c., i seguenti comportamenti:
- appropriazione indebita degli utili della società;
- iscrizione in bilancio di crediti inesistenti;
- redazione del bilancio in violazione delle norme contabili;
- violazione dell’obbligo di tenuta della contabilità;
- violazione del dovere di fornire una corretta e veritiera rappresentazione della situazione economica e finanziaria della società;
- commistione tra il patrimonio sociale e personale;
- violazione dell’obbligo di predisporre e presentare agli altri soci il rendiconto della gestione;
- violazione degli obblighi informativi verso i soci non amministratori;
- frapposizione di ostacoli all’esercizio del diritto/potere dei soci non amministratori di controllo sulla gestione sociale;
- violazione del divieto di concorrenza stabilito dall’art. 2301 c.c.;
- inadempimento all’obbligo di custodia, e tutela, dei beni di proprietà della società;
- violazione dell’obbligo di non agire in conflitto di interessi con la società;
- ingiustificato rifiuto di partecipare a decisioni necessarie allo svolgimento della vita sociale
Giusta causa di revoca ex art. 2259 c.c. (ed eventuale fonte di responsabilità risarcitoria ex art. 2260, comma 2, c.c.) è soltanto l’inadempimento degli obblighi spettanti all’amministratore in ragione della sua funzione, non essendo a tal fine rilevante l’inadempimento degli obblighi del socio in quanto tale, derivanti dal contratto sociale. L’inadempimento di tali obblighi integra invece una causa di esclusione del socio-amministratore, ai sensi dell’art. 2286 c.c. Vi sono, peraltro, casi in cui lo stesso inadempimento legittimi, al contempo, sia la revoca dell’amministratore-socio, sia la sua esclusione (come, ad esempio, in ipotesi di violazione del divieto posto dall’art. 2256 c.c.).
Dal momento che la revoca dell’amministratore nominato con contratto sociale comporta una modificazione di quest’ultimo, essa deve essere decisa con il consenso di tutti i soci, ove non sia diversamente stabilito, ai sensi dell’art. 2252 c.c. Se quindi gli altri soci sono tutti d’accordo nell’adozione di una decisione di revoca, è sufficiente la loro semplice espressione di volontà, senza alcun bisogno di ricorrere al giudice ai sensi dell’art. 2259 comma 3 c.c.
Qualora l’amministratore sia socio, non è richiesto il consenso del medesimo al fine della sua revoca, avendo portata generale il principio del divieto del voto in conflitto di interessi con la società, ai sensi dell’art. 2373 c.c.
Qualora invece l’amministratore sia stato nominato con atto separato, il secondo comma dell’art. 2259 c.c. stabilisce che si applicano le norme generali sul mandato. Pertanto, dal momento che il mandato si presume oneroso (art. 1725 c.c.), l’amministratore è revocabile anche se non sussiste giusta causa. In tal caso, tuttavia, egli ha diritto al risarcimento dei danni se l’incarico era a tempo determinato ovvero, in caso di incarico a tempo indeterminato, se non è stato dato il congruo preavviso.
E’ controverso se, nel silenzio dell’atto costituivo, i soci debbano decidere la revoca all’unanimità ovvero a maggioranza; in ogni caso, non deve essere computato il voto del socio-amministratore, in quanto in conflitto di interessi. Quando la richiesta maggioranza o l’unanimità non possa essere raggiunta, resta comunque a disposizione degli altri soci lo strumento della revoca giudiziale per giusta causa.
Per quanto concerne il metodo necessario per la formazione della decisione sociale, l’atto costitutivo può prevedere che le decisioni dei soci, ivi inclusa quella di revoca dell’amministratore, siano adottate con osservanza del metodo collegiale; in assenza di indicazioni dell’atto costitutivo, si ritiene che la decisione dei soci possa essere prese senza alcuna formalità, non essendo necessaria l’adozione del metodo assembleare.
La perdita della qualità di amministratore non comporta anche la perdita della qualità di socio, rappresentando due fenomeni diversi, che operano su piani altrettanto diversi. Il rapporto di società deve essere, infatti, tenuto distinto da quello di amministrazione soggetto ad autonoma disciplina, essendo regolato, ai sensi dell’art. 2260 c.c., dalle norme sul mandato. Dal rapporto di amministrazione derivano, pertanto, diritti, poteri, obblighi e responsabilità diversi e distinti da quelli che derivano dallo status di socio, tanto che la violazione degli obblighi imposti all’amministratore può determinare la revoca dalla carica e l’azione di risarcimento dei danni, mentre la violazione degli obblighi in capo al socio può determinare lo scioglimento del vincolo sociale.
Qualora ricorra una giusta causa di revoca, ciascun socio può chiedere giudizialmente la revoca dell’amministratore, sia esso nominato con l’atto costitutivo o con atto separato, ai sensi dell’art. 2259 terzo comma c.c. Tale potere rappresenta una esplicazione dei poteri di controllo sulla corretta gestione della società, attribuito individualmente al socio.
Secondo la giurisprudenza, rientrano nel concetto di giusta causa non solo gli inadempimenti a specifici obblighi assunti, ma altresì ulteriori comportamenti che incidono comunque per la loro significatività e gravità sul rapporto fiduciario, rendendone intollerabile la prosecuzione. La nozione di giusta causa di cui all’art. 2259, c. 3, c.c. non richiede né la gravità dell’inadempimento (diversamente da quanto previsto nell’art. 2286 c.c. in tema di esclusione del socio, che può avere luogo per inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale, qualora connotate da tale ulteriore requisito), né l’attualità dei fatti contestati (diversamente da quanto previsto nell’art. 2409 c.c. che richiede la “sussistenza”, ovvero l’attualità delle gravi irregolarità gestionali).
Il socio non amministratore può incontrare difficoltà per raggiungere la prova della giusta causa di revoca, anche, e soprattutto, a causa del comportamento ostruzionistico dell’amministratore; tale prova può essere raggiunta anche, e soprattutto, mediante l’esercizio del diritto di controllo ex art. 2261 c.c.
L’istanza di revoca può sempre essere presentata nell’ipotesi di società con due soli soci. Si ritiene, invece, che negli altri casi l’azione possa essere proposta solo in via residuale, deducendo l’inerzia della società a provvedere o il disaccordo dei soci.
Il giudizio ha ad oggetto l’accertamento del presupposto della revoca, ovvero l’accertamento della giusta causa. Nelle more del giudizio, l’amministratore revocando conserva i suoi poteri; per questo motivo, la giurisprudenza ammette che l’istanza di revoca possa essere proposta anche in via d’urgenza ex art. 700 C.p.c.. Si esclude, invece, l’applicazione analogica dell’art. 2409 c.c., con la conseguente impossibilità per il giudice, in ipotesi di amministratore unico, di nominarne uno in luogo di quello revocato.
9. La revoca dell’amministratore nella S.a.s.
Per quanto concerne le S.a.s., ai sensi dell’art. 2319 c.c., qualora l’amministratore sia stato nominato con atto separato, salvo patto contrario nell’atto costitutivo, è necessario il consenso di tutti i soci accomandatari e il voto favorevole di tanto soci accomandanti che rappresentino la maggioranza del capitale da essi sottoscritto.
Qualora invece gli amministratori siano stati nominati nell’atto costitutivo, per la loro revoca (così come per la loro nomina) è necessaria la sussistenza:
- di una giusta causa, e
- il consenso di tutti i soci, sia accomandatari che accomandanti – ad eccezione dell’amministratore revocando – considerando le “teste” e non le partecipazioni sociali.
Anche la revoca della carica di amministratore in capo al socio accomandatario – come le dimissioni di quest’ultimo dall’incarico di amministratore – non determina il venir meno anche del rapporto sociale; a tal fine deve infatti pervenire da parte dell’accomandatario un’espressa manifestazione di volontà di cessare anche il rapporto sociale. Viceversa, il venir meno del rapporto sociale trascina con sé anche il rapporto di amministrazione con la S.a.s., che cessa automaticamente.
Il potere di chiedere giudizialmente la revoca per giusta causa spetta senz’altro, in una S.a.s., ai soci accomandatari, in considerazione della loro equiparazione ai soci di S.n.c. (art. 2318, c. 1, c.c.).
Secondo la giurisprudenza prevalente, la facoltà di chiedere giudizialmente la revoca per giusta causa dell’amministratore spetta anche ai soci accomandanti. Qualora infatti non si riconoscesse ai soci accomandanti il potere di chiedere giudizialmente la revoca per giusta causa dell’amministratore, si porrebbe una limitazione ingiustificata ai poteri di questi ultimi, dato che- in virtù del rinvio di cui all’art. 2315 c.c.- spettano anche ai soci accomandanti i poteri di controllo di cui all’art. 2261 c.c. Dall’altra parte, il potere di chiedere giudizialmente la revoca per giusta causa dell’amministratore costituisce una difesa contro la cattiva amministrazione in relazione al potere di controllo di cui all’art. 2320 c.c., diretto ad impedire, attraverso il ricorso all’Autorità Giudiziari, il protrarsi del dannoso comportamento dell’amministratore.
Nella S.a.s. con un unico socio accomandatario, l’attribuzione al socio accomandante della facoltà prevista dall’art. 2259, c. 3, c.c. costituisce inoltre l’unica forma di tutela che quest’ultimo può azionare per reprimere gli abusi commessi da parte dell’unico socio accomandatario e, pertanto, da parte dell’unico amministratore.
Nel caso in cui venga revocato dalla carica di amministratore uno solo dei soci accomandatari, la sostituzione dell’accomandatario revocato comporta l’applicazione del regime di amministrazione disgiuntiva per gli altri soci appartenenti alla stessa categoria.
Nell’ipotesi in cui la richiesta di revoca giudiziale riguardi l’amministratore unico accomandatario, si ritiene che la revoca dell’amministratore non comporti l’esclusione dalla società dell’unico socio accomandatario, in quanto la decadenza dalla carica di amministratore è evento diverso da quello che determina lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio. Solo nel caso in cui l’unico socio accomandatario sia non solo revocato dalla carica di amministratore, ma altresì escluso dalla società, i soci accomandanti sono legittimati a nominare un amministratore provvisorio ai sensi dell’art. 2323, c. 2, c.c.
In tal caso si verifica tuttavia una situazione di impasse; si ritiene che lo scioglimento della società per impossibilità di funzionamento possa essere ritardato, concedendo al socio accomandante – che ha richiesto e ottenuto la revoca dell’amministratore unico accomandatario – l’autorizzazione a compiere singoli affari, ai sensi dell’art. 2320, c. 1, c.c. In ogni caso, qualora l’unico socio accomandatario sia solo revocato dalla carica di amministratore e non escluso dalla società, è possibile nominare un amministratore giudiziario oppure un amministratore provvisorio, ai sensi degli artt. 2319 e 2323, c. 2, c.c.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in diritto Societario
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