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Know–how e segreti commerciali: come proteggerti e tutelati

11 Marzo 2025/in Diritto industriale, News

Sempre più spesso la ricchezza di un’impresa è data, più che da brevetti, marchi o altri asset di proprietà intellettuale, da un insieme di conoscenze diffuse, sviluppate negli anni, che rappresentano il cuore del modo di fare business dell’impresa stessa: il know-how. E’ quindi fondamentale per le imprese proteggere il proprio know-how, evitando che possa andare disperso o venga divulgato a imprese concorrenti. Il Codice della Proprietà Industriale consente alle imprese di tutelare il know-how in modo efficace, qualora lo stesso sia segreto, abbia un valore economico e sia sottoposto a idonee misure di segretezza. Ciò implica la necessità per le imprese di predisporre misure giuridiche ed organizzative adeguate, anche per evitare la responsabilità degli amministratori.

Indice

1. L’importanza del know-how e dei segreti commerciali per le imprese

Sempre più spesso la ricchezza di un’impresa è data, più che da brevetti, marchi o altri asset di proprietà intellettuale, da un insieme di conoscenze diffuse, sviluppate negli anni, che rappresentano il cuore del modo di fare business dell’impresa stessa: il know-how.

Come è noto, il know-how è costituito da un ampio e variegato patrimonio di conoscenze e abilità operative, di tipo tecnologico, commerciale o strategico, non protetto da copertura brevettuale. Fanno parte del know-how anche i segreti commerciali (trade secrets), cioè le informazioni riservate inerenti in senso lato le attività commerciali di un’impresa (e quindi relative a clienti, fornitori, piani aziendali, ricerche e strategie di mercato etc.).

A differenza dei diritti di privativa industriale (marchi e brevetti), il know-how può essere tutelato in modo illimitato nel tempo (fin quando rimane segreto), e non richiede alcuna registrazione in pubblici registri (e quindi non richiede i relativi costi). Tali caratteristiche rendono il know-how una alternativa appetibile per le imprese le quali intendano tutelare alcune formule o procedimenti tecnici che potrebbero essere anche oggetto di un brevetto.

E’ ormai assodato che know how e segreti commerciali rivestono un elevato valore competitivo per un’azienda, contribuendo in modo sempre più rilevante, al pari degli altri diritti di proprietà industriale (quali marchi, brevetti e design), alla determinazione del suo valore e del suo patrimonio. Per la sua importanza, il know-how è un asset aziendale da cui può dipendere la stessa capacità di un’impresa di restare sul mercato. Non a caso, sempre maggiori risorse sono investite nello sviluppo e nell’applicazione del know-how aziendale, in tutti i settori.

Tuttavia, la maggior parte delle imprese – non solo del settore industriale – pur possedendo un autentico patrimonio di abilità, competenze e conoscenze, non ne ha piena consapevolezza, e conseguentemente non lo valorizza, né tanto meno lo protegge. Rischiando, in tal modo, che tale patrimonio possa essere disperso o, peggio, possa andare a vantaggio di imprese concorrenti, magari attraverso una banale copiatura di un server aziendale da parte di un ex dipendente o collaboratore.

2. La tutela del know-how prevista dal Codice della Proprietà Industriale

L’ordinamento italiano – anche sulla scia della legislazione europea – prevede una tutela assai robusta ed efficace del know-how.

Oltre alle tradizionali norme del Codice civile che vietano e reprimono la concorrenza sleale (art. 2598 c.c.), gli artt. 98 e 99 del D.lgs. n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale, “CPI”), recentemente novellati dal D.lgs. n. 63/2018 (emanato in attuazione della direttiva UE 2016/943), tutelano i segreti commerciali, analogamente a quanto avviene per gli altri diritti di proprietà industriale (marchi, brevetti etc.)

Ai sensi dell’art. 98 CPI, le informazioni segrete possibili di protezione sono costituite da:

  • informazioni aziendali;
  • esperienze tecnico-industriali anche se di carattere commerciale (diverse dalle mere “informazioni aziendali” in quanto riferite più specificamente a processi industriali);
  • esperienza aziendali di tipo commerciale (ad es. piani di lancio di un prodotto o di un servizio, oppure strategie produttive o distributive).

La tutela del know-how offerta dal CPI  è subordinata al ricorrere di tre precise condizioni, che devono essere dimostrate dalle imprese:

  • le informazioni devono essere soggette il legittimo controllo del dentatore;
  •  le informazioni devono essere segrete e individuate;
  • devono avere valore economico, in quanto segrete;
  • il detentore deve aver adottato misure ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Ci soffermeremo su tali condizioni al seguente par. 3.

Il CPI sanziona non più soltanto le condotte che dolosamente costituiscono un’illecita acquisizione, rivelazione o utilizzazione dell’informazione segreta, bensì anche le condotte colpose. In particolare, sono punite le condotte di:

  • acquisizione, l’utilizzazione e la rivelazione di segreti commerciali da parte di soggetti che erano a conoscenza o avrebbero dovuto essere a conoscenza del fatto che i segreti commerciali erano stati ottenuti direttamente o indirettamente da un terzo che li utilizzava o rivelava illecitamente;
  • la produzione, l’offerta e la commercializzazione di merci, l’importazione, l’esportazione o lo stoccaggio delle medesime merci quando il soggetto che svolgeva tali condotte era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza, secondo le circostanze, del fatto che i segreti commerciali erano stati utilizzati illecitamente.

Ai fini della sussistenza della tutela di cui all’art. 99 CPI occorre che le condotte vengano poste in essere in modo abusivo e che il soggetto non titolare non sia pervenuto alla cognizione delle informazioni riservate in modo indipendente (cioè, senza fare ricorso al bagaglio di conoscenza del titolare).

Non può essere addebitata una condotta illecita ai seguenti soggetti:

  • terzi a cui l’informazione segreta è stata ceduta dal titolare (ma non da un ulteriore soggetto che utilizzava e/o rivelava i segreti in modo illecito);
  • terzi che pervengano lecitamente e in buona fede all’informazione segreta in via autonoma (ad es. con una propria ricerca o tramite Reverse Engineering);
  • qualora l’informazione sia divenuta lecitamente di dominio pubblico;
  • whistleblowing.

3. I presupposti per la tutela del know-how

Come si è accennato, la possibilità di tutelare validamente il know-how dipende dall’esistenza di alcune precise condizioni; esse devono essere adeguatamente conosciute dalle imprese, le quali devono mettere in campo le conseguenti misure organizzative per evitare di subire – come invece accade sempre più spesso – atti di spionaggio industriale, con conseguenti gravi e spesso irreparabili danni, ed essere in grado di tutelare in modo efficace, anche in via giudiziaria, il proprio know-how. Analizziamole in estrema sintesi.

Anzitutto, le informazioni devono essere soggette il legittimo controllo del detentore. In questa nozione rientra non solo l’imprenditore che sfrutta il segreto all’interno della propria azienda, ma anche il dipendente che venga a conoscenza dell’informazione nello svolgimento delle proprie mansioni.

In secondo luogo, le informazioni devono essere segrete e individuate. Un complesso di informazioni è considerato segreto – e quindi tutelabile – quando le informazioni stesse, (prese nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei propri elementi) non sono generalmente note ovvero non sono facilmente accessibili agli esperti e agli operatori del settore. La segretezza è quindi da intendersi in senso relativo e non assoluto, non necessitando, in particolare, che le informazioni siano del tutto nuove (come invece nel caso di un brevetto), potendo esse avere un valore anche in termini di aggregazione strategica in funzione dell’attività aziendale.

A tale proposito, la giurisprudenza ha affermato che il requisito della segretezza delle informazioni di cui all’art. 98 C.P.I. non impone che si tratti di informazioni diversamente non raggiungibili dal concorrente, essendo sufficiente che la loro sottrazione comporti un risparmio di tempi e costi rispetto ad una loro autonoma acquisizione. Per essere considerate di pubblico dominio, le informazioni devono essere accessibili nel loro complesso; qualora siano noti soltanto frammenti di informazioni la segretezza è esclusa soltanto dalla divulgazione pubblica della precisa combinazione degli elementi noti idonea a conferire al loro titolare un vantaggio competitivo.

Conseguentemente non possono essere tutelate né le informazioni conosciute in base allo stato della tecnica, né quelle ricavabili in autonomia da un esperto del settore attraverso l’osservazione e l’esame scompositivo, in tempi e con costi ragionevoli (in tale ultima ipotesi rientra anche il cd. reverse engineering).

Implicito nel requisito di segretezza è altresì quello di identificazione; il know-how deve essere infatti ben identificato e individuato nel suo contenuto.

Le conoscenze e l’informazioni, quindi,  per essere tutelati come know-how, devono essere incorporate in un supporto materiale che le rendano percepibili e comprensibili ai terzi; ad es., in un manuale, una formula, una lista (di fornitori, clienti etc.).

L’informazione invece, per essere tutelata come know-how, deve essere incorporata in un supporto materiale che la renda percepibile e comprensibile ai terzi; ad es., in un manuale, una formula, una lista (di fornitori, clienti etc.).

In terzo  luogo, per essere tutelato il know-how deve possedere valore economico. Tale requisito è interpretato dalla giurisprudenza prevalente nel senso che non è richiesto l’accertamento di un valore di mercato (ossia un prezzo di vendita) del know-how, ma è sufficiente che:

  • il titolare abbia impiegato tempo e risorse umane, oltre che economiche, per la costruzione del patrimonio di informazioni aziendali;
  • la disponibilità del know how comporti un vantaggio concorrenzialerispetto alle altre aziende del settore, ovvero la possibilità di essere immediatamente competitivi sul mercato e di praticare prezzi inferiori alla medesima clientela.

In proposito, la giurisprudenza ha ritenuto dotate di valore economico le seguenti informazioni:

  • liste clienti, esistenti o potenziali;
  • tecniche di marketing e di profilazione della clientela;
  • politiche di prezzi e sconti;
  • prassi attuate con i clienti;
  • dati relativi ai fornitori;
  • mailing lists.

Infine, su know-how aziendale può essere protetto solo se l’impresa ha adottato idonee misure di segretezza, su questo aspetto ci soffermeremo nel par. seguente.

4. Le misure di segretezza

Come si è accennato, un know-how aziendale può essere protetto solo se l’impresa ha adottato idonee misure di segretezza, prima della sottrazione o divulgazione non autorizzata dello stesso. Si tratta di un requisito la cui sussistenza deve essere valutata in concreto, tenendo conto della tipologia di know-how, del contesto aziendale e delle circostanze specifiche.

L’informazione/esperienza che costituisce il know-how deve quindi essere sottoposta, da parte del soggetto che ha legittimo controllo delle stesse (cioè dell’impresa), a misure ragionevolmente adeguata a mantenerle segrete, in relazione alle caratteristiche delle informazioni, alla struttura imprenditoriale del titolare ed allo stato del progresso tecnico.

Nel decidere e valutare quali misure di segretezza adottare, l’imprenditore deve prendere in considerazione il progresso tecnologico, cioè lo stato dell’arte e i costi di attuazione delle misure stesse, in rapporto alla tipologia di informazioni che intende tutelare, secondo un principio di proporzionalità.

A tal proposito, la giurisprudenza richiede che il know-how debba essere protetto dall’impresa con un duplice ordine di misure:

  • misure giuridiche, costituite in particolare da specifici accordi e misure interne aziendali (v. par. 4.1);
  • misure fisiche, costituite da tecniche informatiche e organizzative (v. par. 4.2).

L’adozione di un adeguato sistema organizzativo per proteggere il know-how aziendale implica che venga ridisegnato lo schema organizzativo aziendale. Occorre infatti che le imprese adottino un’ottica di accountability preventiva, che contempli idonei presidi di sicurezza fisica, logica e tecnologica, in linea con le sempre più sofisticate modalità di gestione e acquisizione delle informazioni (e quindi anche di sottrazione di segreti aziendali), rese possibili dalle nuove tecnologie.

L’importanza di assumere misure idonee a proteggere adeguatamente il know-how rileva tra l’altro anche sotto il profilo societario; l’attività di protezione del segreto commerciale, soprattutto quando lo stesso è di rilevante importanza per la singola impresa, costituisce infatti un dovere specifico degli amministratori, in quanto rientrano tra i doveri loro imposti dalla legge e dello statuto ai sensi dell’art. 2932 c.c.

Ne consegue che, in caso di sottrazione o dispersione del know-how aziendale, gli amministratori i quali non siano in grado di dimostrare di avere adottato un idoneo sistema, sistematico e coerente, di protezione dei segreti commerciali aziendali, possono incorrere in responsabilità nei confronti della società, dei soci e dei terzi.

4.1 Le misure giuridiche di protezione del know-how

Le misure giuridiche di protezione del know-how consistono in vincoli  contrattuali nei confronti dei terzi che possano dovere accedere alle informazioni riservate e policy aziendali interne.

In primo luogo, il know-how può essere protetto da specifiche clausole di riservatezza e segretezza inserite nei contratti di lavoro con dipendenti o collaboratori e finalizzate a rendere manifesto che le informazioni ottenute e divulgate dovranno essere considerate riservate ed il relativo utilizzo dovrà essere circoscritto allo specifico ambito che ha giustificato la divulgazione.

In secondo luogo, è opportuno stipulare appositi patti di non concorrenza con i dipendenti, nei quali dovranno essere elencati analiticamente i documenti e delle informazioni trasmesse.

In terzo luogo, è opportuno predisporre misure interne aziendali, come protocolli di segretazione, ordini di servizio e circolari interne, e protocolli di comportamento standard da attivare nei casi di aggressione.

Rientrano infine tra le misure di tipo giuridico l’adozione di apposite policy, procedure aziendali interne e codici di condotta, finalizzati a manifestare ai dipendenti che determinate informazioni, documenti o dati devono essere considerati riservati e che, pertanto, il loro utilizzo, circolazione o divulgazione è limitato.

4.2 Le misure fisiche di protezione del know-how

Il know-how deve essere protetto anche da una serie di adeguate misure fisiche, costituite da tecniche informatiche e organizzative finalizzate ad impedire l’accesso a terzi esterni all’organizzazione imprenditoriale alle conoscenze riservate.

Rientrano tra tali misure, ad esempio:

  • custodire in appositi contenitori non accessibili ai dipendenti disegni tecnici o formule chimiche;
  • stabilire soglie di accesso a sicurezza crescente per dipendenti e collaboratori in base al grado di confidenzialità dell’informazione;
  • stabilire misure di protezione dei documenti elettronici e delle reti telematiche anche mediante apposite password e username (valutando altresì specifici accorgimenti sulle password da utilizzare, tra cui l’eliminazione della facoltà di utilizzare password contenti esclusivamente vocali, l’imposizione di rinnovare la password dopo un determinato breve periodo, l’automatica cancellazione o invalidazione del profilo in caso di ripetuta erronea digitazione, etc.) e sistemi di criptazione volti a preservare le informazioni segrete da indebite appropriazioni e/o divulgazioni ;
  • limitare gli accessi alla struttura, o a singole aree, mediante la predisposizione di appositi badge identificativi, rilasciati da appositi soggetti qualificati e solo a seguito di controlli sulle generalità dei soggetti e gli scopi dell’accesso;
  • predisporre documenti con apposite diciture di vietata riproduzione, con l’indicazione dell’appartenenza delle informazioni contenute nel documento stesso all’impresa;
  • suddividere internamente le singole aree produttive (tecnica, produzione, amministrazione, etc.) con conseguente limitazione dell’accesso alle aree stesse solo in virtù delle specifiche e giustificate esigenze produttive;
  • identificare dei materiali e dei macchinari adibiti alla produzione con appositi codici, i cui parametri di qualificazione sono riportati in speciali registri noti soltanto a soggetti nominalmente individuati;
  • individuare e nominare formalmente i soggetti incaricati di controllare il rispetto delle procedure di protezione e deputati a rilasciare le necessarie autorizzazioni alla cognizione o alla divulgazione.

Peraltro, le misure tecniche e organizzative che le imprese devono adottare per proteggere il proprio know-how possono coincidere, almeno in parte, con quelle che le stesse sono tenute ad adottare per assicurare la conformità ai principi della data protection imposti, ai fini privacy, dal GDPR .

E’ importante sottolineare che, per poter invocare la tutela del know-how prevista dal CPI, l’azienda deve effettivamente e adeguatamente vigilare circa l’osservanza delle misure di sicurezza adottate. In giurisprudenza, ad esempio, non è stata ritenuta sufficiente, ai fini della tutela del know-how, la password personale per i dipendenti, qualora risulti che questi ultimi non osservassero effettivamente le regole contenute nei documenti sulla sicurezza, né risultino livelli interni differenziati d’accesso ai vari contenuti aziendali.

5. Le misure di tutela del know-how previste dal Codice della Proprietà Industriale

In caso di violazione del know-how, è possibile anzitutto ricorrere alle mi­sure cautelari tipiche previste dal CPI:

  • descrizione;
  • sequestro;
  • inibitoria.

Si tratta di procedimenti che consentono di ottenere un provvedimento urgente, in tempi molto rapidi, senza dover attendere i tempi lunghi di un ordinario giudizio di merito, garantendo così alle imprese titolari una reazione tempestiva ed efficace.

Per poter richiedere tali misure cautelari, vi sono due presupposti generali:

  • fumus boni juris: occorre dimostrare un principio di fondatezza della domanda;
  • periculum in mora: occorre dimostrare che il tempo necessario per arrivare alla conclusione del giudizio potrebbe rivelarsi pregiudizievole per il proprio diritto; in proposito, la giurisprudenza prevalente ritiene che che il periculum insito nell’attività illecita, e per­tanto comunque presente qualora l’illecito sia ancora sussistente, fermo restando che tale requisito è assente qualora il procedimento venga avviato dopo molti mesi o anni dall’inizio e/o dall’apprendi­ mento dell’illecito.

5.1. La descrizione

La descrizione (artt. 129 e 130 CPI) è un procedimento cautelare di istruzione preventiva finalizzato a reperire e conservare la prova della violazione del diritto di proprietà industriale, quando il titolare non sia riuscito a reperirla altrimenti e vi sia il rischio che il contraffattore la alteri o la distrugga o che la prova vena comunque dispersa.

Il provvedimento di descrizione può riguardare:

  • oggetti che secondo il titolare costituiscono violazione del diritto di proprietà industriale;
  • elementi di prova concernenti la denunciata violazione e la sua entità;
  • ciò che si ritenga costituire violazione del diritto di utilizzazione economica o del diritto morale d’autore;

La descrizione può riguardare anche beni appartenenti a terzi, purché si tratti di oggetti prodotti, offerti, importati, esportati o mezzi in commercio dalla parte nei cui confronti sia stato emesso il provvedimento è purché tali oggetti non siano adibiti ad uso personale.

Il provvedimento di descrizione viene attuato su ordine del Giudice ad opera dell’Ufficiale Giudiziario, il quale accede ai luoghi indicati dal Giudice nel provvedimento, ai fini di verificare la sussistenza di elementi a dimostrazione della violazione del diritto. L’Ufficiale Giudiziario può essere coadiuvato da un consulente d’ufficio nominato dal Giudice, qualora le operazioni di descrizione presuppongano specifiche competenze tecniche e/o contabili; classico a tal riguardo il caso della descrizione di macchinari o processi produttivi che, per essere descritti, devono essere analizzati da un esperto del settore.

Per la descrizione è ammessa all’utilizzo da parte dell’Ufficiale Giudiziario e dei consulenti d’ufficio dei più ampi mezzi di riproduzione, quali ad esempio mezzi fotografici, mezzi fotomeccanici, mezzi audiovisivi, mezzi elettronici e informatici, ed anche l’eventuale prelevamento di campioni.

Dopo l’ottenimento del provvedimento di descrizione, vi è l’onere di introdurre il giudizio di merito entro i 60 giorni.

Tutto il materiale raccolto e l’eventuale relazione di C.T.U. svolta dal consulente nominato dal Giudice potranno essere utilizzati nel successivo giudizio di merito da parte del ricorrente, quale prova dell’intervenuta violazione del proprio diritto da parte del resistente.

5.2 Il sequestro

Il sequestro (artt. 129 e 130 CPI) ha invece, ha lo scopo principale di sottrarre alla disponibilità del contraffattore gli oggetti che costituiscono violazione del diritto di privativa ed i relativi mezzi di produzione.

In particolare, il sequestro ha:

  • una funzione interdittiva, volta a impedire al contraffattore la prosecuzione della violazione dei diritti altrui mediante sottrazione alla sua disponibilità di alcuni beni.
  • una funzione probatoria, diretta alla apprensione di alcuni esemplari di beni oggetto di violazione (analogamente alla descrizione).

Il sequestro può colpire alcuni o tutti gli oggetti costituenti violazione del diritto azionato, i mezzi adibiti alla produzione dei medesimi, gli elementi di prova concernenti la denunciata violazione e la sua entità. Il sequestro può anche avere ad oggetto prodotti con­traffatti esposti in fiere, esposizioni ufficiali o riconosciute ufficialmente nello Stato, nonché in transito da o per le stesse.

All’esecuzione del sequestro provvede l’Ufficiale Giudiziario con l’assistenza, qualora lo preveda il provvedimento del Giudice, dei periti e dei legali rappresentanti delle parti. I beni sequestrati, che possono appartenere anche a soggetti terzi, sono conservati da un custode nominato dal Giudice o dall’Ufficiale Giudiziario.

5.3 L’inibitoria

L’inibitoria ha lo scopo di impedire l’utilizzo del know-how. L’art. 131, comma 1, CPI prevede infatti che il titolare di un diritto di proprietà industriale possa chiedere che venga impedita qualsiasi violazione imminente del suo diritto e del proseguimento o della ripetizione delle violazioni in atto. In particolare, il titolare può chiedere che siano disposti l’inibitoria della fabbricazione del commercio e dell’uso delle cose costituenti la violazione del diritto.

Essa consiste in un ordine di non fare rivolto ad un determinato soggetto affinché questo si astenga dal compiere violazioni imminenti del diritto e/o cessi violazioni del diritto già in corso.

Nel pronunciare l’inibitoria, il Giudice può fissare una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento di inibitoria, in modo da assicurare il rispetto da parte di colui che ha violato il diritto di proprietà industriale del provvedimento che si ritiene sostanzialmente infungibile e non suscettibile di esecuzione forzata.

Oltre all’ordine di inibitoria il Giudice può anche disporre l’ordine di provvisorio ritiro del commercio dei beni in contraffazione, con il quale si realizza l’interesse del titolare del diritto a che il bene oggetto della violazione non circoli più nella rete commerciale. L’ordine di ritiro dal commercio, quindi, permette al titolare del diritto di eliminare dal mercato prodotti o servizi che vi sono entrati senza il suo consenso.

Il Giudice può inoltre, su istanza di parte, in alternativa all’applicazione della misura cautelare, autorizzare la parte interessata a continuare ad utilizzare i segreti commerciali prestando idonea cauzione per l’eventuale risarcimento dei danni subiti dal legittimo detentore.

5.4 Il risarcimento del danno

In caso di violazione del know-how, l’impresa detentrice dello stesso può altresì ottenere il risarcimento del danno.

La funzione del risarcimento del danno è di:

  • riparare il danno subito dal titolare del diritto leso reintegrando nella posizione patrimoniale originaria e controbilanciando tutti gli effetti negativi che la violazione ha esercitato sul corretto svolgimento dell’attività di mercato;
  • costituire un deterrente alla contraffazione.

L’obbligo di risarcire il danno prescinde dall’esistenza di un precedente rapporto fra le parti e sorge al verificarsi dei seguenti presupposti previsti la legge, che devono essere provati dal danneggiato:

  • il fatto illecito che nel caso di specie è la violazione del diritto di proprietà industriale;
  • il dolo o la colpa del danneggiante;
  • il nesso di causalità ovverosia il fatto che il danno è stato provocato dal comportamento dell’agente e non da altre circostanze;
  • il danno ovverosia il pregiudizio subito dal titolare del diritto leso.

La quantificazione del danno è piuttosto complessa e si basa su valutazioni non soltanto di natura giuridica ma soprattutto di natura economico-aziendale.

In proposito, l’art. 125 CPI prevede la quantificazione del danno deve essere operata tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della violazione e, il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione.

Il danno emergente coincide generalmente con le spese vanificate dall’illecito, ovvero quelle affrontate per ovviare alla contraffazione, quelle ricollegabili agli oneri sostenuti per l’acquisizione delle prove, le spese legali, quelle relative ai costi dei dipendenti interni impiegati nella reazione al comportamento illecito e quelle collegate agli investimenti pubblicitari documentati.

Il lucro cessante, ovvero la perdita dei profitti subita dal titolare del diritto, viene valutato alla luce di tutti i fatti rilevanti del caso concreto. A tal fine è di solito effettuata una consulenza tecnica d’ufficio per valutare quale sarebbe la situazione del mercato in assenza della violazione. Il criterio di quantificazione prevalentemente utilizzato è quello del c.d. “margine operativo lordo” (MOL), per il quale il mancato guadagno o profitto del titolare è dato dalla differenza tra i flussi di vendita che lo stesso avrebbe realizzato senza la contraffazione e quelli che ha effettivamente realizzato. La giurisprudenza ha tuttavia evidenziato che non sempre vi è una vera e propria diminuzione delle vendite del titolare, potendoci essere una mera riduzione del potenziale di vendita.

Il danno non patrimoniale consiste nel danno all’immagine del titolare dei diritti violati, il danno per diminuito valore del diritto di proprietà industriale violato e per la riduzione delle opportunità di utilizzare proficuamente detto diritto (ad es., dandolo in licenza), i danni reputazionali e l’avviamento. Tale voce di viene generalmente quantificata dal Giudice utilizzando criteri equitativi.

Ai sensi dell’art. 125 comma 2 CPI, qualora l’accertamento dell’ammontare del danno sia impossibile o sproporzionalmente dispendioso rispetto ai tempi e ai costi che una consulenza contabile necessariamente richiede, o qualora il titolare del diritto violato non indichi diversi criteri ragionevoli, il lucro cessante viene determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso (c.d. criterio del “giusto prezzo del consenso”, o “giusta royalty”). Tale criterio rappresenta una semplificazione probatoria circa l’ammontare del danno, potendo il giudice liquidarlo avendo riguardo anche solo ad elementi indiziari offerti dal danneggiato.

Per determinare il valore economico della royalty, ossia del consenso che il titolare del diritto avrebbe prestato in condizioni normali, si fa riferimento alle condizioni normalmente praticate dal titolare del diritto violato nei confronti di altri soggetti licenziatari (tenendo cioè conto degli eventuali contratti già conclusi dal titolare), o in mancanza alla royalty praticata per prodotti o servizi analoghi.

Infine, l’art. 125, comma 3 CPI dispone che in ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento (c.d. criterio della “retroversione degli utili”).

Si tratta di sanzione autonoma, avente funzione deterrente e quasi sanzionatoria, in quanto volta a rimuovere l’arricchimento illecito che si è realizzato nel patrimonio dell’autore della violazione e a restituire i relativi profitti al titolare del diritto.

Per approfondire i nostri servizi di assistenza e consulenza in tema di diritto industriale, visionate la pagina dedicata del nostro sito .

 

Avv. Valerio Pandolfini

Avvocato Diritto Societario Consulenza Legale

 

Per altri articoli di approfondimento su tematiche attinenti il diritto d’impresa: visitate il nostro blog.

 


Le informazioni contenute in questo articolo sono da considerarsi sino alla data di pubblicazione dello stesso; le norme regolatrici la materia potrebbero essere nel frattempo state modificate.
Le informazioni contenute nel presente articolo hanno carattere generale e non sono da considerarsi un esame esaustivo né intendono esprimere un parere o fornire una consulenza di natura legale. Le considerazioni e opinioni riportate nell’articolo non prescindono dalla necessità di ottenere pareri specifici con riguardo alle singole fattispecie.
Di conseguenza, il presente articolo non costituisce un (né può essere altrimenti interpretato quale) parere legale, né può in alcun modo considerarsi come sostitutivo di una consulenza legale specifica. 

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