La concorrenza sleale dell’ex dipendente
In generale è lecito che un ex dipendente svolga attività in concorrenza con la precedente azienda per cui lavorava, venendo assunto da un’azienda concorrente o iniziando un’attività concorrenziale in proprio. Ma vi sono dei limiti allo svolgimento di un’attività lavorativa da parte dell’ex dipendente, superati i quali tale l’attività diventa illecita, in quanto concorrenza sleale fonte di responsabilità dell’ex dipendente. Le ipotesi di concorrenza sleale sono elencate dall’art. 2598 c.c. Il caso più comune è lo sviamento di clientela da parte dell’ex dipendente. Affinché tale comportamento sia illecito occorre che l’ex dipendente si accaparri la clientela dell’ex datore di lavoro sfruttando informazioni riservate. Nei confronti di atti di concorrenza sleale da parte dell’ex dipendente è possibile difendersi ottenendo la cessazione della condotta in via cautelare, e/o il risarcimento del danno.
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1. Quando l’ex dipendente commette un atto di concorrenza sleale?
Nella dinamica concorrenziale che caratterizza il mercato del lavoro, è fisiologico – e lecito, sotto il profilo giuridico – che un soggetto che ha prestato attività lavorativa come dipendente di un’azienda, una volta cessato il proprio rapporto di lavoro con la stessa (in seguito a dimissioni o a licenziamento, o al termine della durata del rapporto di lavoro) svolga la propria attività lavorativa nello stesso ambito in cui lavorava in precedenza nella precedente azienda, sfruttando le competenze, conoscenze ed abilità maturate nel periodo in cui lavorava in quest’ultima.
È quindi lecito, in via generale, che l’ex dipendente continui a svolgere la propria attività in concorrenza con la precedente azienda per cui lavorava, venendo assunto quindi da un’azienda concorrente o iniziando un’attività concorrenziale in proprio (ad esempio costituendo una nuova società).
Anche se tale situazione, naturalmente, danneggia spesso l’azienda, la quale si trova a perdere un dipendente che costituiva per l’azienda stessa un valore aggiunto, sul quale magari aveva investito negli anni, e che vede improvvisamente diventare un concorrente, o comunque lavorare per le aziende concorrenti.
Ma vi sono dei limiti allo svolgimento di un’attività lavorativa da parte dell’ex dipendente, superati i quali non si tratta di un’attività lecita bensì illecita, in quanto concorrenza sleale, in quanto tale fonte di responsabilità dell’ex dipendente (e in taluni casi anche nell’articolo esaminato le ipotesi in cui l’assunzione di un ex dipendente da parte di un’impresa concorrente è illecita (storno di dipendenti). In questo articolo esaminiamo invece le ipotesi in cui la prosecuzione dell’attività degli ex dipendenti in proprio costituisce concorrenza sleale, e quindi illecita.
Prima di soffermarci su tale fattispecie, occorre evidenziare che vi sono degli strumenti preventivi che l’azienda può utilizzare per proteggere i propri dati relativi alla clientela e le altre informazioni aziendali riservate; in particolare, è possibile adottare una efficace policy aziendale. L’utilizzo di questo strumento è divenuto ancora più importante e diffuso a seguito dell’emergenza Covid-19, per effetto della quale molti dipendenti hanno iniziato a lavorare in modalità smart working, rendendo così più facile ai lavoratori adottare comportamenti infedeli o sleali più difficile al datore di lavoro controllarne l’operato, in assenza di un contatto diretto.
Inoltre, vi sono delle ipotesi in cui l’esercizio di attività lavorativa in concorrenza da parte di un ex dipendente è sempre illecita: si tratta delle ipotesi in cui l’ex dipendente aveva sottoscritto con l’azienda un patto di non concorrenza, impegnandosi a non svolgere attività concorrenziale per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. È questo sicuramente lo strumento più efficace con cui un’azienda può tutelarsi, per evitare che il proprio know-how possa essere sfruttato illecitamente da un ex dipendente.
2. La concorrenza sleale dell’ex dipendente
Al di fuori di questa ipotesi in cui sia stato sottoscritto con il dipendente un patto di non concorrenza, quando l’ex dipendente il quale costituisca o lavori in un’altra azienda in concorrenza economica con quella presso cui lavorava in precedenza – cioè decida di intraprendere un’autonoma attività imprenditoriale della stessa natura, dello stesso genere o comunque nello stesso settore di quella svolta dall’ex datore di lavoro – compie un atto di concorrenza sleale?
Occorre evidenziare che, una volta terminato il contratto di lavoro, viene meno anche l’obbligo di fedeltà e correttezza nei confronti del datore di lavoro; in cui il dipendente è tenuto ai sensi dell’art. 2105 c.c.; in altri termini, l’utilizzo delle conoscenze e dei rapporti commerciali da parte di un ex dipendente, non vincolato da un legittimo patto di non concorrenza è lecito. Pertanto, l’ex dipendente è in linea di principio libero di esercitare attività in concorrenza con l’ex datore di lavoro, purché tale attività non costituisca un caso di concorrenza sleale.
La concorrenza sleale è disciplinata dall’art. 2598 del Codice Civile, il quale stabilisce che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
- usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente (art. 2598 n. 1 c.c.);
- diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente (art. 2598 n. 2 c.c.);
- danneggia l’azienda concorrente utilizzando qualsiasi mezzo che viola i presupposti della correttezza professionale (art. 2598 n. 3 c.c.).
L‘ex dipendente è dunque responsabile per concorrenza sleale qualora compia atti che generano confusione con i prodotti o servizi dell’ex azienda, ai sensi dell’art. 2598 n. 1 c.c. (e quindi, ad es, utilizzi un marchio simile a quello dell’ex azienda, o imiti servilmente i prodotti dell’ex azienda, cioè riproduca la forma esteriore del prodotto, in modo da ingenerare confusione nei consumatori), o, compia atti denigratori nei confronti dell’ex datore di lavoro, o si appropri di pregi riguardanti prodotti o servizi dell’ex azienda, ai sensi dell’art. 2598 n. 2 c.c.. Ci siamo soffermati diffusamente su tali atti in un altro articolo.
Generalmente, tuttavia, gli atti di concorrenza sleale commessi dall’ex dipendente rientrano nella terza categoria sopra descritta, ovvero gli atti non conformi alla correttezza professionale (art. 2598 n. 3 c.c.); si tratta di una clausola generale, che ricomprende tutti i comportamenti illeciti diversi dalle due precedenti categorie quelli specificatamente descritti, ovvero un ampio numero di condotte, quali ad es. la pubblicità ingannevole, lo storno di dipendenti, le vendite sottocosto, il boicottaggio, la concorrenza parassitaria, etc.. Anche su tali atti ci siamo soffermati diffusamente in un altro articolo.
Una delle condotte contrarie alla correttezza professionale che più spesso viene effettuata dagli ex dipendenti consiste nello sviamento della clientela. Ciò si verifica quando l’ex dipendente, dopo avere intrapreso un’autonoma attività imprenditoriale, o essere stato assunto in un’azienda concorrente, acquisisce sistematicamente clienti del precedente datore di lavoro, in virtù delle informazioni e conoscenze riservate precedentemente acquisite.
3. Lo sviamento di clientela da parte dell’ex dipendente
La concorrenza sleale per sviamento di clientela è una fattispecie che deve essere opportunamente contestualizzata. Il tentativo da parte dell’ex dipendente di entrare in contatto con il cliente dell’ex azienda, e finanche la sua “acquisizione”, non sono di per sé illeciti, rientrando nel gioco della libera concorrenza. È infatti fisiologico (e dunque legittimo) che l’ex dipendente, nel corso della nuova attività intrapresa dopo lo scioglimento del rapporto di lavoro, proponendo e promuovendo sul mercato tale sua nuova attività, acquisisca o tenti di acquisire anche alcuni clienti che erano già in rapporti con l’impresa alle cui dipendenze aveva prestato lavoro, sfruttando le conoscenze acquisite nella precedenze esperienza lavorativa per superare le difficoltà iniziali che sono tipiche di una nuova impresa commerciale.
Come pure è in linea di principio lecito che l’ex dipendente, nel promuovere la propria nuova attività imprenditoriale, formuli ai potenziali clienti (ivi compresi quelli con i quali aveva contatti lavorativi in precedenza) proposte commerciali migliorative, e più competitive, rispetto a quelle dell’ex azienda presso cui lavorava, essendo notorio (e lecito)che un’impresa di nuova costituzione attui spesso politiche commerciali aggressive per entrare in un nuovo mercato e ritagliarsene una fetta.
Affinché l’appropriazione della clientela dell’ex datore di lavoro da parte dell’ex dipendente costituisca un illecito sviamento di clientela, occorre che essa sia ottenuta, direttamente, o indirettamente con un mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale. Si tratta dunque di un accertamento da effettuare caso per caso, analizzando le concrete modalità con cui opera un ex dipendente.
Il caso tipico in cui l’ex agente sottrae illecitamente – cioè, violando appunto la correttezza professionale – clienti al suo ex datore di lavoro è quello che si verifica allorché lo stesso raggiunge questo risultato sfruttando informazioni riservate (conoscenze, competenze, know how, contatti e rapporti) acquisite nel corso del suo precedente impiego. Nella prassi, le informazioni riservate che ex dipendenti utilizzano più comunemente in modo illecito sono costituite da:
- listino prezzi;
- condizioni commerciali e di vendita;
- caratteristiche e schede tecniche dei prodotti;
- archivio clienti e contatti.
Affinché possa configurarsi tale illecito occorre tuttavia che le informazioni acquisite durante il precedente rapporto di lavoro dall’ex dipendente ed utilizzate per acquisire la clientela dell’ex azienda, pur non dovendo essere necessariamente segrete, ai sensi dell’art. 98 del Codice della Proprietà intellettuale (ad es. perché le informazioni aziendali sono facilmente accessibili o non adeguatamente protette), siano, comunque, effettivamente riservate, cioè non ricavabili in altri modi e non connesse alle proprie capacità professionali.
In altri termini, non può ritenersi scorretto – in assenza di un valido patto di non concorrenza – il fatto che l’ex dipendente contatti o invii proposte commerciali alla clientela da questi conosciuta durante la precedente attività lavorativa; è infatti fisiologico (e legittimo) che l’ex dipendente che intraprenda una nuova attività d’impresa si proponga anche a clienti da lui conosciuti e presso i quali aveva prestato la sua attività come dipendente o collaboratore, che rientrano nel proprio patrimonio professionale e personale.
Deve invece ritenersi una illecita condotta di sviamento della clientela – in quanto tale fonte di responsabilità – una sistematica e massiva attività di contatto di clienti da parte dell’ex dipendente, rivolta non solo ai clienti con i quali aveva lavorato in precedenza ma a un vasto numero di contatti, ottenuti accedendo ad una banca dati – cioè a un complesso strutturato e organizzato di dati – cui aveva accesso lavorando nella precedente azienda, magari utilizzando ulteriori dati riservati di quest’ultima come listini prezzi, schede tecniche, etc.
In tal modo, infatti, l’ex dipendente acquisisce un vantaggio competitivo che trascende le proprie capacità mnemoniche ed esperienze, senza sostenere i costi che sarebbero stati necessari se avesse ottenuto autonomamente tali dati.
Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto illecito (anche in assenza di un patto di non concorrenza) il comportamento dell’ex lavoratore che:
- forte dei contatti che si erano creati nell’impresa del datore, aveva indotto i vecchi clienti del datore a cambiare, recandosi presso l’impresa da poco costituita;
- aveva utilizzato le tecniche di costruzione di impianti caldaia apprese presso la precedente impresa in cui aveva lavorato per produrre i macchinari della ditta fondata da poco dallo stesso;
- aveva utilizzato dati tecnici e commerciali della sua ex azienda per formulare offerte più vantaggiose alla clientela;
- aveva proposto a un fornitore in esclusiva di utensili dell’ex datore di lavoro di fornirgli gli stessi utensili, ostentando presso la propria qualità di ex dipendente e proponendo prezzi scontati.
4. Concorrenza sleale dell’ex dipendente: come difendersi?
Come è possibile reagire di fronte a comportamenti di concorrenza sleale da parte degli ex dipendenti?
In primo luogo, è possibile agire in via cautelare urgente, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., con una c.d. azione inibitoria, cioè ottenere un provvedimento che ordini la cessazione della condotta illecita da parte dell’ex dipendente.
Per ottenere tale provvedimento, occorre dimostrare:
- il fumus boni juris, cioè che l’ex dipendente si è appropriato di clientela in modo illecito;
- il periculum in mora, ciò che il comportamento dell’ex dipendente ha causato e sta causando un danno gravissimo; ciò implica che occorre agire in giudizio molto celermente.
In secondo luogo, è possibile chiedere all’ex dipendente il risarcimento dei danni. Questi potranno consistere in:
- lucro cessante, cioè mancati guadagni (calo di fatturato) da parte dell’impresa che abbia subìto lo sviamento di clientela;
- danno emergente, cioè spese che l’impresa ha dovuto affrontare a seguito della perdita di clientela (ad es. spese promozionali, spese per reclutare nuovi dipendenti, etc.).
Attenzione però: l’onere della prova spetta al danneggiato. Quindi per poter ottenere il risarcimento del danno, l’impresa deve dimostrare:
- che l’ex dipendente si è appropriato dei propri clienti in modo illecito (cioè sfruttando informazioni riservate);
- che a causa di questo comportamento illecito ha subìto un danno, cioè abbia subìto una effettiva perdita di fatturato o abbia dovuto sostenere costi aggiuntivi.
Non si tratta di elementi facili da dimostrare; per tale motivo, spesso la liquidazione del danno viene effettuata dal Giudice su base equitativa – in particolare per ciò che attiene al danno di immagine – ma pur sempre sulla base di indici che l’azienda deve dimostrare.
In particolare, il danno da lucro cessante derivante dalla concorrenza sleale relativa al prodotto dell’impresa concorrente, può essere determinato attraverso l’analisi dei bilanci, ovvero dei conti economici dell’impresa danneggiata, purché si identifichi lo spazio di mercato dentro il quale la confondibilità, che costituisce l’essenza dell’illecito, è stata realizzata.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato Contrattualistica d’Impresa
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