La morte del socio nelle società: quali conseguenze giuridiche?
La morte di un socio nelle società, sia di persone che di capitali, può comportare uno sconvolgimento degli equilibri all’interno della compagine sociale; ciò accade soprattutto quando il socio abbia un particolare ruolo all’interno della società (si pensi al caso in cui sia amministratore unico, o abbia un diritto particolare nelle S.r.l., oppure sia titolare di una quota superiore rispetto agli altri soci). Una società ha un’esistenza propria, indipendente da quella dei suoi soci: essa può continuare ad esistere anche se i soci muoiono, oppure può essere sciolta e messa in liquidazione anche se i suoi soci sopravvivono. Analizziamo quali conseguenze derivano per i soci superstiti e gli eredi in caso di morte di un socio nelle società di persone e di capitali, e come è possibile evitare che la società subisca delle battute d’arresto nell’attività, a seguito del venire meno di un socio.
1. La disciplina della morte del socio nelle società di persone
Nelle società di persone (società semplice, S.n.c., S.a.s.) il decesso di un socio non comporta la trasmissione mortis causa della sua qualità agli eredi: lo status soci, infatti, comprende posizioni soggettive che non possono essere trasmesse agli eredi senza il loro consenso (basti pensare alla responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali).
Conseguentemente, non è concesso agli eredi alcun potere di interferire negli affari sociali, sia in ordine all’eventualità dello scioglimento della società, sia in ordine alla possibilità di continuarla con i soci superstiti; ciò in quanto l’ingresso in società degli eredi è subordinato ad un accordo (espresso o tacito) con i soci superstiti.
La vicenda successoria della partecipazione del socio di società di persone è regolamentata da due norme:
- l’ 2284 c.c. dettato in tema di società semplice, ed applicabile ai soci con responsabilità illimitata, ovvero (oltre che alla società semplice), alla S.n.c. e alla S.a.s., limitatamente alla posizione del socio accomandatario;
- l’ 2322 c.c., dettato in tema di S.a.s., che riguarda esclusivamente il socio con responsabilità limitata, ovvero il socio accomandante.
Nelle società di persone, nelle quali la persona del socio assume un ruolo fondamentale nelle dinamiche di impresa, la partecipazione sociale non è liberamente trasmissibile. L’acquisto della qualità di socio che comporti l’assunzione di una responsabilità illimitata per tutte le obbligazioni sociali non può che essere l’espressione di un atto volontario dell’erede stesso, nel rispetto del principio di libertà di iniziativa economica privata sancito dall’art. 41 Cost. In altri termini, non è possibile diventare imprenditori, neppure per via successoria, senza averlo espressamente voluto. L’unico diritto direttamente trasmissibile è il diritto di ottenere la liquidazione del socio defunto.
In altri termini, se muore un socio di società di persone, si scioglie immediatamente e definitivamente il vincolo tra società e socio deceduto e gli eredi non subentrano automaticamente nella posizione del socio defunto – salvo apposita clausola di continuazione (v. par. 1.5) nel contratto sociale – ma hanno solo diritto ad ottenere dalla società la liquidazione della quota del socio defunto. Gli eredi, in sostanza, non si considerano soci, ma meri creditori della società relativamente alla quota del socio defunto ad essi spettante.
L’art. 2284 c.c. prevede infatti che – salvo diversa disposizione dello statuto – alla morte del socio i soci superstiti hanno una triplice opzione:
- liquidare la quota del de cuius agli eredi;
- sciogliere direttamente la società;
- continuare la società con gli eredi del socio defunto, sempre che questi vi acconsentano.
L’art. 2284 c.c. non prevede un termine entro il quale i soci superstiti devono effettuare la scelta di una delle tre opzioni di cui sopra; si ritiene tuttavia che tale scelta debba essere compiuta entro 6 mesi dalla morte del socio, in quanto entro tale termine deve essere effettuato il pagamento della quota di liquidazione a favore degli eredi (v. par. 1.1.).
Qualora manchi l’indicazione testamentaria delle frazioni della quota di partecipazione del de cuius, salvo diversa apposita clausola statutaria, gli eredi beneficiari risultano contitolari della stessa, in comunione ereditaria pro indiviso, che potrà essere sciolta mediante atto di divisione.
L’art. 2322, 1° comma, c.c. prevede invece, a proposito della morte del socio accomandante nella S.a.s., che la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte. Pertanto, nel caso di morte del socio accomandante gli eredi, purché abbiano accettato l’eredità, acquistano la qualità di soci accomandanti della società di cui faceva parte il de cuius.
La diversità di disciplina rispetto a quanto previsto dall’art. 2284 c.c. a proposito dei soci illimitatamente responsabili deriva dalla diversa natura della partecipazione del socio accomandante. Poiché infatti quest’ultimo non assume una responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, manca quel requisito di imprenditorialità che, come visto, impedisce la trasmissibilità per causa di morte della partecipazione del socio a responsabilità illimitata.
La trasmissibilità iure successionis della quota dell’accomandante non impedisce, peraltro, che nei patti sociali venga inserita una clausola che ne stabilisca, invece, la sua intrasmissibilità in caso di morte del socio, con la conseguenza, in questo caso, che i soci superstiti saranno tenuti, nei confronti degli eredi del socio defunto, alla liquidazione della sua quota.
1.1 La liquidazione della quota del socio defunto
Come si è accennato, in caso di morte di un socio di S.n.c. – come pure in caso di morte del socio accomandatario nella S.a.s. – l’art. 2284 c.c. contempla tre alternative, salvo diversa clausola eventualmente presente nello statuto.
La prima ipotesi è la liquidazione della quota del socio deceduto; si tratta dell’ipotesi “normale”, cioè operante per legge in assenza di diversa volontà delle parti coinvolte o previsione del contratto sociale. Ai sensi dell’art. 2284 cod. civ., in altre parole, è fisiologico che la morte del socio determini lo scioglimento del rapporto sociale con riguardo a quest’ultimo, in considerazione del carattere intuitu personae che caratterizza la partecipazione a società di persone.
Gli eredi del socio, pertanto, non entrano a far parte della società, ma conseguono solo il diritto alla liquidazione della quota del defunto. Tale diritto integra solo un diritto di credito, ed essi sono, pertanto, creditori della società, e non soci di essa. Nella massa ereditaria da dividere, dunque, rientrerà anche il credito alla liquidazione di cui all’art. 2284 c.c.
La liquidazione deve avvenire entro sei mesi dalla morte del socio e sulla base dell’effettivo patrimonio della società, e non del valore nominale della partecipazione al capitale. Tale quota dovrà quindi essere calcolata non facendo esclusivo riferimento al mero valore contabile risultante dall’ultimo bilancio sociale, bensì sulla base della situazione patrimoniale della società, quale risultante al momento in cui si è verificata la morte del socio, tenendo conto del valore dei beni materiali e immateriali posseduti dalla società (avviamento, marchio, eventuali licenze, contrati, etc.).
Si ritiene in tal caso necessaria la redazione di un vero e proprio bilancio volto ad individuare il valore netto patrimoniale della società nel giorno di riferimento. Si tratta di un bilancio:
- straordinario in quanto diretto a stabilire l’effettivo valore dei beni che compongono il patrimonio sociale, (non quello prudenziale risultante dal bilancio di esercizio, ove redatto, o dalle altre scritture contabili), tenendo conto dell’avviamento e dei valori effettivi degli elementi patrimoniali alla data considerata;
- aperto, in quanto deve comprendere la valutazione di situazioni in fieri al momento dello scioglimento.
Per il calcolo dell’ammontare di liquidazione della quota sociale, la giurisprudenza ritiene che il metodo valutativo più attendibile sia costituito dal modello misto patrimoniale-reddituale, che determina il valore aziendale in base alla sommatoria dei risultati forniti dal metodo patrimoniale e dal metodo reddituale, rilevando altresì il valore dell’avviamento commerciale. Nella prassi, particolare rilievo nel calcolo della quota di liquidazione assumono i beni immobili, che rappresentano una parte cospicua del patrimonio delle società personali e segnatamente delle società semplici, visto il largo utilizzo del modello societario come strumento di protezione patrimoniale.
Inoltre, al fine di assicurare la congruità della valutazione, ,qualora esistano operazioni in corso, gli eredi sono chiamati a partecipare agli utili e alle perdite ad esse relative (art. 2289 comma 3 c.c.). Con tale termine si intendono tutte le operazioni che, pur se non in atto al momento dello scioglimento del rapporto sociale, siano conseguenza necessaria ed inevitabile dei rapporti giuridici preesistenti (ad es. le rate di mutuo stipulato prima dello scioglimento del rapporto sociale cui la scadenza si verifichi successivamente). In altri termini, gli eredi del socio defunto partecipano anche ai guadagni e delle perdite contratte durante lo svolgimento dell’attività sociale e fino al momento dello scioglimento del rapporto sociale relativo al socio premorto.
Quanto ai beni conferiti in proprietà o in godimento, durante la vita della società, gli eredi non possono pretendere la loro restituzione, ma, salvo patto contrario, hanno diritto esclusivamente ad ottenere il controvalore dell’utilità che la società ricava dal bene.
Il debito liquidatorio deve essere trattato alla stregua di qualsiasi altro debito sociale, e quindi soddisfatto mediante l’utilizzo dell’attivo patrimoniale netto (utili e riserve esistenti nel patrimonio sociale eccedenti il capitale sociale nominale). Pertanto, in caso di incapienza del patrimonio sociale, gli eredi non potranno ottenere alcuna liquidazione della quota. D’altra parte, possono sorgere notevoli problematiche qualora la società abbia un patrimonio notevole (ad esempio perché proprietaria di beni immobili), ma allo stesso tempo abbia scarsa liquidità nelle casse sociali.
La norma di cui all’art. 2289 c.c. è tuttavia derogabile; i soci possono quindi prevedere specifiche pattuizioni relative alla modalità e termini per la liquidazione della quota del socio deceduto. Nella prassi, le clausole previste negli statuti in deroga al regime legale possono ad es. prevedere:
- il diritto degli eredi all’attribuzione di beni in natura compresi nel patrimonio sociale, anziché il diritto ad una somma di denaro;
- il diritto degli eredi esclusivamente alla restituzione del conferimento effettuato dal socio (ad es. il rimborso in base al valore nominale del capitale sociale o la restituzione in natura del bene conferito in proprietà o in godimento);
- la valutazione del patrimonio sociale (e della quota da liquidare) sulla base della situazione patrimoniale relativa all’ultimo esercizio chiuso prima della morte del socio;
- una selezione degli elementi patrimoniali dell’attivo rilevanti per la valutazione della situazione patrimoniale rilevante della società (ad es. specifici criteri per individuare il valore dell’avviamento, esclusione di alcune componenti dell’avviamento correlati a valori di mercato mutevoli, etc.)
I soci possono altresì inserire nello statuto un termine di adempimento dell’obbligo di liquidazione della quota diverso dai 6 mesi previsto per legge, o la possibilità di un pagamento rateale, con o senza interessi.
In ogni caso, il valore della quota liquidata agli eredi deve essere correlato alla effettiva situazione patrimoniale della società al giorno della morte del socio. Sono quindi nulle le previsioni che escludono qualsiasi liquidazione a favore degli eredi del valore della partecipazione del socio defunto, in quanto gli eredi – titolari iure successionis del diritto facente capo al socio premorto – sarebbero così esclusi da ogni partecipazione agli utili della società, in violazione del divieto di patto leonino (art. 2265 c.c.).
Il diritto alla liquidazione della quota spettante agli eredi del socio deve essere fatto valere nei confronti della società – e debba quindi essere soddisfatto sul patrimonio sociale – e non dei singoli soci. La giurisprudenza prevalente individua, infatti, nella società il soggetto su cui grava tale obbligo, in quanto è pacificamente riconosciuta a quest’ultima la qualifica di autonomo centro di diritti e doveri.
1.2 La prosecuzione della società con gli eredi
In alternativa alla liquidazione della quota, l’art. 2284 cod. civ. consente che la società prosegua con gli eredi del socio defunto. In tal caso, però, è indispensabile una espressa volontà al riguardo, manifestata tanto dai soci superstiti quanto dagli eredi del defunto.
In altri termini, alla morte del socio il rapporto sociale si scioglie, ma è in facoltà dei soggetti coinvolti decidere, con apposito atto fra vivi, di proseguire il rapporto sociale. In tale evenienza, dunque, gli eredi (o alcuni di essi) subentrano nella società, perdendo, evidentemente, il diritto alla liquidazione.
In caso di più eredi e in assenza di volontà espressa, si ritiene che la quota sociale del defunto si divida tra gli eredi, per cui ciascuno subentra in proporzione delle sue ragioni ereditarie. Eventuali eredi dissenzienti o non graditi ai soci superstiti devono essere in ogni caso liquidati pro quota.
Se viene fatta questa scelta, i soci superstiti e i successori devono recarsi da un notaio e formalizzare un negozio di continuazione (o di subingresso). Si tratta di un atto tra vivi con il quale i successori del socio defunto – tutti o solo quelli graditi ai soci superstiti – utilizzano il credito che avrebbero in caso di liquidazione per entrare a far parte della società, senza alcun vincolo di effettuare conferimenti in quanto valgono a tal fine i conferimenti effettuati a suo tempo dal socio defunto. E’ poi, possibile che i successori acquistino una quota in comproprietà oppure tante piccole quote in proprietà esclusiva.
I nuovi soci, in quanto eredi del socio defunto, non saranno tenuti a eseguire alcun conferimento di società, valendo a questi effetti il conferimento già eseguito dal socio defunto.
1.3 Lo scioglimento della società
Infine, i soci superstiti possono decidere di sciogliere del tutto la società. Anche in questo caso, agli eredi spetta il diritto alla liquidazione della quota del defunto, ma – diversamente dall’ipotesi di continuazione della società – essi devono attendere il compimento delle operazioni di liquidazione (quindi anche oltre il termine di 6 mesi) per potersi vedere liquidato quanto ad essi spettante.
Questa è la scelta che i soci tenderanno normalmente a privilegiare nel caso in cui ritengano che la partecipazione del socio deceduto era rilevante al fine del perseguimento dell’oggetto sociale, ovvero qualora che la società non disponga di somme sufficienti per provvedere alla liquidazione della quota nei confronti degli eredi del socio defunto senza dover incidere in modo determinante sui mezzi necessari al fine della realizzazione del programma sociale. Tale soluzione è in ogni caso l’unica possibile qualora il decesso del socio si verifichi quando la società è già in fase di liquidazione.
Di fronte alla decisione dei soci superstiti di sciogliere la società gli eredi del socio vengono quindi a trovarsi in una posizione di totale soggezione, non potendo in alcun modo interferire con tale decisione e dovendone invece subire le relative conseguenze. Per loro cessa immediatamente il diritto a vedersi liquidata la quota del proprio dante causa nell’arco dei sei mesi dalla sua morte, ed al fine di conseguire il valore di detta quota essi devono necessariamente attendere la conclusione delle operazioni relative alla liquidazione della società.
La decisione dei soci, nulla disponendo l’art. 2284 c.c. e tenuto presente il disposto dell’art. 2272, n. 3), c.c., deve essere presa all’unanimità, a meno che non vi sia una clausola dei patti sociali che preveda espressamente per tale ipotesi la possibilità di una decisione a maggioranza; non è invece sufficiente la generica previsione di una adozione a maggioranza per le modifiche dei patti sociali, trattandosi in questo caso non di una normale modifica del contratto sociale, bensì dello scioglimento della stessa società.
Si ritiene che la delibera di scioglimento debba essere assunta entro il termine di 6 mesi dalla morte del socio, dato che entro tale termine deve essere versata la quota di liquidazione. Essendo tale termine stabilito nell’interesse degli eredi, essi possono comunque prolungarlo concedendo una proroga, salvo il caso in cui la società sia rimasta con un solo socio.
Dottrina e giurisprudenza ritengono che nelle società di persone non sia indispensabile una procedura formale di liquidazione. Nelle società di persone il procedimento formale di liquidazione non è infatti imposto dalla legge, ma costituisce una scelta della società, nell’esclusivo interesse dei soci, i quali possono anche evitarla provvedendo all’estinzione dell’ente sociale con altre modalità o chiedendo al giudice nei modi ordinari di definire i rapporti di dare e avere.
La decisione di sciogliere la società da parte dei soci superstiti non produce come effetto quello di trasformare gli eredi del socio a responsabilità illimitata in soci della società in liquidazione. Lo status degli eredi del socio quali (eventuali) “creditori” del valore della quota, sorto al momento della morte dello stesso, è destinato, quindi, a permanere anche a seguito della decisione dei soci superstiti di sciogliere la società.
Da ciò derivano, sotto il profilo pratico, importanti conseguenze. In particolare, agli eredi del socio defunto a seguito dello scioglimento della società deciso dai soci superstiti non può essere riconosciuto, in quanto non soci, alcun diritto alla nomina dei liquidatori, ovvero alla partecipazione alle operazioni liquidative. Inoltre, sempre per tale motivo, in caso di modifica dei patti sociali operata in sede di liquidazione, ovvero di importanti decisioni da adottare in tale contesto (quale, ad esempio, quella relativa alla revoca dello stato di liquidazione della società), al fine del calcolo di eventuali maggioranze, ovvero di valutare l’esistenza dell’unanimità dei consensi, non deve tenersi in alcun conto della presenza o meno degli eredi del socio defunto.
1.4 La morte del socio nella società di persone con due soli soci
L’art. 2272 n. 4 c.c., dettato in materia di società semplici, prevede che la società si scioglie quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è ricostituita. Tale norma trova applicazione anche alle S.n.c. in forza del richiamo ad esso contenuto nell’art. 2308 c.c., mentre per le S.a.s. l’art. 2323 c.c., dopo avere a sua volta richiamato l’art. 2308 c.c., aggiunge che la società si scioglie, altresì, quando rimangono soltanto soci accomandanti o soci accomandatari, sempreché nel termine di sei mesi non sia stato sostituito il socio che è venuto meno.
Pertanto, anche in caso di morte del socio in una società di persone costituita da due soli soci, rimangono comunque attivabili tutte le opzioni previste dall’art. 2284 c.c.
In primo luogo, il socio superstite ha l’obbligo, a seguito della morte dell’altro socio, di procedere alla liquidazione della quota del socio defunto, con conseguente diritto degli eredi dello stesso di vedersi attribuita, nel termine dei sei mesi successivi alla sua morte, una somma di denaro che rappresenti il valore della quota già di spettanza del de cuius, in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento.
In secondo luogo, dopo la morte dell’altro socio, il socio superstite, senza attendere lo spirare del termine semestrale previsto per la ricostituzione della pluralità dei soci, e comunque fino allo spirare dello stesso termine, può sempre decidere lo scioglimento della società, con la conseguente apertura della fase di liquidazione. In questo caso, gli eredi, non essendo divenuti soci, subiscono la scelta del socio superstite di scegliere anticipatamente la società, e parteciperanno (senza tuttavia assumere la qualità di socio, e quindi restando estranei alla procedura di liquidazione) alla distribuzione del netto ricavo della liquidazione del patrimonio della società, che avranno diritto ad una quota di liquidazione e non più alla liquidazione della quota del de cuius.
Il socio superstite, infine, ha anche la possibilità di ricostituire la pluralità dei soci, sia attraverso il subingresso in società di nuovi soci (eventualmente anche tramite cessione a terzi di parte della propria partecipazione sociale), permanendo in tal caso per lo stesso il dovere di liquidare la quota del socio defunto ai suoi eredi, sia mediante la continuazione della società con gli stessi eredi del socio defunto, ai sensi dell’art. 2284 c.c. (sempre che questi vi acconsentano).
Qualora scada il termine semestrale dalla morte dell’altro socio, senza che sia stata ricostituita la pluralità dei soci, relativamente al socio superstite, sempre che la società non sia stata già dichiarata sciolta a seguito della scelta dallo stesso socio effettuata ai sensi dell’art. 2284 c.c., opererà la causa di scioglimento di cui all’art. 2274, n. 4), c.c., con la conseguente messa in liquidazione della società e successiva cancellazione della stessa Registro delle imprese.
Il socio superstite può comunque proseguire l’attività sociale, rimuovendo – anche dopo il decorso del termine semestrale – la causa di scioglimento della società. In tal caso, ha una triplice alternativa:
- fare entrare nella compagine sociale nuovi soggetti, ricostituendo la pluralità dei soci;
- trasformare la società in società (di capitali) unipersonale;
- cancellare la società (senza liquidazione) assegnandosi l’azienda, che continuerà a gestire in forma di impresa individuale, previo soddisfacimento dei creditori sociali.
Qualora, decorso il termine di sei mesi, e nonostante l’avvenuto scioglimento della società, il socio continui di fatto ad amministrare la società, senza compiere alcun atto di liquidazione e senza provvedere alla cancellazione della stessa dal Registro delle imprese, si dà luogo ad una società unipersonale di fatto a tempo indeterminato. In tale periodo, è possibile rimuovere la causa di scioglimento della società, attraverso l’ingresso di nuovi soggetti nella compagine sociale, o mediante la trasformazione in società unipersonale. Tuttavia, i creditori particolari del socio possono chiedere la liquidazione della sua quota, promuovendo un’azione esecutiva, ai sensi dell’art. 2307, comma 3, c.c. Inoltre, la società rimasta con un unico socio da oltre sei mesi è soggetta al rischio della cancellazione d’ufficio da parte del Registro delle imprese, ai sensi dell’art. 3 D.p.r. n. 247/2004.
1.5 Le diverse previsioni statutarie: a) le clausole di continuazione
Il sistema appena delineato è operante, ai sensi dell’art. 2284 c.c., solo salva diversa previsione del contratto sociale. Lo statuto può quindi prevedere regole organizzative, fermo restando che tali clausole non possono comunque violare il diritto di patti successori (art. 458 c.c.), e quindi non possono sottrarre alla devoluzione legittima o testamentaria il valore della partecipazione sociale.
In primo luogo, i soci possono prevedere nello statuto che la società continui con i successori del socio defunto, escludendo quindi le altre due opzioni previste dalla legge, attraverso le c.d. clausole di clausole di continuazione. Questa tipologia di clausole evita il repentino depauperamento del patrimonio sociale per effetto della liquidazione della somma dovuta agli eredi, ovvero, a seconda delle circostanze, ammette l’erede nella partecipazione ad una società particolarmente redditizia o, al contrario, consente l’ingresso in società all’erede che gode, anche a seguito della successione, di una solida posizione economica.
Esistono di tre tipi di clausole di continuazione: facoltativa, obbligatoria e automatica.
La clausola di continuazione facoltativa attribuisce agli eredi del socio premorto il diritto potestativo di natura contrattuale a subentrare in società in vece del de cuius, vincolando i soci superstiti a sottostare alla scelta degli eredi.
Tale clausola ha quindi l’effetto di obbligare i soci superstiti a prestare il loro consenso alla continuazione della società con i successori, mentre gli eredi e i legatari possono decidere se continuare o non continuare la società.
Tale clausola è ammessa dalla giurisprudenza, non costituendo alcun patto successorio (vietato dall’art. 458 c.c.), dato che non viene intaccata la posizione dei successori del socio deceduto, ma semplicemente limita il potere di scelta dei soci superstiti, che non possono optare per la continuazione senza gli eredi. è invece controversa la validità della clausola – sotto il profilo della conformità al principio che vieta i patti successori – la quale indichi specificatamente (ad esempio, nominativamente) l’erede oppure il legatario del socio defunto destinandolo a divenire socio della società ed escludendo gli altri eventuali successori.
Con riferimento alla S.a.s., la giurisprudenza ritiene che per la validità della clausola di continuazione in caso di morte del socio accomandatario occorre che la stessa individui in modo specifico i successori del de cuius, senza limitarsi a fare generico riferimento agli “eredi” od anche ai “figli” del socio accomandatario stesso.
Con la clausola di continuazione obbligatoria, invece, l’obbligo di continuare la società è posto sia sui soci che sugli eredi e legatari. La validità di tale clausola è controversa; la giurisprudenza prevalente sembra comunque orientata a ritenerla lecita, evidenziando che la stessa non vincola la libertà dell’erede, il quale può sempre evitare l’ingresso in società rifiutandosi di accettare l’eredità ovvero può limitare la sua esposizione personale accettando l’eredità con il beneficio di inventario.
Infine, con la clausola di continuazione automatica i soci stabiliscono preventivamente che il rapporto sociale prosegue automaticamente con gli eredi, senza che sia necessario alcun atto tra vivi; in altre parole, in questo caso l’accettazione dell’eredità comporta l’assunzione automatica della qualità di socio, senza necessità di una specifica manifestazione di volontà degli eredi in merito al subingresso in società, che diviene effetto automatico dell’accettazione dell’eredità.
La giurisprudenza prevalente ritiene tale clausola valida, in quanto l’erede può sempre rifiutare l’ingresso in società rifiutando l‘eredità, nella quale sono comprese le quote sociali che costituiscono un bene patrimoniale del socio defunto. In ogni caso, è ritenuta valida la clausola di continuazione automatica nel caso di morte del socio accomandante della S.a.s., in quanto esso è socio limitatamente responsabile e quindi il successore rischia di perdere solo l’investimento e non tutto il suo patrimonio.
1.6 Le diverse previsioni statutarie: b) le clausole di consolidazione
I soci possono altresì prevedere nello statuto che l’obbligo di liquidazione sia posto a carico dei soci superstiti; in tal caso, i successori del socio defunto spetta sempre il diritto alla liquidazione, ma invece di ricevere la liquidazione dalla società, essi ricevono il denaro dai soci ancora in vita.
Tale effetto si ottiene attraverso l’inserimento nello statuto di una clausola di consolidazione, che prevedono il progressivo consolidamento (ovvero la concentrazione) delle quote dei soci deceduti in capo ai soci superstiti. Il vantaggio di questo tipo di clausole risiede essenzialmente nella tutela che essa appresta all’originario gruppo dei soci, evitando ingresso di soggetti non graditi e, altresì, consentendo la massima insensibilità dell’impresa e del patrimonio sociale rispetto alle vicende del singolo socio.
Vi sono due tipi di clausole di consolidazione: pura e impura.
La clausola di consolidazione pura prevede che la quota del socio defunto si accresca (cioè venga divisa proporzionalmente) a favore degli altri soci superstiti, escludendo ogni diritto degli eredi alla liquidazione della quota del socio.. Questa tipologia di clausola è ritenuta nulla, in quanto l’esclusione degli eredi dal diritto alla quota di liquidazione realizza una vera e propria attribuzione mortis causa a favore degli altri soci, in violazione del divieto di patto leonino, nonché del divieto di patto successorio.
La clausola di consolidazione impura, invece, prevede l’accrescimento di quota a favore degli altri soci superstiti con l’obbligo da parte di questi di liquidare gli eredi del socio defunto, tenendo conto del valore effettivo della stessa o secondo determinati criteri. La quota del socio defunto resta quindi acquisita in capo ai soci in proporzione alla partecipazione detenuta, mentre agli eredi è liquidato solo il valore della stessa.
Questa clausola è per lo più ritenuta lecita., perché si traduce operativamente in una preventiva rinuncia dei soci ad avvalersi delle altre due facoltà previste dalla legge (continuazione con gli eredi o scioglimento della società). La consolidazione non avviene infatti né a titolo successorio né a titolo di liberalità, bensì in virtù di una convenzione sociale le cui disposizioni rimangono sospese fino alla premorienza del socio.
Tale clausola implica peraltro che cedenti e cessionari devono essere determinati; conseguentemente, la clausola deve far riferimento ai soci presenti al momento della stipulazione della clausola di consolidazione e non può riferirsi a quelli futuri. Ciò significa che, qualora se un socio venda la propria quota ad altro soggetto, se non viene modificata la clausola di consolidazione, il nuovo socio non sarà obbligato a liquidare i successori del socio defunto, in quanto ad esso si accrescerà la quota del socio defunto. Allo stesso modo, se il nuovo socio muore prima degli altri soci, la sua quota non si consoliderà ai soci superstiti se non si aggiorna con il suo nome la clausola.
1.7 Le diverse previsioni statutarie: c) ulteriori clausole
Nel novero delle clausole societarie vengono in considerazione quelle relative alla divisione della quota, ovvero le clausole di divisione automatica della quota resa convenzionalmente trasmissibile mortis causa e quelle limitative della divisione della quota legalmente o convenzionalmente trasmissibile. È possibile addivenire ad una quantificazione minima delle partecipazioni sociali, in modo da subordinare l’assunzione della qualità di socio ad una partecipazione prefissata nel suo valore economico. Inoltre, nell’ipotesi in cui le quote siano trasmissibili mortis causa ma indivisibili o limitatamente divisibili, i soci possono inserire nello statuto una clausola che, sulla base di criteri oggettivi, individui il rappresentante comune dei contitolari delle quote, o ne regoli l’elezione, o la subordini al gradimento di un organo sociale o di una maggioranza di soci.
Sono relativamente frequenti le clausole statutarie che derogano alla disciplina dettata dall’art. 2289 c.c., circa le modalità e i termini di liquidazione del quantum dovuto agli eredi; ad esempio, fissando termini ulteriori rispetto al semestre per soddisfare l’onere di liquidazione, o prevedendo un pagamento rateale, o che la liquidazione debba avvenire sulla base della situazione patrimoniale relativa all’ultimo esercizio che si è chiuso prima della morte del socio o relativa all’esercizio in corso, anziché sulla base del bilancio straordinario di cui all’art. 2289, comma 2°, c.c..
È possibile inserire nello statuto una clausola che, in corrispondenza con il passaggio agli eredi, possa influire sulla tipologia del rapporto sociale, disponendo la conversione della quota da quota con responsabilità illimitata a quota con responsabilità limitata per le obbligazioni sociali. Tale clausola è ammissibile solo qualora la sua operatività dipenda da una libera scelta da parte degli eredi, sulla quale non possano interferire in alcun modo né il de cuius né gli altri soci.
È altresì possibile inserire nello statuto le clausole le quali, a decorrere dalla morte del socio (che rappresenta la condizione sospensiva), tendano a modificare la composizione o il funzionamento degli organi societari: ad esempio, la clausola che preveda il passaggio dall’amministrazione unipersonale a quella pluripersonale o dall’amministrazione disgiunta a quella congiunta o alla collegiale, o viceversa, o la clausola che modifichi il numero degli amministratori o che introduca l’eleggibilità di amministratori non soci, o viceversa.
2. La disciplina della morte del socio nelle società di capitali
Le società di capitali (S.r.l., S.p.A., S.a.p.A.) hanno, come è noto, una soggettività giuridica, in quanto hanno un patrimonio distinto da quello dei soci, hanno un proprio nome e una propria sede e, pertanto, sono dei soggetti di diritto distinti dalle persone dei soci che le compongono.
Diversamente dalle società di persone, nelle società di capitali, caratterizzate dalla (tendenziale) irrilevanza delle qualità e requisiti personali dei singoli soci, le partecipazioni sociali sono liberamente trasmissibili, sia per atto tra vivi che mortis causa.
Pertanto, in assenza di contrarie previsioni inserite in statuto, le partecipazioni sociali di società di capitali, in caso di premorienza di un socio, si trasmettono automaticamente agli eredi o legatari, secondo la disciplina specifica della successione a causa di morte del socio premorto, per legge o per testamento che egli abbia deciso di predisporre.
In particolare:
- per le S.p.A. e le S.a.p.a., il principio della libera trasmissibilità delle azioni mortis causa é espresso dall’art. 2355-bis comma 1 c.c., secondo cui “nel caso di azioni nominative ed in quello di mancata emissione dei titoli azionari, lo statuto può sottoporre a particolari condizioni il loro trasferimento e può, per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto, vietarne il trasferimento.”
- per le S.r.l., il principio della libera trasferibilità delle quote (anche) mortis causa è espresso dall’art. 2469 comma 1 c.c., secondo cui “le partecipazioni sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo.”
Dunque, a seguito della morte di un socio di società di capitali, l’erede (previa accettazione dell’eredità) o il legatario (direttamente, in virtù del principio di acquisto automatico del legato, salvo rinunzia: art. 649 c.c.) diventano, come regola generale, direttamente titolari della partecipazione del de cuius, acquistando peraltro la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali solo a seguito dell’adempimento di alcune formalità prescritte dalla legge, con le differenti modalità per S.p.a. (o s.a.p.a.) e S.r.l. , come vedremo appresso.
2.1 La trasmissione mortis causa della partecipazione nelle S.p.A. e S.a.p.A.
Per quanto riguarda le società azionarie (S.p.A. e S.a.p.A.), l’art. 7, comma 1, r.d. 29 marzo 1942, n. 239 prevede che nel caso di morte dell’azionista, la società emittente, se non vi è opposizione, a dichiara il cambiamento di proprietà sui titoli azionari e nel libro dei soci, su presentazione del certificato di morte, di copia del testamento se esista e di un atto di notorietà giudiziale o notarile, attestante la qualità di erede o di legatario dei titoli.
Occorre dunque procedere alla c.d. “doppia intestazione” dell’azionista sul titolo e nel libro dei soci, fermo restando che tale formalità è richiesta per l’acquisto della sola legittimazione all’esercizio dei diritti sociali da parte del neo-azionista, non anche della titolarità delle azioni, per la quale opera il generale principio del consenso traslativo per gli acquisti inter vivos (art. 1376 c.c.) e gli ordinari principi di diritto delle successioni per gli acquisti mortis causa.
2.2 Morte del socio e successione ereditaria nelle S.r.l.
Come si è visto, la legge prevede che le partecipazioni in una S.r.l. sono liberamente trasmissibili non solo per atto tra vivi, ma anche a causa di morte del socio, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo (art. 2469, comma 1, c.c.).
Ne consegue che gli eredi di un socio di S.r.l. di regola – ovvero salvo diversa disposizione dello statuto – succedono al socio defunto, acquisendone la partecipazione, senza necessità che una clausola ad hoc nello statuto preveda la continuazione della società con gli eredi del socio defunto; i soci superstiti non hanno quindi alcuna facoltà di scelta, e non possono pretendere la liquidazione in denaro della partecipazione.
Il trasferimento della quota del socio defunto agli eredi o legatari di un socio defunto richiede un atto di trasferimento, redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata da notaio, dietro presentazione, a cura dell’erede o del legatario, della documentazione da cui risulta il titolo di acquisto mortis causa della quota. L’atto di trasferimento deve poi essere depositato, a cura del notaio rogante, presso il Registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2470. comma 2 c.c. A partire da questo adempimento il trasferimento mortis causa acquista efficacia nei confronti dei terzi.
Il deposito il registro delle imprese rileva sul piano dell’acquisto della legittimazione all’esercizio dei diritti sociali da parte dell’erede o del legatario di quota; prima di tale iscrizione, infatti, il beneficiario del lascito (erede o legatario) avente a oggetto la quota di partecipazione di cui era titolare il socio defunto non può partecipare ad alcuna attività sociale né interferire con l’amministrazione societaria, essendo terzi estranei alla società medesima.
Finché, dunque, il trasferimento mortis causa della quota non viene depositato nel Registro Imprese, lo stesso è inefficace sia nei confronti della società che dei terzi, non rilevando l’eventuale conoscenza, da parte dell’organo amministrativo, della morte di un socio per effetto di comunicazioni comunque pervenute allo stesso. Ne consegue che fino al momento dell’iscrizione, per l’individuazione del soggetto destinatario dell’avviso di convocazione e per il calcolo dei quorum assembleari non si tiene conto del trasferimento mortis causa; l’avviso di convocazione dovrà essere indirizzato al socio defunto e non all’erede e la partecipazione del socio defunto dovrà essere computata nel calcolo dei quorum deliberativi (per cui le delibere saranno validamente assunte se il voto degli altri soci consenta di raggiungere le maggioranze prescritte dalla legge).
Affinché avvenga l’iscrizione del trasferimento delle quote del de cuius gli eredi e/o i legatari subentranti nelle quote stesse, gli amministratori devono presentare la documentazione necessaria per l’annotazione nel libro dei soci, in linea con quanto previsto per le S.p.A. dall’art. 2470, comma 2 c.c. Gli amministratori devono quindi procedere al deposito dell’atto di trasferimento presso la competente Camera di Commercio, allegando la seguente documentazione:
- certificato di morte;
- eventuale testamento;
- atto di notorietà giudiziale o notarile, o dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, attestante la qualità di erede o legatario;
- decreto del giudice in caso di eredi o legatari minorenni;
- prova della presentazione della dichiarazione di successione e del pagamento della relativa imposta.
In mancanza di contrarie previsioni statutarie, in caso di trasmissione a titolo di eredità a favore di più (co) – eredi, qualora manchi l’indicazione testamentaria delle frazioni della quota di partecipazione del de cuius di cui ciascun erede diviene titolare in proprietà esclusiva – dato che, in caso contrario, la quota è frazionata già in via testamentaria in tante sub quote quanti sono i beneficiari (per un valore pari a quanto a ciascun assegnato dal testatore), le quote di S.r.l. cadono in comunione ereditaria del socio premorto, e i beneficiari risultano contitolari della (unitaria) partecipazione alla Srl, in comunione ereditaria pro indiviso tra loro.
In tal caso, deve essere nominato, ai sensi dell’art. 2468, comma 5, c.c., un rappresentante comune dei coeredi per l’amministrazione della quota in comunione, il quale esercita i diritti sociali dei coeredi partecipanti alla comunione ereditaria (spesso in conflitto tra loro); questi ultimi, quindi, non possono esercitare singolarmente i diritti sociali (diritto di voto, impugnativa di una delibera assembleare, partecipazione all’assemblea, etc.) inerenti la quota di S.r.l. caduta in successione.
Il rappresentante comune è nominato a maggioranza semplice dei soci partecipanti alla comunione ereditaria, calcolata secondo il valore della quota pro indiviso a ciascun spettante (o, in difetto, dall’autorità giudiziaria).
Secondo la prevalente giurisprudenza, il rappresentante comune è un mandatario degli eredi pro-indiviso, e deve pertanto agìre in conformità agli interessi degli stessi e delle istruzioni da questi ricevute (in particolare per ciò che attiene all’esercizio del diritto di voto in assemblea); pertanto, in caso di mancato diligente espletamento dell’incarico da parte del rappresentante comune lo stesso è responsabile a titolo contrattuale, secondo le norme sul mandato. Ciò naturalmente presuppone che gli eredi in comunione di volta in volta decidano, a maggioranza semplice delle quote ereditarie, le istruzioni da impartire al rappresentante comune.
Affinché gli eredi possano subentrare nella partecipazione del de cuius, procedendo all’intestazione della frazione a ciascuno spettane della partecipazione sociale caduta in successione, è necessario un atto di divisione ereditaria contrattuale (al quale, ovviamente dovranno partecipare tutti i contitolari), mediante il quale vengono attribuiti in titolarità esclusiva a favore di ciascun coerede le singole porzioni divisionali formate da specifici beni ereditari (ivi incluse, tra gli altri, le partecipazioni sociali in società di capitali).
Qualora il chiamato alla successione dichiari di accettare l’eredità con il beneficio di inventario, ai sensi degli artt. 484 e ss c.c., per l’esercizio dei diritti sociali – in primo luogo l’intervento in assemblea e l’esercizio del diritto di voto – occorre l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 493 c.c., qualora l’esercizio di tali diritti sociali sia idoneo a incidere sul patrimonio ereditario.
Qualora il socio defunto non abbia eredi, o sia comunque verosimile che non esistano eredi, trova applicazione l’art. 586 c.c., che disciplina la devoluzione dell’ereditò allo Stato in mancanza di altri successibili.
In tal caso, dunque, l’eredità si devolve immediatamente allo Stato, che diventa socio in via retroattiva a decorrere dalla apertura della successione, a seguito di idonea istanza alla Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’art. 586 c.c.
Lo Stato, peraltro, può diventare socio a tutti gli effetti soltanto quando risulti assolutamente certa l’inesistenza di successibili entro il sesto grado. Fino a tale momento, l’eredità è considerata giacente, con conseguente necessità di nomina di un curatore ai sensi dell’art. 528 c.c., a cura del tribunale del circondario in cui s’è aperta la successione, su richiesta di qualsivoglia soggetto interessato o d’ufficio. Il curatore potrà garantire, quale legittimo interlocutore della società, la valida prosecuzione delle attività di impresa.
Qualora invece esista un chiamato all’eredità il quale, tuttavia, non abbia ancora accettato l’eredità, o tale chiamato non si trovi nel possesso dei beni ereditari, si ha l’eredità giacente, ai sensi dell’art. 528 e ss. c.c.
In tal caso viene nominato un curatore dell’eredità giacente, il quale ha l’obbligo di redigere l’inventario ai sensi dell’art. 529 c.c. e di compiere atti urgenti, sotto la vigilanza del tribunale. In particolare, il curatore:
- deve ottenere l’autorizzazione giudiziale ai sensi degli artt. 782 e 783 C.p.c. per gli atti di straordinaria amministrazione;
- deve compiere le attività dispositive che reputerà necessarie per la conservazione del patrimonio e la liquidazione delle passività, qualora lo ritenga opportuno per realizzare un maggior investimento di capitale (ad esempio, procedere alla vendita delle quote societarie, intervenire in assemblea per assumere delibere opportune per l’ente, sottoscrivere aumenti di capitale con il relativo esercizio di prelazione/opzione, esercitare la prelazione sull’inoptato, etc.).
2.3 Le deroghe statutarie alla libera circolazione mortis causa delle partecipazioni sociali nelle società di capitali
La regola generale della libera trasferibilità delle partecipazioni sociali nelle società di capitali può essere derogata nello statuto. I soci superstiti al socio defunto possono infatti avere interesse ad evitare che nella compagine sociale subentrino gli eredi del de cuius, prevedendo nell’atto costitutivo della società espressamente delle limitazioni alla libera trasferibilità delle quote, in caso di morte del socio, agli eredi o ai legatari del defunto.
La legge preserva in ogni caso l’interesse dei successori mortis causa del socio premorto a non vedersi espropriato dai soci superstiti il valore della partecipazione del socio premorto, rendendo necessario che ai vincoli statutari alla trasmissione mortis causa di partecipazioni si accompagnino meccanismi che permettano agli eredi o legatari del socio premorto di ottenere il valore monetario delle partecipazioni sociali di quest’ultimo.
Per quanto concerne le S.p.a. e le S.a.p.A., l’art. 2355-bis c.c. prevede, al comma 1 che, ferma l’applicazione dell’art. 2357 c.c., le clausole dello statuto che subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento di organi sociali o di altri soci sono inefficaci se non prevedono, a carico della società o degli altri soci, un obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso dell’alienante. Il comma 2 della stessa norma prevede che il corrispettivo dell’acquisto o rispettivamente la quota di liquidazione sono determinati secondo le modalità e nella misura previste dall’art. 2437-ter c.c. Infine, il comma 3 della medesima norma specifica che tale disposizione si applica in ogni ipotesi di clausole che sottopongono a particolari condizioni il trasferimento a causa di morte delle azioni, salvo che sia previsto il gradimento e questo sia concesso.
Con riferimento alle S.r.l, l’art. 2469 comma 2 c.c. dispone che qualora l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’art. 2473 c.c. In tali casi, l’atto costitutivo può stabilire un termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non può essere esercitato.
Da tali norme si ricava pertanto che:
- nelle S.p.A. e S.a.p.A., il successore mortis causa del socio premorto (erede o legatario) ha il diritto di farsi acquistare le azioni dalla stessa società emittente o dai soci superstiti oppure il diritto di recedere se previsto dallo statuto (art. 2473 comma 4 c.c.), verso un controvalore delle azioni che sia almeno pari al valore di recesso previsto dall’art. 2437-ter c.c., ovvero tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni; lo statuto può comunque stabilire criteri diversi di determinazione del valore di liquidazione, indicando gli elementi dell’attivo e del passivo del bilancio che possono essere rettificati rispetto ai valori risultanti dal bilancio, unitamente ai criteri di rettifica, nonché altri elementi suscettibili di valutazione patrimoniale da tenere in considerazione (art. 2437-ter, comma 4, c.c.);
- nelle S.r.l., viceversa, il successore mortis causa del socio premorto (erede o legatario) ha solo il diritto di recesso, tenuto conto dell’incapacità in tale tipo societario dell’acquisto di partecipazioni proprie (art. 2474 c.c.).
Le previsioni statutarie di S.p.A. o S.a.p.A. difformi dalla disciplina legale di cui all’art. 2355-bis c.c. (cioè che non prevedono i correttivi del diritto di exit a favore dei successori mortis causa del socio premorto, nell’ipotesi di preclusione del loro ingresso in società) sono valide ma inefficaci, con il conseguente pieno diritto dei successori mortis causa del socio premorto di subentrargli nella titolarità delle azioni e di essere iscritti nel libro dei soci. Viceversa, nelle S.r.l. le previsioni statutarie impeditive della trasmissione mortis causa di quote restano efficaci, precludendo quindi l’ingresso in società dell’erede o legatario del socio premorto, salvo il diritto legale al recesso e alla conseguente liquidazione della quota, a loro beneficio.
2.4 Le clausole statutarie limitative del trasferimento mortis causa di partecipazioni in società di capitali: intrasferibilità, gradimento, prelazione, opzione o riscatto
Le clausole di predisposizione successoria limitative del trasferimento mortis causa delle partecipazioni sociali nelle società di capitali appartengono essenzialmente a quattro tipologie:
- clausole di intrasferibilità;
- clausole di gradimento;
- clausole di prelazione;
- clausole di opzione o riscatto.
Le clausole d’intrasferibilità mortis causa delle partecipazioni non permettono, in via automatica, assoluta ed incondizionata, agli eredi o legatari di entrare a far parte della compagine sociale di cui faceva parte il loro defunto dante causa.
Nel caso di S.p.A. o S.a.p.A., ferma la necessaria presenza nello statuto, a pena d’inefficacia, dei correttivi di garanzia del diritto di exit sopra descritti (diritto all’acquisto o di recesso), tali clausole non possono avere, comunque, un periodo di durata superiore a cinque anni, per cui precludono l’acquisto mortis causa delle azioni soltanto se il decesso del socio si verifica in pendenza del termine non ultra-quinquennale d’intrasferibilità, decorso il quale l’erede o legatario potrà acquistare tranquillamente le azioni di un socio.
Nel caso delle S.r.l., invece, non è previsto il limite quinquennale di durata, e pertanto può versi anche una durata ultra-quinquennale, o addirittura indeterminata, della intrasferibilità mortis causa di quote, fatto salvo, in ogni caso, il diritto legale di recesso ai sensi dell’art. 2469 c.c.
Il diritto di recesso costituisce indubbiamente un forte deterrente all’introduzione di clausole che sanciscono l’intrasferibilità della partecipazione assoluta, perché questa sorta di “spada di Damocle” potrebbe da un momento all’altro provocare un pesante effetto sul patrimonio dell’impresa, visto che il socio recedente ha diritto di vedersi liquidato il valore effettivo della partecipazione stessa. Una clausola che sancisca il divieto assoluto di trasferimento della partecipazione potrebbe peraltro trovare la sua ragione in quelle situazioni in cui l’attività sociale è fortemente condizionata dalla presenza di particolari requisiti professionali dei soci (società di consulenza, di ingegneria, ecc.). Tuttavia, lo strumento del recesso potrebbe essere anche utilizzato in modo strumentale e distorto da parte del socio, il quale potrebbe esercitare il diritto in un particolare momento di ricchezza patrimoniale della società.
In realtà, l’introduzione nello statuto di una S.r.l. di una clausola che impedisca il trasferimento tout court a causa di morte non legittima i soci ad esercitare il diritto di recesso, bensì fa sorgere il diritto di liquidazione in capo agli eredi ai quali viene impedito di entrare a far parte della compagine sociale per effetto della clausola limitativa. Infatti, Infatti, gli eredi non possono esercitare il diritto di recesso perché la clausola limitativa impedisce loro di acquisire giuridicamente lo status di socio; gli eredi, che non hanno acquisito la qualifica di socio, hanno quindi diritto di ottenere appunto la liquidazione della quota sociale, con le stesse prerogative che avrebbe potuto rivendicare il socio nell’ipotesi di un trasferimento tra vivi che avesse legittimato l’esercizio del diritto di recesso.
In entrambi i tipi societari l’intrasferibilità non può mai atteggiarsi in termini di clausola di c.d. “accrescimento” (o “consolidazione pura” o “concentrazione”) delle partecipazioni del socio premorto a favore dei soci superstiti, con esclusione del diritto alla liquidazione di esse dei suoi successori mortis causa, in quanto ciò contrasterebbe con le previsioni di legge (artt. 2335-bis e 2437 c.c. per le S.p.A. o S.a.p.A, artt. 2469 e 2473 c.c. per le S.r.l.) e con il principio del divieto dei patti successori.
Nel caso in cui lo statuto preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni, o comunque ponga dei limiti che nel caso concreto impediscano tale trasferimento a causa di morte, agli eredi non spetta il diritto di essere iscritti nel libro soci, ma spetta comunque la titolarità delle partecipazioni finalizzata alla loro liquidazione. Ciò significa che nel caso in cui i soci superstiti intendano mettere in liquidazione la società, agli eredi spetta il diritto di liquidazione della partecipazione secondo il valore della stessa al momento della morte del socio, e non secondo le risultanze del bilancio finale di liquidazione.
Le clausole di gradimento mortis causa subordinano il trasferimento a eredi o legatari di partecipazioni societarie al gradimento:
- degli organi sociali (C.d.A., comitato esecutivo o, più raramente, l’assemblea);
- di uno o più soci;
- di terzi non soci.
Nella prassi societaria sono utilizzati due modelli di clausola di gradimento: le clausole di gradimento in senso stretto (c.d. clausole di mero gradimento) e le clausole di gradimento improprie o rigide (c.d. clausole di gradimento non mero).
Nelle clausole di mero gradimento, il trasferimento mortis causa delle azioni o quote è subordinato al consenso discrezionale del titolare; nelle clausole di gradimento non mero, invece, esso è subordinato a determinate condizioni o requisiti, a carattere oggettivo o soggettivo, che devono sussistere in capo all’erede o legatario del socio premorto (ed essere specificamente previsti nello statuto). Gli eredi o legatari avranno così la possibilità di divenire soci di una società di capitali, una volta ottenuto il consenso dal titolare del relativo potere o una volta accertati i requisiti richiesti dallo statuto.
Sul piano disciplinare, nelle S.p.A. e S.a.p.A. non si distingue, a differenza del trattamento delle clausole di gradimento limitative della circolazione inter vivos, tra gradimento mero e non mero; in entrambe le ipotesi, le relative clausole statutarie mortis causa sono da considerare inefficaci, salvo che siano previsti i soliti correttivi di exit visti sopra per il caso che il placet venisse negato o che viceversa il placet venisse concesso, pur in mancanza dei menzionati correttivi. Dall’inefficacia di una clausola statutaria di gradimento mortis causa non corretta discende che l’erede o il legatario può subentrare al socio premorto nella titolarità delle azioni, con diritto all’iscrizione nel libro dei soci.
Nelle S.r.l., la connotazione del gradimento come mero e non mero acquista, invece, rilievo per l’erede o legatario di quota: nella prima ipotesi gli spetta il diritto di recesso; nella seconda, tale diritto non gli spetta, a meno che siano posti condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte (art. 2469, comma 2, c.c.).
L’inserimento di una clausola di gradimento nello statuto di una s.r.l. può essere utile in tutte quelle situazioni in cui la società intenda mantenere una compagine sociale con determinate caratteristiche professionali o tecniche; in tali casi, l’inserimento di una clausola di gradimento che richieda, al fine di ottenere il gradimento stesso, che l’acquirente possegga determinati requisiti professionali, è efficace e non attribuisce al socio che si vede rifiutato il trasferimento alcun diritto di recesso. Ciò in quanto il soggetto chiamato ad esprimere il gradimento deve rispettare dei parametri oggettivi, senza alcuna discrezionalità, con la conseguenza che vengono eliminati alla radice eventuali strumentalità nell’esercizio di tale potere.
Le clausole di prelazione mortis causa sono ritenute ammissibili, pur con alcune peculiarità rispetto a quella inter vivos.
Per effetto della clausola di prelazione inserita nello statuto, qualora gli eredi del socio defunto intendano cedere le azioni o le quote ereditate, dovranno preferire, a parità di condizioni, i soci superstiti quali acquirenti delle partecipazioni sociali. La ratio di tale disposizione si ravvisa nella volontà dei soci di impedire l’ingresso in società estranei ed inoltre nella volontà di mantenere inalterata l’equilibrio di poteri tra i soci superstiti; tale ultima finalità può essere raggiunta solo laddove lo statuto preveda che la proposta di acquisto debba essere rivolta indistintamente a tutti i soci superstiti e non solo ad alcuni di essi.
I successori mortis causa del socio premorto (quali soggetti passivi) hanno l’obbligo di indirizzare ai soci superstiti (quali soggetti attivi, c.d. “prelazionari”) l’offerta in prelazione (c.d. “denuntiatio”), il cui inadempimento (entro un determinato termine successivo all’apertura della successione del socio premorto) oppure adempimento (con successivo esercizio del diritto di prelazione, entro il termine fissato a statuto) preclude l’ingresso nella compagine sociale.
Il prezzo di acquisto deve essere determinato da parte dei prelazionari delle partecipazioni sociali già del socio premorto, sulla base del loro valore di liquidazione secondo la disciplina del recesso, in base agli artt. 2355-bis, comma 3, e 2437-ter c.c.
Poiché la prelazione si può trasformare in facile strumento di contestazione tra soci, è opportuno che lo statuto disciplini in modo preciso i seguenti aspetti:
- in quali casi spetta il diritto di prelazione, ossia solo per i negozi traslativi a titolo oneroso, quali la compravendita, la permuta, la cessione del solo usufrutto, ecc., ovvero anche per i negozi a titolo gratuito;
- con quali forme il socio che intende alienare deve comunicare tale intenzione agli altri soci, nonché il contenuto che l’offerta in prelazione deve rispettare; a tal proposito, occorre indicare il nominativo del potenziale acquirente, le condizioni pattuite e, ovviamente, il prezzo, nonché le modalità di pagamento, e deve essere inoltre apposto un termine entro il quale gli altri soci devono esercitare il diritto di prelazione, trascorso il quale, in assenza di alcuna manifestazione di volontà, il socio alienante sarà libero di trasferire la partecipazione al terzo;
- le conseguenze in caso di esercizio parziale della prelazione, ossia indicare la possibilità per i soci che hanno manifestato l’intenzione di acquistare le quote in conseguenza della prelazione di acquisire, sempre in proporzione alla quota di partecipazione, l’eventuale inoptato.
Le clausole di opzione o di riscatto mortis causa costituiscono una variante delle clausole di prelazione mortis causa: esse non evitano (ed anzi presuppongono essenzialmente) la trasmissione iure successionis delle azioni o quote in favore degli eredi o legatari del socio premorto, ma li vincolano a subire l’eventuale esercizio dell’opzione o riscatto degli altri soci.
Le clausole di opzione o riscatto mortis causa sono equiparabili sostanzialmente a un patto di opzione ai sensi dell’art. 1331 c.c., nel quale però l’acquisto del diritto d’opzione è sospensivamente condizionato alla premorienza di uno dei soci rispetto agli altri.
Il patto di opzione, infatti, obbliga i successori cui pervengono le azioni o le quote del socio premorto a rimanere, per un determinato tempo, vincolati ad offrirle in opzione ai soci superstiti, ad un prezzo il cui criterio di determinazione è già fissato dalla clausola statutaria.
La giurisprudenza ritiene tali clausole valide, purché sia stata predeterminata l’entità della partecipazione destinata ad essere offerta in opzione alla morte del socio, sì da evidenziarne l’immediatezza dell’attribuzione, ponendo in essere un negozio tra vivi con effetti post mortem; la morte del socio non deve essere infatti considerata la causa della attribuzione, bensì il momento a decorrere dal quale può essere esercitata l’opzione per l’acquisto delle azioni pervenute dal de cuius agli eredi e sulle quali già gravava un vincolo di indisponibilità a carico reciprocamente dei soci
Analogamente alle altre clausole di predisposizione successoria, affinché la clausola di opzione o riscatto mortis causa sia efficace (nella S.p.A. o S.a.p.A.) o preclusiva del diritto di recesso legale dei successori mortis causa del socio premorto (nella S.r.l.), è necessario che questi ultimi conseguano un corrispettivo di opzione o riscatto almeno pari al valore di liquidazione calcolato ai sensi degli artt. 2437 ter e 2473 c.c.
Nelle S.r.l. il diritto d’opzione o riscatto mortis causa può essere configurato come un diritto particolare ai sensi dell’art. 2468 comma 3 c.c., , eventualmente attribuito selettivamente ad alcuni soci soltanto; mentre nelle S.p.A. o S.a.p.A. il vincolo d’opzione o riscatto mortis causa può essere incorporato nella categoria speciale delle azioni riscattabili, ai sensi dell’art. 2437-sexies c.c.), da parte non solo degli altri soci superstiti, ma anche dalla società (cui è invece precluso nella S.r.l.), nei limiti previsti dalla disciplina dell’acquisto azioni proprie (art. 2357 c.c.).
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in Diritto Societario
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