La morte del socio nelle società: quali conseguenze giuridiche?
La morte di un socio nelle società, sia di persone che di capitali, può comportare uno sconvolgimento degli equilibri all’interno della compagine sociale; ciò accade soprattutto quando il socio abbia un particolare ruolo all’interno della società (si pensi al caso in cui sia amministratore unico, o abbia un diritto particolare nelle S.r.l., oppure sia titolare di una quota superiore rispetto agli altri soci). Una società ha un’esistenza propria, indipendente da quella dei suoi soci: essa può continuare ad esistere anche se i soci muoiono, oppure può essere sciolta e messa in liquidazione anche se i suoi soci sopravvivono. Analizziamo quali conseguenze derivano per i soci superstiti e gli eredi in caso di morte di un socio nelle società di persone e di capitali, e come è possibile evitare che la società subisca delle battute d’arresto nell’attività, a seguito del venire meno di un socio.
1. La disciplina della morte del socio nelle società di persone
La vicenda successoria della partecipazione del socio di società di persone è regolamentata da due norme:
- l’ 2284 c.c. dettato in tema di società semplice, ed applicabile ai soci con responsabilità illimitata, ovvero (oltre che alla società semplice), alla S.n.c. e alla S.a.s., limitatamente alla posizione del socio accomandatario;
- l’ 2322 c.c., dettato in tema di S.a.s., che riguarda esclusivamente il socio con responsabilità limitata, ovvero il socio accomandante.
Nelle società di persone, nelle quali la persona del socio assume un ruolo fondamentale nelle dinamiche di impresa, la partecipazione sociale non è liberamente trasmissibile. L’acquisto della qualità di socio che comporti l’assunzione di una responsabilità illimitata per tutte le obbligazioni sociali non può che essere l’espressione di un atto volontario dell’erede stesso, nel rispetto del principio di libertà di iniziativa economica privata sancito dall’art. 41 Cost. In altri termini, non è possibile diventare imprenditori, neppure per via successoria, senza averlo espressamente voluto. L’unico diritto direttamente trasmissibile è il diritto di ottenere la liquidazione del socio defunto.
In altri termini, se muore un socio di società di persone, si scioglie immediatamente e definitivamente il vincolo tra società e socio deceduto e gli eredi non subentrano automaticamente nella posizione del socio defunto – salvo apposita clausola di continuazione nel contratto sociale – ma hanno solo diritto ad ottenere dalla società la liquidazione della quota del socio defunto. Gli eredi, in sostanza, non si considerano soci, ma meri creditori della società relativamente alla quota del socio defunto ad essi spettante.
L’art. 2284 c.c. prevede infatti che – salvo diversa disposizione dello statuto – alla morte del socio i soci superstiti hanno una triplice opzione:
- liquidare la quota del de cuius agli eredi;
- sciogliere direttamente la società;
- continuare la società con gli eredi del socio defunto, sempre che questi vi acconsentano.
L’art. 2322, 1° comma, c.c. prevede invece, a proposito della morte del socio accomandante nella S.a.s., che la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte. Pertanto, nel caso di morte del socio accomandante gli eredi, purché abbiano accettato l’eredità, acquistano la qualità di soci accomandanti della società di cui faceva parte il de cuius.
La diversità di disciplina rispetto a quanto previsto dall’art. 2284 c.c. a proposito dei soci illimitatamente responsabili deriva dalla diversa natura della partecipazione del socio accomandante. Poiché infatti quest’ultimo non assume una responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, manca quel requisito di imprenditorialità che, come visto, impedisce la trasmissibilità per causa di morte della partecipazione del socio a responsabilità illimitata.
La trasmissibilità iure successionis della quota dell’accomandante non impedisce, peraltro, che nei patti sociali venga inserita una clausola che ne stabilisca, invece, la sua intrasmissibilità in caso di morte del socio, con la conseguenza, in questo caso, che i soci superstiti saranno tenuti, nei confronti degli eredi del socio defunto, alla liquidazione della sua quota.
1.1 La liquidazione della quota del socio defunto nella S.n.c.
Come si è accennato, in caso di morte di un socio di S.n.c. l’art. 2284 c.c. contempla tre alternative, due delle quali operanti solo in presenza di un’espressa volontà dei soci al riguardo.
La liquidazione della quota de socio deceduto costituisce l’ipotesi “normale”, cioè operante per legge in assenza di diversa volontà delle parti coinvolte o previsione del contratto sociale. Ai sensi dell’art. 2284 cod. civ., in altre parole, è fisiologico che la morte del socio determini lo scioglimento del rapporto sociale con riguardo a quest’ultimo, in considerazione del carattere intuitu personae che caratterizza la partecipazione a società di persone.
Gli eredi del socio, pertanto, non entrano a far parte della società, ma conseguono solo il diritto alla liquidazione della quota del defunto. Tale diritto integra solo un diritto di credito, ed essi sono, pertanto, creditori della società, e non soci di essa. Nella massa ereditaria da dividere, dunque, rientrerà anche il credito alla liquidazione di cui all’art. 2284 c.c.
La liquidazione deve avvenire entro sei mesi dalla morte del socio e sulla base dell’effettivo patrimonio della società, e non del valore nominale della partecipazione al capitale. Tale quota dovrà quindi essere calcolata sulla base della situazione patrimoniale della società, quale risultante al momento in cui si è verificato lo scioglimento del rapporto sociale (che in questo caso è quello della morte del socio), dovendosi, comunque, tenere conto degli utili e delle perdite relativi alle operazioni in corso.
Così, ad esempio, ipotizzando che la società Alfa S.n.c. abbia due soci, Tizio e Caio, capitale pari ad euro 10.000 (diecimila) ed un patrimonio netto pari ad euro 1.000.000 (un milione), alla morte del socio Tizio i suoi eredi avranno diritto ad una liquidazione pari ad euro 500.000 (cinquecentomila) e non a soli euro 5.000 (cinquemila).
Tale situazione può essere pertanto fonte di notevoli problematiche qualora la società abbia un notevole (ad esempio perché proprietaria di beni immobili), ma allo stesso tempo abbia scarsa liquidità nelle casse sociali.
È controverso se il diritto alla liquidazione della quota spettante agli eredi del socio defunto debba esser fatto valere nei confronti della società, e debba quindi essere soddisfatto sul patrimonio sociale (salva la eventuale responsabilità sussidiaria ed illimitata degli altri soci), o se invece al relativo pagamento siano tenuti direttamente ed esclusivamente (nonché’ solidalmente) i soci superstiti con il loro personale patrimonio. La giurisprudenza prevalente individua comunque nella società il soggetto su cui grava tale obbligo, in quanto è pacificamente riconosciuta a quest’ultima la qualifica di autonomo centro di diritti e doveri.
Quanto alle concrete modalità di calcolo della quota che deve essere liquidata agli eredi, ad avviso della giurisprudenza il diritto l’avviamento non è un bene ma una qualità dell’azienda, quale complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.), e si traduce nel maggior valore che il complesso aziendale unitariamente considerato presenta rispetto alla somma dei valori di mercato dei beni che lo compongono.
In particolare, il principio stabilito dall’art. 2289 c.c. – a norma del quale in tutti i casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio la liquidazione della sua quota e fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento – comporta che il valore di avviamento è computabile nella quota di liquidazione spettante al socio uscente, al fine di evitare l’ingiusto arricchimento di colui il quale continua ad avvalersi dell’organizzazione alla quale l’avviamento inerisce.
1.2 La prosecuzione della società con gli eredi
In alternativa alla liquidazione della quota, l’art. 2284 cod. civ. consente che la società prosegua con gli eredi del socio defunto. In tal caso, però, è indispensabile una espressa volontà al riguardo, manifestata tanto dai soci superstiti quanto dagli eredi del defunto.
In altri termini, alla morte del socio il rapporto sociale si scioglie, ma è in facoltà dei soggetti coinvolti decidere, con apposito atto fra vivi, di proseguire il rapporto sociale. In tale evenienza, dunque, gli eredi (o alcuni di essi) subentrano nella società, perdendo, evidentemente, il diritto alla liquidazione.
In caso di più eredi e in assenza di volontà espressa, si ritiene che la quota sociale del defunto si divida tra gli eredi, per cui ciascuno subentra in proporzione delle sue ragioni ereditarie. Eventuali eredi dissenzienti o non graditi ai soci superstiti devono essere in ogni caso liquidati pro quota.
Se viene fatta questa scelta, i soci superstiti e i successori devono recarsi da un notaio e formalizzare un negozio di continuazione (o di subingresso). Con questo atto, i successori del socio defunto, tutti o solo quelli graditi ai soci superstiti, utilizzano il credito che avrebbero in caso di liquidazione per entrare a far parte della società. È, poi, possibile che i successori acquistino una quota in comproprietà oppure tante piccole quote in proprietà esclusiva.
I nuovi soci, in quanto eredi del socio defunto, non saranno tenuti a eseguire alcun conferimento di società, valendo a questi effetti il conferimento già eseguito dal socio defunto.
1.3 Lo scioglimento della società
Infine. i soci superstiti possono decidere di sciogliere del tutto la società. In tal caso, agli eredi spetta in ogni caso il diritto alla liquidazione della quota del defunto, ma essi devono attendere il compimento delle operazioni di liquidazione (quindi anche oltre il termine di 6 mesi) per potersi vedere liquidato quanto ad essi spettante.
Questa è la scelta che i soci tenderanno normalmente a privilegiare nel caso in cui ritengano che la partecipazione del socio deceduto era da considerarsi rilevante al fine del perseguimento dell’oggetto sociale, ovvero risulti che la società non abbia le somme sufficienti per provvedere alla liquidazione della quota nei confronti degli eredi del socio defunto senza dover incidere in modo determinante sui mezzi necessari al fine della realizzazione del programma sociale. Tale possibilità è in ogni caso l’unica disponibile qualora il decesso del socio si verifichi quando la società è già in fase di liquidazione.
Di fronte alla decisione dei soci superstiti di sciogliere la società gli eredi del socio vengono quindi a trovarsi in una posizione di totale soggezione, non potendo in alcun modo interferire con tale decisione e dovendone invece subire le relative conseguenze. Per loro cessa immediatamente il diritto a vedersi liquidata la quota del proprio dante causa nell’arco dei sei mesi dalla sua morte, ed al fine di conseguire il valore di detta quota essi devono necessariamente attendere la conclusione delle operazioni relative alla liquidazione della società.
Tale decisione, nulla disponendo l’art. 2284 c.c. e tenuto presente il disposto dell’art. 2272, n. 3), c.c., deve essere presa all’unanimità, a meno che non vi sia una clausola dei patti sociali che preveda espressamente per tale ipotesi la possibilità di una decisione a maggioranza; non è invece sufficiente la generica previsione di una adozione a maggioranza per le modifiche dei patti sociali, trattandosi in questo caso non di una normale modifica del contratto sociale, bensì dello scioglimento della stessa società.
Si ritiene che la delibera di scioglimento debba essere assunta entro il termine di 6 mesi dalla morte del socio, dato che entro tale termine deve essere versata la quota di liquidazione. Essendo tale termine stabilito nell’interesse degli eredi, essi possono comunque prolungarlo concedendo una proroga, salvo il caso in cui la società sia rimasta con un solo socio.
Dottrina e giurisprudenza ritengono che nelle società di persone non sia indispensabile una procedura formale di liquidazione, potendosi addivenire alla estinzione dell’ente anche senza transitare per essa. Nelle società di persone il procedimento formale di liquidazione non è infatti imposto dalla legge, ma costituisce una scelta della società, nell’esclusivo interesse dei soci, i quali possono anche evitarla provvedendo all’estinzione dell’ente sociale con altre modalità o chiedendo al giudice nei modi ordinari di definire i rapporti di dare e avere.
La decisione di sciogliere la società da parte dei soci superstiti non produce come effetto quello di trasformare gli eredi del socio a responsabilità illimitata in soci della società in liquidazione. Lo status degli eredi del socio quali (eventuali) “creditori” del valore della quota, sorto al momento della morte dello stesso, è destinato, quindi, a permanere anche a seguito della decisione dei soci superstiti di sciogliere la società.
Da ciò derivano, sotto il profilo pratico, importanti conseguenze. In particolare, agli eredi del socio defunto a seguito dello scioglimento della società deciso dai soci superstiti non può essere riconosciuto, in quanto non soci, alcun diritto alla nomina dei liquidatori, ovvero alla partecipazione alle operazioni liquidative. Inoltre, sempre per tale motivo, in caso di modifica dei patti sociali operata in sede di liquidazione, ovvero di importanti decisioni da adottare in tale contesto (quale, ad esempio, quella relativa alla revoca dello stato di liquidazione della società), al fine del calcolo di eventuali maggioranze, ovvero di valutare l’esistenza dell’unanimità dei consensi, non deve tenersi in alcun conto della presenza o meno degli eredi del socio defunto.
1.4 La morte del socio nella S.n.c. con due soli soci
Nel caso in cui l’evento “morte del socio” riguardi una società costituita da due soli soci, occorre stabilire se le norme prima esaminate si applichino anche a tale fattispecie. In altri termini, si tratta di esaminare il rapporto che si viene ad instaurare, nel caso di morte dell’(unico) altro socio, tra l’art. 2284 e c.c. e l’art. 2272, n. 4), c.c., il quale prevede espressamente come causa di scioglimento della società la sopravvenuta mancanza della pluralità dei soci, se questa non venga ricostituita nel termine di sei mesi.
Sul punto, dottrina e giurisprudenza prevalenti ritengono che nell’ipotesi di scioglimento disciplinata dall’art. 2272, n. 4), c.c. ci si trovi di fronte ad una tipica fattispecie a formazione progressiva costituita da due elementi: la morte dell’(unico) altro socio e la mancata ricostituzione della pluralità dei soci nel termine di sei mesi dalla sua morte. Non è, pertanto, la sola morte dell’altro socio a determinare lo scioglimento della società, dato che ciò avviene solo quando alla sua morte non segua la ricostituzione della pluralità dei soci nel termine semestrale.
Di conseguenza, fino alla scadenza del suddetto termine semestrale la società non subisce alcun tipo di modificazione e l’unico socio superstite, fino a tale momento, conserva immutati tutti i suoi poteri, senza subire alcuna forma di limitazione nel suo operare.
Le due norme di cui all’art. 2284 e c.c. e all’art. 2272, n. 4), c.c. risultano quindi, compatibili, visto che la loro operatività si svolge su piani diversi e che ciascuna di esse conserva un proprio ambito applicativo. Pertanto, anche in caso di morte del socio in una società costituita da due soli soci rimangono comunque attivabili tutte le opzioni previste dall’art. 2284 c.c.
Così, morto l’altro socio, scioltosi il relativo rapporto sociale, per il socio superstite nasce immediatamente il dovere di procedere alla liquidazione della quota del socio defunto, con il sorgere per gli eredi dello stesso del diritto di vedersi attribuita, nel termine dei sei mesi successivi alla sua morte, una somma di denaro che rappresenti il valore della quota già di spettanza del de cuius, in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento.
Allo stesso modo, dopo la morte dell’altro socio, il socio superstite, senza attendere lo spirare del termine semestrale previsto per la ricostituzione della pluralità dei soci, e comunque fino allo spirare dello stesso termine, potrà sempre decidere lo scioglimento dell’intera società, con la conseguente apertura della fase di liquidazione; rimanendo anche in questo caso gli eredi del socio defunto estranei alla procedura di liquidazione in quanto, come visto, non potranno mai assumere la qualità di soci.
Il socio superstite, infine, avrà anche la possibilità di ricostituire la pluralità dei soci, sia attraverso il subingresso in società di nuovi soci (anche cedendo ad altri parte della propria partecipazione sociale), permanendo in tal caso per lo stesso il dovere di liquidare la quota del socio defunto ai suoi eredi, sia mediante la continuazione della società con gli stessi eredi del socio defunto, ai sensi dell’art. 2284 c.c. (e sempre che questi vi acconsentano).
Qualora scada il termine semestrale dalla morte dell’altro socio, senza che sia stata ricostituita la pluralità dei soci, relativamente al socio superstite, sempre che la società non sia stata già dichiarata sciolta a seguito della scelta dallo stesso socio effettuata ai sensi dell’art. 2284 c.c., opererà la causa di scioglimento di cui all’art. 2274, n. 4), c.c., con la conseguente messa in liquidazione della società.
Nulla cambia invece per gli eredi del socio defunto rispetto a quanto già precedentemente illustrato. Qualora tali eredi, scaduto il termine semestrale, non fossero stati ancora liquidati, per gli stessi, relativamente alla loro quota di liquidazione, si produrranno esclusivamente gli effetti della mora, essendo ininfluente il fatto che a causa dello scadere del detto termine semestrale si sia verificato anche lo scioglimento di diritto della società. La loro posizione di semplici creditori del valore della quota di partecipazione sociale del de cuius, che si era venuto a determinare nel momento della morte del loro dante causa, rimarrà immutata anche dopo la scadenza del termine semestrale dalla morte dell’unico altro socio.
Il fatto, pertanto, che la società ormai risulti sciolta non consentirà, anche in questa ipotesi, agli eredi del socio di esercitare (in quanto non soci) alcuna ingerenza nella liquidazione della disciolta società, così come nessuna ingerenza essi potevano esercitare nel caso in cui la liquidazione della società fosse stata conseguenza di una decisione di scioglimento adottata dal socio superstite ai sensi dell’art. 2284 c.c., prima della scadenza del termine semestrale.
Infine, di fronte all’inerzia del socio superstite circa l’attivazione di una procedura, formale o meno, di liquidazione della società, si aprirà l’ulteriore scenario della eventuale continuazione dell’impresa sociale da parte dell’unico socio in costanza dell’avvenuta causa di scioglimento della società.
1.5 Le diverse previsioni statutarie: a) le clausole di continuazione
Il sistema appena delineato è operante, ai sensi dell’art. 2284 c.c., solo salva diversa previsione del contratto sociale. Lo statuto può quindi prevedere regola organizzative.
In particolare, i soci possono prevedere nello statuto, con diverse intensità, che la società continui con i successori del socio defunto, attraverso le c.d. clausole di continuazione. Si tratta di convenzioni con effetti immediati, anche se sospensivamente condizionate alla premorienza del socio; per tali motivi, esse non costituiscono patti successori (come è noto vietati dall’ordinamento). Ne esistono di tre tipi: facoltativa, obbligatoria e automatica.
Con la clausola di continuazione facoltativa i soci superstiti sono obbligati a prestare il loro consenso alla continuazione della società con i successori, mentre gli eredi e i legatari possono decidere se continuare o non continuare la società. In sostanza, i soci superstiti manifestano anticipatamente il consenso alla prosecuzione del rapporto sociale, rinunziando ad avvalersi delle altre alternative di cui all’art. 2284 c.c., mentre gli eredi hanno solo facoltà di procedere in tal senso.
Tale clausola, pur traducendosi in una autolimitazione dell’autonomia contrattuale dei soci, è ritenuta pacificamente ammissibile, in quanto non vincola gli eredi, i quali conservano la facoltà di aderire o meno al contratto sociale e chiedere quindi la liquidazione della quota.
Tuttavia, con riferimento alla S.a.s., tale clausola è ritenuta invalida qualora preveda l’automatica trasmissibilità all’erede del socio accomandatario anche dell’ufficio di amministratore e la designazione sia fatta in favore di una persona indeterminata.
Con la clausola di continuazione obbligatoria, invece, l’obbligo di continuare la società è posto sia sui soci che sugli eredi e legatari. L’ammissibilità di tale clausola è discussa, in quanto essa contrasta con il principio per il quale a nessuno può essere imposta l’assunzione di responsabilità illimitata senza il suo consenso.
La giurisprudenza prevalente reputa tale clausola lecita, qualificandola come promessa del fatto del terzo (art. 1281 c.c.); se l’erede, quale terzo, del quale il socio defunto aveva promesso l’adesione alla società, non vi aderisce, sarà tenuto al risarcimento del danno, quale erede del promittente.
Infine, con la clausola di continuazione automatica i soci stabiliscono preventivamente che il rapporto sociale prosegue automaticamente con gli eredi, senza che sia necessario alcun atto tra vivi; in altre parole, in questo caso l’accettazione dell’eredità comporta l’assunzione automatica della qualità di socio, senza necessità di un’esplicita adesione al contratto sociale.
Anche l’ammissibilità di tale clausola è discussa, per le stesse ragioni sopra illustrate a proposito delle clausole di continuazione obbligatoria. La giurisprudenza prevalente ritiene comunque tale clausola valida, in quanto l’erede può sempre rifiutare l’ingresso in società rifiutando l‘eredità, nella quale sono comprese le quote sociali che costituiscono un bene patrimoniale del socio defunto. In ogni caso, è ritenuta valida la clausola di continuazione automatica nel caso di morte del socio accomandante, in quanto esso è socio limitatamente responsabile e quindi il successore rischia di perdere solo l’investimento e non tutto il suo patrimonio.
Secondo la giurisprudenza, l’erede può accettare l’eredità con beneficio di inventario, senza che ciò contrasti con la sua responsabilità illimitata come socio, in quanto tale responsabilità riguarda le obbligazioni che egli assumerà come socio e di cui dovrà rispondere con l’intero suo patrimonio, mentre il beneficio di inventario comporta che egli risponde delle obbligazioni del defunto nei limiti del valore dell’eredità.
1.6 Le diverse previsioni statutarie: b) le clausole di consolidazione
I soci possono altresì prevedere nello statuto che l’obbligo di liquidazione sia posto a carico dei soci superstiti; in tal caso, i successori del socio defunto spetta sempre il diritto alla liquidazione, ma invece di ricevere la liquidazione dalla società, essi ricevono il denaro dai soci ancora in vita.
Tale effetto si ottiene attraverso l’inserimento nello statuto di una clausola di consolidazione, che prevedono il progressivo consolidamento delle quote dei soci deceduti in capo ai soci superstiti. Vi sono due tipi di consolidazione: pura e impura.
La clausola di consolidazione pura prevede che la quota del socio defunto si accresca (cioè venga divisa proporzionalmente) a favore degli altri soci superstiti, senza l’obbligo di liquidare gli eredi del socio defunto. Questa tipologia di clausola è ritenuta nulla, in quanto contrastante con il divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c.
La clausola di consolidazione impura, invece, prevede l’accrescimento di quota a favore degli altri soci superstiti con l’obbligo da parte di questi di liquidare gli eredi del socio defunto, tenendo conto del valore effettivo della stessa o secondo determinati criteri. Questa clausola è per lo più ritenuta lecita.
Tale clausola implica peraltro che cedenti e cessionari devono essere determinati; conseguentemente, la clausola deve far riferimento ai soci presenti al momento della stipulazione della clausola di consolidazione e non può riferirsi a quelli futuri. Ciò significa che, qualora se un socio venda la propria quota ad altro soggetto, se non viene modificata la clausola di consolidazione, il nuovo socio non sarà obbligato a liquidare i successori del socio defunto, in quanto ad esso si accrescerà la quota del socio defunto. Allo stesso modo, se il nuovo socio muore prima degli altri soci, la sua quota non si consoliderà ai soci superstiti se non si aggiorna con il suo nome la clausola.
1.7 Le diverse previsioni statutarie: c) ulteriori clausole
Nel novero delle clausole societarie vengono in considerazione quelle relative alla divisione della quota, ovvero le clausole di divisione automatica della quota resa convenzionalmente trasmissibile mortis causa e quelle limitative della divisione della quota legalmente o convenzionalmente trasmissibile. È possibile addivenire ad una quantificazione minima delle partecipazioni sociali, in modo da subordinare l’assunzione della qualità di socio ad una partecipazione prefissata nel suo valore economico. Inoltre, nell’ipotesi in cui le quote siano trasmissibili mortis causa ma indivisibili o limitatamente divisibili, i soci possono inserire nello statuto una clausola che, sulla base di criteri oggettivi, individui il rappresentante comune dei contitolari delle quote, o ne regoli l’elezione, o la subordini al gradimento di un organo sociale o di una maggioranza di soci.
Sono relativamente frequenti le clausole statutarie che derogano alla disciplina dettata dall’art. 2289 c.c., circa le modalità e i termini di liquidazione del quantum dovuto agli eredi; ad esempio, fissando termini ulteriori rispetto al semestre per soddisfare l’onere di liquidazione, o prevedendo un pagamento rateale, o che la liquidazione debba avvenire sulla base della situazione patrimoniale relativa all’ultimo esercizio che si è chiuso prima della morte del socio o relativa all’esercizio in corso, anziché sulla base del bilancio straordinario di cui all’art. 2289, comma 2°, c.c..
È possibile inserire nello statuto una clausola che, in corrispondenza con il passaggio agli eredi, possa influire sulla tipologia del rapporto sociale, disponendo la conversione della quota da quota con responsabilità illimitata a quota con responsabilità limitata per le obbligazioni sociali. Tale clausola è ammissibile solo qualora la sua operatività dipenda da una libera scelta da parte degli eredi, sulla quale non possano interferire in alcun modo né il de cuius né gli altri soci.
È altresì possibile inserire nello statuto le clausole le quali, a decorrere dalla morte del socio (che rappresenta la condizione sospensiva), tendano a modificare la composizione o il funzionamento degli organi societari: ad esempio, la clausola che preveda il passaggio dall’amministrazione unipersonale a quella pluripersonale o dall’amministrazione disgiunta a quella congiunta o alla collegiale, o viceversa, o la clausola che modifichi il numero degli amministratori o che introduca l’eleggibilità di amministratori non soci, o viceversa.
2. La disciplina della morte del socio nelle società di capitali
Le società di capitali (S.r.l., S.p.A., S.a.p.A.) hanno, come è noto, una soggettività giuridica, in quanto hanno un patrimonio distinto da quello dei soci, hanno un proprio nome e una propria sede e, pertanto, sono dei soggetti di diritto distinti dalle persone dei soci che le compongono.
Diversamente dalle società di persone, nelle società di capitali, caratterizzate dalla (tendenziale) irrilevanza delle qualità e requisiti personali dei singoli soci, le partecipazioni sociali sono liberamente trasmissibili, sia per atto tra vivi che mortis causa.
Pertanto, in assenza di contrarie previsioni inserite in statuto, le partecipazioni sociali di società di capitali, in caso di premorienza di un socio, si trasmettono automaticamente agli eredi o legatari, secondo la disciplina specifica della successione a causa di morte del socio premorto, per legge o per testamento che egli abbia deciso di predisporre.
In particolare:
- per le S.p.A. e le S.a.p.a., il principio della libera trasmissibilità delle azioni mortis causa é espresso dall’art. 2355-bis comma 1 c.c., secondo cui “nel caso di azioni nominative ed in quello di mancata emissione dei titoli azionari, lo statuto può sottoporre a particolari condizioni il loro trasferimento e può, per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto, vietarne il trasferimento.”
- per le S.r.l., il principio della libera trasferibilità delle quote (anche) mortis causa è espresso dall’art. 2469 comma 1 c.c., secondo cui “le partecipazioni sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo.”
Dunque, a seguito della morte di un socio di società di capitali, l’erede (previa accettazione dell’eredità) o il legatario (direttamente, in virtù del principio di acquisto automatico del legato, salvo rinunzia: art. 649 c.c.) diventano, come regola generale, direttamente titolari della partecipazione del de cuius, acquistando peraltro la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali solo a seguito dell’adempimento di alcune formalità prescritte dalla legge, con le differenti modalità per S.p.a. (o s.a.p.a.) e S.r.l. , come vedremo appresso.
2.1 La trasmissione mortis causa della partecipazione nelle S.p.A. e S.a.p.A.
Per quanto riguarda le società azionarie (S.p.A. e S.a.p.A.), l’art. 7, comma 1, r.d. 29 marzo 1942, n. 239 prevede che nel caso di morte dell’azionista, la società emittente, se non vi è opposizione, a dichiara il cambiamento di proprietà sui titoli azionari e nel libro dei soci, su presentazione del certificato di morte, di copia del testamento se esista e di un atto di notorietà giudiziale o notarile, attestante la qualità di erede o di legatario dei titoli.
Occorre dunque procedere alla c.d. “doppia intestazione” dell’azionista sul titolo e nel libro dei soci, fermo restando che tale formalità è richiesta per l’acquisto della sola legittimazione all’esercizio dei diritti sociali da parte del neo-azionista, non anche della titolarità delle azioni, per la quale opera il generale principio del consenso traslativo per gli acquisti inter vivos (art. 1376 c.c.) e gli ordinari principi di diritto delle successioni per gli acquisti mortis causa.
2.2 Morte del socio e successione ereditaria nelle S.r.l.
Come si è visto, la legge prevede che le partecipazioni in una S.r.l. sono liberamente trasmissibili non solo per atto tra vivi, ma anche a causa di morte del socio, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo (art. 2469, comma 1, c.c.). Ne consegue che gli eredi di un socio di S.r.l. di regola succedono al socio defunto, acquisendone la partecipazione, senza necessità che una clausola ad hoc nello statuto preveda la continuazione della società con gli eredi del socio defunto.
Tuttavia, se il trasferimento della proprietà o di altri diritti sulla quota di S.r.l. è libero e senza vincoli (tranne quelli eventualmente previsti nello statuto sociale) e ha effetto tra le parti dal momento della conclusione dell’atto di trasferimento, l’efficacia del trasferimento nei confronti della società e dei terzi è subordinata alla conclusione dell’iter pubblicitario prescritto dall’art. 2470 c.c. Tale disposizione, infatti, prevede che il trasferimento (a qualsiasi titolo, sia inter vivos sia mortis causa) delle partecipazioni di S.r.l. ha effetto nei confronti della società (e dei terzi) dal momento del deposito del relativo atto presso il competente Registro Imprese.
La formalità del deposito il registro delle imprese ai sensi dell’art. 2470, comma 2 c-c- rileva solo sul piano dell’acquisto della legittimazione all’esercizio dei diritti sociali da parte dell’erede o del legatario di quota. Prima dell’iscrizione nel Registro Imprese dell’atto di trasferimento (unitamente alla documentazione relativa a tale trasferimento prescritta dalla legge), il beneficiario del lascito (erede o legatario) avente a oggetto la quota di partecipazione di cui era titolare il socio defunto non può partecipare ad alcuna attività sociale né interferire con l’amministrazione societaria, essendo – soggetto terzo – privo di alcun diritto attuale – rispetto alla società.
Qualora lo statuto della S.r.l. impedisca il trasferimento della quota per causa di morte del socio, oppure preveda modalità di rimborso del valore della quota non proporzionali al patrimonio sociale, gli eredi o legatari del socio defunto hanno diritto di chiedere agli soci la liquidazione della quota del socio defunto in proporzione al valore del patrimonio sociale. Al momento della morte del socio di una S.r.l. sorge infatti nel patrimonio ereditario de de cuius un diritto di credito alla liquidazione della quota, ai sensi dell’art. 2284 c.c. Tale credito fa parte della comunione ereditaria e quindi non si divide automaticamente tra gli eredi. Ne consegue, che prima di poter disporre anche solo di una quota di detto credito, occorre procedere a divisione ereditaria.
Le modalità della liquidazione della quota sono disciplinate dall’art. 2289 c.c., il quale prevede che la liquidazione della quota avviene, a carico della società, in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento. Se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime. Salvo quanto è disposto nell’art. 2270 c.c., il pagamento della quota spettante al socio deve essere fatto entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto.
Gli amministratori hanno l’obbligo di redigere il rendiconto della società al fine di consentire la formazione, in nome e per conto della società, di una situazione patrimoniale straordinaria aggiornata, nel rispetto dei criteri di redazione del bilancio ed ai fini dell’assolvimento dell’onere della società di provare il valore della quota.
Ai fini del calcolo della liquidazione della quota in favore degli eredi del socio defunto deve tenersi conto dell’effettiva consistenza economica della società all’epoca dello scioglimento del rapporto, compreso anche l’avviamento.
In mancanza di contrarie previsioni statutarie, in caso di trasmissione a titolo di eredità a favore di più (co)-eredi, le quote di S.r.l. cadono in comunione ereditaria del socio premorto e quindi non vengono automaticamente divise e acquistate pro-quota dai suoi (co)-eredi. A tal fine è necessaria, successivamente all’apertura della successione, la divisione ereditaria contrattuale, ossia la stipula da parte dei coeredi del contratto di scioglimento della comunione ereditaria con attribuzione in titolarità esclusiva a favore di ciascun coerede di singole porzioni divisionali formate da specifici beni ereditari (ivi incluse, tra gli altri, le partecipazioni sociali in società di capitali).
In mancanza di divisione (testamentaria o contrattuale), l’appartenenza delle partecipazioni sociali di S.r.l. alla comunione ereditaria tra i coeredi di un socio premorto comporta che i diritti sociali dei coeredi-comproprietari delle azioni o quote cadute in successione non possono esser esercitati singolarmente, ma devono essere esercitati da un rappresentante comune (art. 2468 c.c.), che deve esser nominato a maggioranza.
Qualora il socio defunto non abbia eredi, o sia comunque verosimile che non esistano eredi, trova applicazione l’art. 586 c.c., che disciplina la devoluzione dell’eredità allo Stato in mancanza di altri successibili.
In tal caso, dunque, l’eredità si devolve immediatamente allo Stato, che diventa socio in via retroattiva a decorrere dalla apertura della successione, a seguito di idonea istanza alla Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’art. 586 c.c.
Lo Stato, peraltro, può diventare socio a tutti gli effetti soltanto quando risulti assolutamente certa l’inesistenza di successibili entro il sesto grado. Fino a tale momento, l’eredità è considerata giacente, con conseguente necessità di nomina di un curatore ai sensi dell’art. 528 c.c., a cura del tribunale del circondario in cui s’è aperta la successione, su richiesta di qualsivoglia soggetto interessato o d’ufficio. Il curatore potrà garantire, quale legittimo interlocutore della società, la valida prosecuzione delle attività di impresa.
Qualora invece esista un chiamato all’eredità il quale, tuttavia, non abbia ancora accettato l’eredità, o tale chiamato non si trovi nel possesso dei beni ereditari, si ha l’eredità giacente, ai sensi dell’art. 528 e ss. c.c.
In tal caso viene nominato un curatore dell’eredità giacente, il quale ha l’obbligo di redigere l’inventario ai sensi dell’art. 529 c.c. e di compiere atti urgenti, sotto la vigilanza del tribunale. In particolare, il curatore:
- deve ottenere l’autorizzazione giudiziale ai sensi degli artt. 782 e 783 C.p.c. per gli atti di straordinaria amministrazione;
- deve compiere le attività dispositive che reputerà necessarie per la conservazione del patrimonio e la liquidazione delle passività, qualora lo ritenga opportuno per realizzare un maggior investimento di capitale (ad esempio, procedere alla vendita delle quote societarie, intervenire in assemblea per assumere delibere opportune per l’ente, sottoscrivere aumenti di capitale con il relativo esercizio di prelazione/opzione, esercitare la prelazione sull’inoptato, etc.).
2.3 Le deroghe statutarie alla libera circolazione mortis causa delle partecipazioni sociali nelle società di capitali
La regola generale della libera trasferibilità delle partecipazioni sociali nelle società di capitali può essere derogata nello statuto. I soci superstiti al socio defunto possono infatti avere interesse ad evitare che nella compagine sociale subentrino gli eredi del de cuius, prevedendo nell’atto costitutivo della società espressamente delle limitazioni alla libera trasferibilità delle quote, in caso di morte del socio, agli eredi o ai legatari del defunto.
La legge preserva in ogni caso l’interesse dei successori mortis causa del socio premorto a non vedersi espropriato dai soci superstiti il valore della partecipazione del socio premorto, rendendo necessario che ai vincoli statutari alla trasmissione mortis causa di partecipazioni si accompagnino meccanismi che permettano agli eredi o legatari del socio premorto di ottenere il valore monetario delle partecipazioni sociali di quest’ultimo.
Per quanto concerne le S.p.a. e le S.a.p.A., l’art. 2355-bis c.c. prevede, al comma 1 che, ferma l’applicazione dell’art. 2357 c.c., le clausole dello statuto che subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento di organi sociali o di altri soci sono inefficaci se non prevedono, a carico della società o degli altri soci, un obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso dell’alienante. Il comma 2 della stessa norma prevede che il corrispettivo dell’acquisto o rispettivamente la quota di liquidazione sono determinati secondo le modalità e nella misura previste dall’art. 2437-ter c.c. Infine, il comma 3 della medesima norma specifica che tale disposizione si applica in ogni ipotesi di clausole che sottopongono a particolari condizioni il trasferimento a causa di morte delle azioni, salvo che sia previsto il gradimento e questo sia concesso.
Con riferimento alle S.r.l, l’art. 2469 comma 2 c.c. dispone che qualora l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’art. 2473 c.c. In tali casi, l’atto costitutivo può stabilire un termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non può essere esercitato.
Da tali norme si ricava pertanto che:
- nelle S.p.A. e S.a.p.A., il successore mortis causa del socio premorto (erede o legatario) ha il diritto di farsi acquistare le azioni dalla stessa società emittente o dai soci superstiti oppure il diritto di recedere se previsto dallo statuto (art. 2473 comma 4 c.c.), verso un controvalore delle azioni che sia almeno pari al valore di recesso previsto dall’art. 2437-ter c.c., ovvero tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni; lo statuto può comunque stabilire criteri diversi di determinazione del valore di liquidazione, indicando gli elementi dell’attivo e del passivo del bilancio che possono essere rettificati rispetto ai valori risultanti dal bilancio, unitamente ai criteri di rettifica, nonché altri elementi suscettibili di valutazione patrimoniale da tenere in considerazione (art. 2437-ter, comma 4, c.c.);
- nelle S.r.l., viceversa, il successore mortis causa del socio premorto (erede o legatario) ha solo il diritto di recesso, tenuto conto dell’incapacità in tale tipo societario dell’acquisto di partecipazioni proprie (art. 2474 c.c.).
Le previsioni statutarie di S.p.A. o S.a.p.A. difformi dalla disciplina legale di cui all’art. 2355-bis c.c. (cioè che non prevedono i correttivi del diritto di exit a favore dei successori mortis causa del socio premorto, nell’ipotesi di preclusione del loro ingresso in società) sono valide ma inefficaci, con il conseguente pieno diritto dei successori mortis causa del socio premorto di subentrargli nella titolarità delle azioni e di essere iscritti nel libro dei soci. Viceversa, nelle S.r.l. le previsioni statutarie impeditive della trasmissione mortis causa di quote restano efficaci, precludendo quindi l’ingresso in società dell’erede o legatario del socio premorto, salvo il diritto legale al recesso e alla conseguente liquidazione della quota, a loro beneficio.
2.4 Le clausole statutarie limitative del trasferimento mortis causa di partecipazioni in società di capitali: intrasferibilità, gradimento, prelazione, opzione o riscatto
Le clausole di predisposizione successoria limitative del trasferimento mortis causa delle partecipazioni sociali nelle società di capitali appartengono essenzialmente a quattro tipologie:
- clausole di intrasferibilità;
- clausole di gradimento;
- clausole di prelazione;
- clausole di opzione o riscatto.
Le clausole d’intrasferibilità mortis causa delle partecipazioni non permettono, in via automatica, assoluta ed incondizionata, agli eredi o legatari di entrare a far parte della compagine sociale di cui faceva parte il loro defunto dante causa.
Nel caso di S.p.A. o S.a.p.A., ferma la necessaria presenza nello statuto, a pena d’inefficacia, dei correttivi di garanzia del diritto di exit sopra descritti (diritto all’acquisto o di recesso), tali clausole non possono avere, comunque, un periodo di durata superiore a cinque anni, per cui precludono l’acquisto mortis causa delle azioni soltanto se il decesso del socio si verifica in pendenza del termine non ultra-quinquennale d’intrasferibilità, decorso il quale l’erede o legatario potrà acquistare tranquillamente le azioni di un socio.
Nel caso delle S.r.l., invece, non è previsto il limite quinquennale di durata, e pertanto può versi anche una durata ultra-quinquennale, o addirittura indeterminata, della intrasferibilità mortis causa di quote, fatto salvo, in ogni caso, il diritto legale di recesso ai sensi dell’art. 2469 c.c.
Il diritto di recesso costituisce indubbiamente un forte deterrente all’introduzione di clausole che sanciscono l’intrasferibilità della partecipazione assoluta, perché questa sorta di “spada di Damocle” potrebbe da un momento all’altro provocare un pesante effetto sul patrimonio dell’impresa, visto che il socio recedente ha diritto di vedersi liquidato il valore effettivo della partecipazione stessa. Una clausola che sancisca il divieto assoluto di trasferimento della partecipazione potrebbe peraltro trovare la sua ragione in quelle situazioni in cui l’attività sociale è fortemente condizionata dalla presenza di particolari requisiti professionali dei soci (società di consulenza, di ingegneria, ecc.). Tuttavia, lo strumento del recesso potrebbe essere anche utilizzato in modo strumentale e distorto da parte del socio, il quale potrebbe esercitare il diritto in un particolare momento di ricchezza patrimoniale della società.
In realtà, l’introduzione nello statuto di una S.r.l. di una clausola che impedisca il trasferimento tout court a causa di morte non legittima i soci ad esercitare il diritto di recesso, bensì fa sorgere il diritto di liquidazione in capo agli eredi ai quali viene impedito di entrare a far parte della compagine sociale per effetto della clausola limitativa. Infatti, Infatti, gli eredi non possono esercitare il diritto di recesso perché la clausola limitativa impedisce loro di acquisire giuridicamente lo status di socio; gli eredi, che non hanno acquisito la qualifica di socio, hanno quindi diritto di ottenere appunto la liquidazione della quota sociale, con le stesse prerogative che avrebbe potuto rivendicare il socio nell’ipotesi di un trasferimento tra vivi che avesse legittimato l’esercizio del diritto di recesso.
In entrambi i tipi societari l’intrasferibilità non può mai atteggiarsi in termini di clausola di c.d. “accrescimento” (o “consolidazione pura” o “concentrazione”) delle partecipazioni del socio premorto a favore dei soci superstiti, con esclusione del diritto alla liquidazione di esse dei suoi successori mortis causa, in quanto ciò contrasterebbe con le previsioni di legge (artt. 2335-bis e 2437 c.c. per le S.p.A. o S.a.p.A, artt. 2469 e 2473 c.c. per le S.r.l.) e con il principio del divieto dei patti successori.
Nel caso in cui lo statuto preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni, o comunque ponga dei limiti che nel caso concreto impediscano tale trasferimento a causa di morte, agli eredi non spetta il diritto di essere iscritti nel libro soci, ma spetta comunque la titolarità delle partecipazioni finalizzata alla loro liquidazione. Ciò significa che nel caso in cui i soci superstiti intendano mettere in liquidazione la società, agli eredi spetta il diritto di liquidazione della partecipazione secondo il valore della stessa al momento della morte del socio, e non secondo le risultanze del bilancio finale di liquidazione.
Le clausole di gradimento mortis causa subordinano il trasferimento a eredi o legatari di partecipazioni societarie al gradimento:
- degli organi sociali (C.d.A., comitato esecutivo o, più raramente, l’assemblea);
- di uno o più soci;
- di terzi non soci.
Nella prassi societaria sono utilizzati due modelli di clausola di gradimento: le clausole di gradimento in senso stretto (c.d. clausole di mero gradimento) e le clausole di gradimento improprie o rigide (c.d. clausole di gradimento non mero).
Nelle clausole di mero gradimento, il trasferimento mortis causa delle azioni o quote è subordinato al consenso discrezionale del titolare; nelle clausole di gradimento non mero, invece, esso è subordinato a determinate condizioni o requisiti, a carattere oggettivo o soggettivo, che devono sussistere in capo all’erede o legatario del socio premorto (ed essere specificamente previsti nello statuto). Gli eredi o legatari avranno così la possibilità di divenire soci di una società di capitali, una volta ottenuto il consenso dal titolare del relativo potere o una volta accertati i requisiti richiesti dallo statuto.
Sul piano disciplinare, nelle S.p.A. e S.a.p.A. non si distingue, a differenza del trattamento delle clausole di gradimento limitative della circolazione inter vivos, tra gradimento mero e non mero; in entrambe le ipotesi, le relative clausole statutarie mortis causa sono da considerare inefficaci, salvo che siano previsti i soliti correttivi di exit visti sopra per il caso che il placet venisse negato o che viceversa il placet venisse concesso, pur in mancanza dei menzionati correttivi. Dall’inefficacia di una clausola statutaria di gradimento mortis causa non corretta discende che l’erede o il legatario può subentrare al socio premorto nella titolarità delle azioni, con diritto all’iscrizione nel libro dei soci.
Nelle S.r.l., la connotazione del gradimento come mero e non mero acquista, invece, rilievo per l’erede o legatario di quota: nella prima ipotesi gli spetta il diritto di recesso; nella seconda, tale diritto non gli spetta, a meno che siano posti condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte (art. 2469, comma 2, c.c.).
L’inserimento di una clausola di gradimento nello statuto di una s.r.l. può essere utile in tutte quelle situazioni in cui la società intenda mantenere una compagine sociale con determinate caratteristiche professionali o tecniche; in tali casi, l’inserimento di una clausola di gradimento che richieda, al fine di ottenere il gradimento stesso, che l’acquirente possegga determinati requisiti professionali, è efficace e non attribuisce al socio che si vede rifiutato il trasferimento alcun diritto di recesso. Ciò in quanto il soggetto chiamato ad esprimere il gradimento deve rispettare dei parametri oggettivi, senza alcuna discrezionalità, con la conseguenza che vengono eliminati alla radice eventuali strumentalità nell’esercizio di tale potere.
Le clausole di prelazione mortis causa sono ritenute ammissibili, pur con alcune peculiarità rispetto a quella inter vivos.
Per effetto della clausola di prelazione inserita nello statuto, qualora gli eredi del socio defunto intendano cedere le azioni o le quote ereditate, dovranno preferire, a parità di condizioni, i soci superstiti quali acquirenti delle partecipazioni sociali. La ratio di tale disposizione si ravvisa nella volontà dei soci di impedire l’ingresso in società estranei ed inoltre nella volontà di mantenere inalterata l’equilibrio di poteri tra i soci superstiti; tale ultima finalità può essere raggiunta solo laddove lo statuto preveda che la proposta di acquisto debba essere rivolta indistintamente a tutti i soci superstiti e non solo ad alcuni di essi.
I successori mortis causa del socio premorto (quali soggetti passivi) hanno l’obbligo di indirizzare ai soci superstiti (quali soggetti attivi, c.d. “prelazionari”) l’offerta in prelazione (c.d. “denuntiatio”), il cui inadempimento (entro un determinato termine successivo all’apertura della successione del socio premorto) oppure adempimento (con successivo esercizio del diritto di prelazione, entro il termine fissato a statuto) preclude l’ingresso nella compagine sociale.
Il prezzo di acquisto deve essere determinato da parte dei prelazionari delle partecipazioni sociali già del socio premorto, sulla base del loro valore di liquidazione secondo la disciplina del recesso, in base agli artt. 2355-bis, comma 3, e 2437-ter c.c.
Poiché la prelazione si può trasformare in facile strumento di contestazione tra soci, è opportuno che lo statuto disciplini in modo preciso i seguenti aspetti:
- in quali casi spetta il diritto di prelazione, ossia solo per i negozi traslativi a titolo oneroso, quali la compravendita, la permuta, la cessione del solo usufrutto, ecc., ovvero anche per i negozi a titolo gratuito;
- con quali forme il socio che intende alienare deve comunicare tale intenzione agli altri soci, nonché il contenuto che l’offerta in prelazione deve rispettare; a tal proposito, occorre indicare il nominativo del potenziale acquirente, le condizioni pattuite e, ovviamente, il prezzo, nonché le modalità di pagamento, e deve essere inoltre apposto un termine entro il quale gli altri soci devono esercitare il diritto di prelazione, trascorso il quale, in assenza di alcuna manifestazione di volontà, il socio alienante sarà libero di trasferire la partecipazione al terzo;
- le conseguenze in caso di esercizio parziale della prelazione, ossia indicare la possibilità per i soci che hanno manifestato l’intenzione di acquistare le quote in conseguenza della prelazione di acquisire, sempre in proporzione alla quota di partecipazione, l’eventuale inoptato.
Le clausole di opzione o di riscatto mortis causa costituiscono una variante delle clausole di prelazione mortis causa: esse non evitano (ed anzi presuppongono essenzialmente) la trasmissione iure successionis delle azioni o quote in favore degli eredi o legatari del socio premorto, ma li vincolano a subire l’eventuale esercizio dell’opzione o riscatto degli altri soci.
Le clausole di opzione o riscatto mortis causa sono equiparabili sostanzialmente a un patto di opzione ai sensi dell’art. 1331 c.c., nel quale però l’acquisto del diritto d’opzione è sospensivamente condizionato alla premorienza di uno dei soci rispetto agli altri.
Il patto di opzione, infatti, obbliga i successori cui pervengono le azioni o le quote del socio premorto a rimanere, per un determinato tempo, vincolati ad offrirle in opzione ai soci superstiti, ad un prezzo il cui criterio di determinazione è già fissato dalla clausola statutaria.
La giurisprudenza ritiene tali clausole valide, purché sia stata predeterminata l’entità della partecipazione destinata ad essere offerta in opzione alla morte del socio, sì da evidenziarne l’immediatezza dell’attribuzione, ponendo in essere un negozio tra vivi con effetti post mortem; la morte del socio non deve essere infatti considerata la causa della attribuzione, bensì il momento a decorrere dal quale può essere esercitata l’opzione per l’acquisto delle azioni pervenute dal de cuius agli eredi e sulle quali già gravava un vincolo di indisponibilità a carico reciprocamente dei soci
Analogamente alle altre clausole di predisposizione successoria, affinché la clausola di opzione o riscatto mortis causa sia efficace (nella S.p.A. o S.a.p.A.) o preclusiva del diritto di recesso legale dei successori mortis causa del socio premorto (nella S.r.l.), è necessario che questi ultimi conseguano un corrispettivo di opzione o riscatto almeno pari al valore di liquidazione calcolato ai sensi degli artt. 2437 ter e 2473 c.c.
Nelle S.r.l. il diritto d’opzione o riscatto mortis causa può essere configurato come un diritto particolare ai sensi dell’art. 2468 comma 3 c.c., , eventualmente attribuito selettivamente ad alcuni soci soltanto; mentre nelle S.p.A. o S.a.p.A. il vincolo d’opzione o riscatto mortis causa può essere incorporato nella categoria speciale delle azioni riscattabili, ai sensi dell’art. 2437-sexies c.c.), da parte non solo degli altri soci superstiti, ma anche dalla società (cui è invece precluso nella S.r.l.), nei limiti previsti dalla disciplina dell’acquisto azioni proprie (art. 2357 c.c.).
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in Diritto Societario
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