L’esclusione del socio dalla società
L’esclusione del socio di una società è l’atto con il quale la società determina lo scioglimento del rapporto del socio per determinati motivi – finalizzati a garantire la continuità dell’impresa – riguardanti la sua persona o dipendenti dal comportamento dallo stesso tenuto, a prescindere dalla volontà del socio stesso. L’esclusione rappresenta un evento traumatico, al quale la società deve ricorrere solo come estrema ratio, dato che essa comporta un notevole esborso, derivante dalla necessità di smobilizzare una parte del patrimonio sociale per la liquidazione della quota del socio escluso. La disciplina dell’esclusione di un socio da una società è diversa per i diversi tipi di società (società di persone e società di capitali).
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1. L’esclusione del socio dalla società
L’esclusione del socio di una società (di capitali o di persone) è l’atto con il quale la società determina lo scioglimento del rapporto del socio con la società.
L’esclusione del socio si distingue dal recesso. Anche il recesso è causa di scioglimento del rapporto sociale limitatamente al singolo socio, ma in tal caso ciò avviene perché è il socio che, esercitando un proprio diritto (previsto dalla legge o dallo statuto) decide di uscire dalla società volontariamente. Nel caso dell’esclusione, invece, la società decide di escludere il socio dalla compagine sociale per determinati motivi – finalizzati a garantire la continuità dell’impresa-a prescindere dalla volontà del socio stesso.
La legge disciplina lo scioglimento del rapporto societario limitatamente a quel socio la cui partecipazione non può essere ulteriormente consentita, per ragioni riguardanti la sua persona o dipendenti dal comportamento dallo stesso tenuto, e che risulta essere di grave ostacolo al raggiungimento dei fini sociali.
L’esclusione rappresenta un evento traumatico, al quale la società deve ricorrere solo come estrema ratio, dato che essa comporta un notevole esborso, derivante dalla necessità di smobilizzare una parte del patrimonio sociale per la liquidazione della quota del socio escluso.
La disciplina dell’esclusione di un socio da una società è diversa per i diversi tipi di società (società di persone e società di capitali).
Occorre evidenziare che la disciplina dell’esclusione del socio dalla società, avendo natura speciale, è prevalente rispetto a quella generale sulla risoluzione del contratto, regolata dagli artt. 1453 e seguenti del Codice civile, la quale non trova dunque applicazione in campo societario.
2. L’esclusione del socio di società di persone
Per le società di persone (società semplici, società in nome e collettivo, società in accomandita semplice) la disciplina dell’esclusione è contenuta nelle norme dettate per la società semplice, che trovano applicazione anche per le società in nome e collettivo e le società in accomandita semplice. Esistono due tipi di esclusione:
- quella decisa volontariamente dai soci;
- quella operante di diritto al verificarsi delle ipotesi contemplate dalla legge.
2.1 L’esclusione volontaria
Le cause di esclusione volontaria, contenute negli artt. 2286 c.c. e 2301 c.c., sono circostanze al cui ricorrere i soci possono motivatamente decidere di escludere il socio- in quanto all’attività sociale viene meno la collaborazione del socio nella misura concordata in origine – senza però essere obbligati a farlo.
Per evitare che un socio venga escluso in modo arbitrario e immotivato ad opera degli altri soci, la legge indica tre cause di esclusione natura facoltativa:
- gravi inadempienze delle obbligazioni derivanti dalla legge o dal contratto sociale;
- mutamento dello status personale del socio, quali interdizione e inabilitazione del socio, condanna dello stesso ad una pena che dà luogo all’interdizione anche temporanea dai pubblici uffici;
- per i soci che abbiano conferito nella società la propria opera o il godimento di un bene, la sopravvenuta impossibilità a dare esecuzione al conferimento promesso o il perimento del bene stesso oggetto di conferimento (art. 2286, commi 2 e 3).
Sono ritenute illegittime le c.d. clausole di esclusione facoltativa pura, ovvero le ipotesi che rimettono l’esclusione al mero arbitrio di organi sociali o degli altri soci, lasciando loro valutare ex post se una determinata circostanza integri una causa di esclusione, e quelle di esclusione assoluta, che comportano l’automatica esclusione del socio privo di ogni mezzo di tutela giurisdizionale.
Sono inoltre considerate illegittime le clausole statutarie che prevedono fattispecie di esclusione molto generiche, come avviene nel caso di violazione di obblighi sociali di correttezza e di buona fede o di compimento di attività suscettibili di dar luogo a pregiudizio per la società.
2.1.1 La violazione degli obblighi imposti al socio dalla legge o dallo statuto
Il primo comma dell’art. 2286 c.c. dispone che l’esclusione del socio può avvenire per gravi inadempienze. La grave inadempienza delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale presuppone l’esistenza di due requisiti:
- la colposità dell’inadempimento;
- la gravità dell’inadempimento.
La colposità deve essere valutata in rapporto all’art. 1218 c.c., in base al quale “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da una causa a lui non imputabile.”
I criteri per determinare la gravità dell’inadempienza del socio che ne legittima l’esclusione sono identici a quelli elaborati dalla giurisprudenza per la risoluzione per inadempimento (art. 1455 c.c.). In particolare, ad avviso della giurisprudenza l’inadempimento del socio è grave qualora incida negativamente sulla situazione della società, rendendo più difficile il raggiungimento dello scopo sociale, e creando un pregiudizio concreto alla società.
In tale ottica, è stata considerata grave inadempienza, foriera di esclusione del socio dalla società:
- il mancato conferimento o il suo ritardo da parte del socio;
- l’utilizzo per fini personali di cose appartenenti al patrimonio della società senza il consenso degli altri soci;
- la mancata restituzione da parte del socio di un bene sociale che gli era stato concesso in uso privato da parte degli altri soci;
- la sottrazione al pagamento pro quota delle obbligazioni sociali da parte del socio illimitatamente e solidalmente responsabile una volta escusso infruttuosamente il patrimonio sociale;
- l’integrale disconoscimento da parte del socio dell’operato dei soci amministratori nei riguardi dei terzi;
- l’attribuzione arbitraria da parte del socio della qualifica di amministrazione in mancanza di un tale status;
- il rifiuto a rinnovare una fideiussione da parte del socio che in precedenza l’aveva sempre prestata a favore della società;
- il rilascio di una cambiale a nome della società al di fuori di qualsiasi operazione sociale e nell’esclusivo interesse del socio;
- l’emissione di assegni su un conto della società per scopi personali.
In caso di inadempienza priva del requisito della gravità, l’unico effetto a carico del socio è rappresentato dall’obbligo di risarcire il danno eventualmente recato al soggetto leso dall’inadempienza stessa.
L’esclusione del socio dal rapporto sociale deve essere distinta dalla revoca del socio quale amministratore. Il socio amministratore può infatti essere revocato per giusta causa qualora le gravi inadempienze si riferiscano all’attività di gestione da questi esercitata. In tal caso, viene meno la qualità di amministratore del socio, ma non si verifica alcuna esclusione del medesimo dalla società.
Tuttavia, gravi inadempienze di natura gestoria di un socio possono influenzare il rapporto sociale. Parimenti, la grave inadempienza che è alla base dello scioglimento del rapporto sociale può essere il fondamento della revoca per giusta causa dello stesso socio amministratore, dato che la funzione gestoria in una società di persone può spettare solo ad un socio. Ciò comporta che il medesimo soggetto può essere interessato da un’azione di revoca e/o da un’azione di responsabilità, quale amministratore e, nel contempo, da un’esclusione come socio per violazione di norme di legge o dell’atto costitutivo.
2.1.2 L’impossibilità di proseguire l’attività sociale
La giurisprudenza di merito ha individuato altre fattispecie in cui il comportamento di un socio provoca lo scioglimento della società per impossibilità di proseguirne l’attività.
La prima ipotesi consiste nel rifiuto di conformarsi alle decisioni della maggioranza circa la modifica dell’atto costitutivo; ciò costituisce non un inadempimento di gravità tale da legittimare l’esclusione del socio ai sensi dell’art. 2286 c.c., ma una causa di scioglimento della società dovuto to ad un contrasto insanabile tra soci.
Il dissidio insanabile tra i soci costituisce un contrasto sistematico e radicale, su tutte o quasi le decisioni inerenti la società. Esso porta tendenzialmente allo scioglimento della società, tuttavia può comportare anche la sola esclusione del socio o dei soci dissenzienti, consentendo così alla società di proseguire l’attività senza ostacoli e perseguire l’oggetto sociale, in due casi:
- se il dissenso è manifestato da un solo socio;
- se vi è contrasto tra i due soli soci, dei quali quello intenzionato al proseguimento dell’attività si rivolge al giudice per ottenere un provvedimento di esclusione giudiziale per gravi inadempienze dell’altro socio, e, una volta ottenutolo, ripristinare la pluralità dei soci entro sei mesi; in questo caso, prevale la pronuncia di esclusione su quella di scioglimento.
Se invece in una società con più soci il dissidio è fra tutti i partecipanti, o in una società con due soli soci il contrasto, indipendentemente dall’imputabilità dello stesso all’uno od all’altro, impedisce la prosecuzione dell’attività comune, la società inevitabilmente si scioglierà.
2.1.3 L’esclusione del socio di S.n.c.
Alle società in nome collettivo si applicano per l’esclusione tutte le disposizioni dettate per la società semplice, ai sensi degli artt. 2286 c.c. e ss.
Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto legittima l’esclusione del socio di S.n.c. che si disinteressava totalmente dell’attività aziendale, così come quella del socio amministratore che si opponeva ad altro socio amministratore, in una S.n.c. ad amministrazione disgiuntiva.
Vi è poi un’ipotesi di esclusione tipica della S.n.c., non presente nelle altre società di persone: il divieto di concorrenza di cui all’art. 2301 c.c., che vieta ai soci di Snc di esercitare, per conto proprio od altrui, senza il consenso degli altri soci, un’attività concorrente con quella della società, come pure di partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra società concorrente.
La ratio dell’esclusione risiede nella particolare pericolosità della concorrenza del socio il quale può avvantaggiarsi delle conoscenze tecniche acquisite e delle nozioni maturate all’interno della società; per questo motivo il legislatore ha previsto, oltre al diritto al risarcimento del danno a favore della società ai sensi dell’art. 2301 c.c., il diritto della compagine ad escludere il socio ai sensi dell’art. 2286 c.c.
In proposito, la giurisprudenza ha precisato che viola il divieto di concorrenza anche il socio che partecipa come amministratore unico in una S.r.l., se di questa detiene l’esclusiva titolarità del capitale. Viceversa, è stata ritenuta nulla la deliberazione di esclusione di socio di S.n.c. per avere costituito una S.r.l. con più soci e oggetto sociale simile alla società di persone già esistente.
2.1.4 L’esclusione del socio di S.a.s.
Anche alle S.a.s. si applicano le cause di esclusione del socio previste dalla disciplina per la società semplice, con la peculiarità costituita dalla presenza di soci accomandanti e accomandatari.
La giurisprudenza ha precisato che all’esclusione del socio accomandatario di società in accomandita semplice sono applicabili gli artt. 2286 e 2287 c.c. che disciplinano le cause ed il procedimento di esclusione dei soci di società di persone, in virtù del rinvio contenuto negli artt. 2315 e 2293 c.c., non ravvisando incompatibilità né con l’art. 2318 c.c. – che attribuisce solo agli accomandatari la facoltà di diventare amministratori della società, ma non esclude la nomina di terzi – né con il regime giuridico della nomina e della revoca degli amministratori previsto dall’art. 2319 c.c., in quanto non incidente sul perdurare del rapporto sociale.
Tuttavia, mentre l’esclusione dalle società di persone richiede in generale una deliberazione a maggioranza dei soci, il procedimento di revoca tipico delle S.a.s. – dal quale non può prescindersi presupponendo ogni estromissione dell’amministratore la sua contestuale sostituzione – deve avvenire, ai sensi dell’art. 2319 c.c., con il consenso della maggioranza tanto dei soci accomandanti, quanto di quella dei rimanenti soci accomandatari.
Ciò provoca difficoltà qualora nella società vi sia un solo socio accomandatario che svolga funzioni di amministratore; quest’ultimo infatti non può partecipare alla decisione sulla propria esclusione, tanto più che anche ove fosse consenziente, non potrebbe comunque prestare il proprio voto, ai sensi dell’art. 2319 primo comma c.c..
In proposito, la giurisprudenza prevalente ritiene applicabile non la procedura a maggioranza prevista all’art. 2287 c.c. primo comma, bensì quella dell’esclusione giudiziale applicabile alle società composte da due soli soci, prevista dal comma terzo dello stesso articolo.
Una fattispecie di esclusione è tipicamente prevista per le S.a.s. dall’art. 2320 c.c., il quale che i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione né trattare o concludere affari in nome della società se non in forza di procura speciale per singoli affari. L’accomandante che contravviene a tale divieto, oltre ad assumere responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali, può essere escluso dalla società ai sensi dell’art. 2286 c.c., trattandosi di una grave inadempienza nei confronti delle prescrizioni della legge e dell’atto costitutivo, che prevedono due categorie contrapposte di soci con compiti e responsabilità distinte.
Viola la norma il socio accomandante che interferisce nella gestione a prescindere sia dal grado di invasività dell’ingerenza, quanto dagli effetti che questa produce; per questo motivo la giurisprudenza ha ritenuto che viola tale divieto anche il socio accomandante che agisce in forza di una procura speciale generale ed incondizionata, dato che il ruolo dei soci accomandanti, stante la loro limitata responsabilità, deve comunque essere marginale rispetto alla figura dell’accomandatario ed, in ogni caso, circoscritto a singole operazioni.
2.1.5 L’esclusione e la revoca del socio amministratore
La giurisprudenza prevalente ritiene che, qualora il socio amministratore si appropri di utili della società, lo stesso compia un atto in contrasto non solo con gli obblighi derivanti dal mandato a lui conferito ma anche con lo scopo principale di dividere i benefici economici dell’attività comune fra i soci; tale l’inadempienza è riconducibile alla qualità di socio prima che a quella di amministratore, e legittimando una delibera di esclusione.
Si ritiene quindi che, in tali ipotesi, il socio amministratore può essere contemporaneamente revocato per la violazione dei doveri derivanti dal suo mandato ed escluso a causa del venir meno dell’intuitus personae e dell’attentato all’affectio societatis.
Deve in ogni caso trattarsi di condotte integranti gravi violazioni degli obblighi di lealtà del socio oltre che di quelli gravanti sull’amministratore. Infatti, se è vero che nella S.a.s. l’amministratore non può essere che un socio accomandatario – per cui la sua esclusione dalla società, non diversamente da qualsiasi altra causa di scioglimento del rapporto sociale a lui facente capo, automaticamente comporta anche la cessazione della carica di amministratore – non è vero il reciproco, ben potendovi essere anche accomandatari che amministratori non siano.
L’esclusione del socio e la revoca dell’amministratore costituiscono quindi situazioni distinte, legate a presupposti non necessariamente coincidenti. L’eventuale revoca dalla carica di amministratore non incide necessariamente sul perdurare del rapporto sociale.
2.1.6 La società composta da due soli soci
La società composta da due soli soci è una realtà piuttosto diffusa: basti pensare alle numerose società a carattere familiare o alle piccole società di persone di dimensioni ridotte. Ciò ha indotto il legislatore a disciplinare l’esclusione del socio in modo esplicito con il terzo comma dell’art. 2287 c. c., senza ricorrere a soluzioni interpretative o analogiche, anche se non si tratta di un tipo societario a sé stante.
In queste società i due soci possono trovarsi in posizioni contrapposte senza che vi sia la possibilità di gestire la crisi attraverso il sistema maggioritario. Dovendo la maggioranza essere raggiunta per capi, in questa società non sarebbe mai possibile raggiungere il quorum richiesto dalla legge per procedere all’esclusione. Di conseguenza, in questo caso la volontà di escludere il socio è sottratta alla società e rimessa all’Autorità Giudiziaria.
Il giudice dispone il provvedimento giudiziale di espulsione su richiesta dell’altro socio. La pronuncia di espulsione del giudice deve essere distinta dalla sentenza che decide la validità dell’espulsione in caso di opposizione.
In quest’ultimo caso deve accertarsi la regolarità formale della decisione già presa, analizzando la validità della delibera e verificando l’esistenza delle ragioni dell’esclusione previste dalla legge o dall’atto costitutivo.
La pronuncia giudiziale di esclusione su richiesta dell’altro socio rappresenta invece il risultato di un vero e proprio processo di cognizione, nel corso del quale il giudice dovrà valutare nel merito la sussistenza dei motivi che legittimano la richiesta di pronunciare l’esclusione con sentenza.
La giurisprudenza prevalente nega che la disciplina prevista per l società con due soli soci possa essere applicata analogicamente anche al caso in cui in seno alla società ci siano due gruppi sociali con interessi contrapposti o situazioni in cui esistono più soci ma con due sole manifestazioni di volontà effettive, come ad esempio nel caso di una società composta da due coppie di coniugi che detengono le proprie rispettive quote in comunione di beni. Si ritiene infatti che l’esclusione giudiziale costituisce un’ipotesi speciale non suscettibile di applicazione analogica.
Alle società costituite da più di due soci, pertanto, si applica la disciplina dettata dall’art. 2287, comma 1 e 2, c.c.
2.2 L’esclusione del socio di diritto
L’art. 2288 c.c. prevede l’esclusione di diritto del socio al verificarsi di determinati eventi previsti dalla legge, senza possibilità di opposizione da parte del socio escluso.
Mentre nel caso dell’esclusione volontaria la volontà dei soci decide di escludere un socio dalla società perché ritenuto inadempiente o in quanto si sia venuto a trovare in una delle situazioni previste dall’art. 2286 c.c., nell’esclusione di diritto lo scioglimento del rapporto sociale avviene ex lege, automaticamente e la società può soltanto prendere atto della situazione.
Le cause che provocano l’esclusione di diritto di un socio consistono essenzialmente in un mutamento in senso negativo della personale situazione economica del socio, così grave da poter trascinare con sé l’intera società, ovvero:
- la dichiarazione di fallimento del socio;
- la richiesta di liquidazione della quota del socio operata da un suo creditore particolare.
L’elencazione delle cause di esclusione automatica prevista dall’art. 2288 c.c. è da ritenersi tassativa e come tale non può estendersi a fattispecie ulteriori.
2.2.1 La dichiarazione di fallimento del socio
La prima causa contemplata dall’art. 2288 c.c. è la dichiarazione di fallimento del socio per effetto della quale ne viene decretata l’espulsione, per espressa ed inderogabile disposizione di legge, a partire dal giorno stesso della pubblicazione della relativa sentenza.
L’esclusione si configura come effetto diretto della dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza, per cui un’eventuale deliberazione assembleare che volesse assumere a causa dell’estromissione del socio il dissesto finanziario del medesimo avrebbe un effetto meramente dichiarativo, limitandosi a descrivere una situazione già verificatasi.
L’esclusione del socio per fallimento è la conseguenza della centralità che, nelle società di persone, riveste ciascun socio e della reputazione di cui lo stesso gode nei confronti sia dei soci che dei terzi.
Inoltre, la procedura fallimentare comporta la sostituzione del curatore al fallito nella gestione dei suoi interessi patrimoniali, con la conseguenza di permettere l’ingerenza di un terzo nelle vicende interne e funzionali della società e dunque, la partecipazione di un soggetto diverso rispetto quello con il quale il contratto sociale fu originariamente stipulato, in spregio all’intuitu personae delle società personali.
La legge, tuttavia, non esclude la possibilità che il socio insolvente espulso possa essere riammesso come socio d’opera, conferendo l’esperienza preziosa maturata durante gli anni di lavoro.
Tale causa di esclusione, peraltro, non opera quando il fallimento del socio è dichiarato per estensione rispetto a quello della società cui lo stesso appartiene.
Nel caso in cui sopraggiunga la revoca del fallimento del socio, prima che si sia proceduto alla liquidazione della quota a favore del curatore fallimentare che l’aveva richiesta, la causa di esclusione del socio viene meno con effetto ex tunc. Il socio è infatti considerato responsabile per eventuali debiti sociali sorti nel tempo in cui è stato assoggettato al fallimento poi revocato.
Tenuto conto della tassatività delle cause di esclusione di diritto, non dà luogo ad estromissione del socio l’assoggettamento di questi ad altra procedura concorsuale diversa dal fallimento, come ad esempio il concordato preventivo. Ciò vale anche quando il socio, una volta omologato il concordato, fosse stato privato dei poteri di amministrare la società per la nomina di un liquidatore giudiziario.
Alle società in nome collettivo, ove non presente una regolamentazione statutaria specifica, si applica la disciplina della società semplice e l’art. 2288 c.c., tranne il caso in cui il fallimento del socio sia una conseguenza diretta del dissesto finanziario della società da cui lo stesso deve essere escluso di diritto.
Per quanto riguarda le società in accomandita semplice, la giurisprudenza ritiene che, in virtù del rinvio operato dal combinato disposto degli artt. 2305 e 2293 c.c. ed in assenza di una normativa specifica per l’esclusione per le S.a.s., si applicano a queste ultime le norme generali in tema di società di persone. Anche l’esclusione di diritto dalla società in accomandita semplice, pertanto, si verifica in modo automatico a decorrere dalla data di pronuncia della sentenza di fallimento del socio.
2.2.2 La liquidazione della quota sociale da parte del creditore particolare del socio
La seconda ipotesi di esclusione ipso iure è espressione della tutela accordata dall’art. 2270 c.c. al creditore particolare del socio il quale, nel caso in cui gli altri beni del debitore risultino insufficienti a soddisfare i suoi crediti, può chiedere in ogni tempo la liquidazione della quota di spettanza del medesimo.
L’esclusione automatica del socio è quindi una conseguenza diretta dell’avvenuto soddisfacimento del creditore sul ricavato della liquidazione della quota del debitore.
La causa di esclusione in questione opera solo per le società semplici, in quanto non sottoposte all’obbligo d’iscrizione nel Registro Delle Imprese, mentre è esclusa per la società in accomandita semplice e società in nome collettivo regolari.
Nel caso della S.n.c., la disciplina dell’art. 2288 c.c. deve confrontarsi con l’art. 2305 c.c., specificamente dettato per questo tipo societario, che vieta l’aggressione del creditore personale del socio alla quota di partecipazione finché dura la società; in questo caso il generale interesse al raggiungimento degli scopi sociali, prevale su quello individuale del creditore.
Quanto alla S.a.s., in virtù del rinvio dell’art. 2315 c.c., in mancanza di una normativa specifica, sopperisce la disciplina della S.n.c., con la conseguenza che, anche per questo tipo di società non trova applicazione il secondo comma dell’art. 2288 c.c.
L’esclusione conseguente alla liqui dazione della quota su iniziativa del creditore particolare del socio da espellere si applica anche alle S.n.c. e le S.a.s. irregolari, non iscritte nel registro delle imprese o prorogate tacitamente.
2.3 Il procedimento di esclusione del socio
Il procedimento di esclusione descritto dall’art. 2287 c.c., articolato nella deliberazione e comunicazione della decisione adottata dai soci, trova applicazione soltanto nei casi di esclusione volontaria, previsti all’art. 2286 c.c. Le ipotesi di esclusione ipso iure, infatti, costituiscono eventi in relazione ai quali qualsiasi ulteriore determinazione od adempimento appesantirebbe una contestazione giudiziaria già in atto a carico del socio da escludere (fallimento, esecuzione forzata, ecc.).
Il procedimento di esclusione si compone di due fasi necessarie:
- la formazione della volontà di escludere il socio inadempiente;
- la comunicazione al socio della decisione.
Una terza fase eventuale è quella dell’opposizione del socio espulso, in esito alla quale, qualora l’azione venisse accolta dal tribunale, il socio ha diritto ad essere reintegrato.
Il primo comma dell’art. 2287 c.c. dispone che l’esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci, senza computare nel numero di questi il socio da escludere, in base al principio generale che vieta al socio di esercitare il proprio diritto di voto in situazioni di conflitto d’interessi.
Il principio ispiratore del divieto di voto per il socio in conflitto di interessi con la società, previsto dall’art. 2373 c.c. per le società per azioni, emerge anche nell’art. 2287 c.c., che impone di non considerare il socio da escludere nel computo della maggioranza necessaria per l’esclusione.
La giurisprudenza afferma che l’esclusione di un socio da una società di persone composta da più di due membri deve essere deliberata dalla maggioranza, salva l’eventuale competenza del tribunale sull’eventuale opposizione alla decisione.
La verifica del raggiungimento della maggioranza prescritta ai fini della validità della delibera di esclusione deve essere condotta attribuendo un voto a ciascun socio, a prescindere dall’entità della relativa partecipazione.
2.3.1 La delibera sociale di esclusione
Per l’adozione della delibera di esclusione non sono indicati requisiti particolari. La giurisprudenza prevalente ritiene che si applica in proposito il principio di libertà delle forme; pertanto, nelle società a base personale la delibera di esclusione può essere adottata a maggioranza, senza preventiva convocazione di tutti i soci, ivi compreso quello da espellere.
Il procedimento di esclusione del socio non implica quindi la necessaria adozione del metodo collegiale, poiché è la somma delle volontà determinanti l’esclusione del socio a conferire unità all’atto ed a renderlo riferibile alla società. Non é inoltre obbligatorio che l’interessato partecipi alla discussione, poiché la legge non richiede una sua preventiva audizione.
La formazione della volontà comune nelle società personali è determinata dalla raccolta, anche separata, di un numero di consensi sufficienti a formare l’unanimità o la maggioranza intorno ad una certa proposta. L’unico requisito richiesto dalla giurisprudenza è il rispetto della regola della maggioranza e quello che impone un’efficace comunicazione del provvedimento.
Tuttavia, la mancata previsione normativa dell’organo assembleare nelle società di persone non ne comporta il divieto di costituzione e tanto meno impone che sia preclusa ai soci la possibilità di riunirsi in assemblea per deliberare all’unanimità o a maggioranza.
Non è necessaria una formale convocazione dei soci né tanto meno del socio escludendo, essendo sufficiente che venga documentato il raggiungimento della volontà sociale di volerlo espellere dalla società e che tale volontà sia portata a sua conoscenza unitamente ai motivi, sì da consentirgli una difesa adeguata in sede di opposizione all’esclusione.
Non è infrequente che, in presenza di società con più di due soci, non si raggiunga la maggioranza per procedere all’esclusione di un socio. In questi casi, secondo la giurisprudenza il socio “virtuoso” può utilizzare lo strumento del recesso per giusta causa, ai sensi dell’art. 2285, 2^co., c.c., che permette di sbloccare una situazione paralizzata.
Potrebbe altresì capitare che il recesso venga esercitato dal socio quando sia già iniziato il suo procedimento di esclusione. In tal caso, ad avviso della giurisprudenza si applica il criterio di prevenzione, cioè che si deve ritenere operante la causa verificatasi per prima. Così ad esempio, in presenza di una società di due soci, qualora il socio da escludere abbia esercitato il recesso, occorre accordare prevalenza a quest’ultimo rispetto ad una pronuncia di esclusione, la quale, avendo natura costitutiva, opera solo dal passaggio in giudicato della sentenza.
2.3.2 La comunicazione al socio della sua esclusione
In seguito alla comunicazione dell’esclusione al socio questi ha trenta giorni di tempo per proporre opposizione davanti al tribunale.
La comunicazione non richiede una forma prestabilita; la giurisprudenza si limita ad affermare che la comunicazione deve avvenire in modo tale da rendere edotto il socio circa tutti gli elementi utili all’esercizio del suo diritto di difesa, quali la volontà sociale di espellerlo, gli addebiti a suo carico, le motivazioni e il dies a quo per la proposizione del giudizio di opposizione.
Sono ritenute valide ed efficaci le comunicazioni a mezzo di:
- lettera raccomandata con avviso di ricevimento;
- consegna di una raccomandata a mano al socio che firmi una copia per ricevuta;
- notifica a mezzo ufficiale giudiziario;
- notifica di atto di citazione con la quale la società decide di convenire in giudizio il socio escluso per accertare la legittimità della causa di esclusione.
Non si ritengono invece validamente adempiute le comunicazioni consistenti in un semplice avviso orale o le comunicazioni generalizzate ed indirette, come l’affissione della decisione in bacheca e la produzione della delibera di esclusione del socio in un giudizio pendente fra la società e il socio escluso, che abbia un oggetto diverso dalla controversia da cui è scaturita l’esclusione stessa.
La giurisprudenza prevalente ritiene legittima la delibera di esclusione di un socio di società di persone anche senza convocazione dell’assemblea ed anche senza la preventiva comunicazione al socio, il quale ha il solo diritto di ricevere comunicazione della deliberazione stessa al fine di poter proporre opposizione.
2.4 Il giudizio di opposizione promosso dal socio escluso
L’art. 2287 c.c. comma 2 prevede che entro lo stesso termine di trenta giorni dalla data della comunicazione, decorso il quale l’esclusione acquista efficacia, il socio può proporre opposizione, instaurando un giudizio di cognizione volto a verificare la validità o meno della decisione assunta nei suoi riguardi.
Il termine di trenta giorni indicato dal legislatore ha tuttavia natura dispositiva e può essere ampliato o rinunciato dallo statuto.
Nel caso in cui la delibera di esclusione non abbia i requisiti minimi di validità previsti dalla legge e sia quindi inesistente, l’impugnazione può essere proposta senza alcun limite temporale.
La giurisprudenza prevalente ritiene che il soggetto passivo del giudizio di opposizione è la società, alla quale spetta l’onere di provare la validità dell’esclusione del socio.
Nel corso del giudizio il controllo del tribunale riguarda la correttezza del provvedimento, ovvero la legittimità dell’atto, non il merito. Il giudice adito ha quindi il compito di valutare la sussistenza della causa di esclusione e di verificare che il motivo addotto rientri tra quelli elencati dalla legge o dall’atto costitutivo.
La società non può portare, a sua difesa ed a giustificazione dell’esclusione, motivazioni ulteriori rispetto a quelle inserite nella delibera della maggioranza dei soci.
Il socio può chiedere la sospensione dell’efficacia della delibera di esclusione, qualora ritenga di poter essere danneggiato dagli effetti della decisione assunta contro di lui.
Come per qualsiasi altro provvedimento cautelare, il giudice dovrà valutare la sussistenza dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora.
Qualora venga accolta l’istanza di sospensione, il socio escludendo continua ad esercitare tutte le facoltà che gli spettano fino alla fine del procedimento, compresa quella di recesso il cui esercizio renderebbe inefficace o inesistente la delibera di esclusione stessa a causa del venir meno dell’oggetto del contendere.
La sentenza del giudice dell’opposizione è efficace dal momento del passaggio in giudicato, ma i suoi effetti retroagiscono al momento in cui si sono verificati gli atti illeciti dai quali è scaturita la decisione di deliberare l’esclusione, determinando la definitiva conferma di quest’ultima, in caso di rigetto dell’istanza, oppure il definitivo reintegro del socio, in caso di accoglimento dell’opposizione. Corre però l’obbligo di segnalare come, in tema di contenuto, ossia su ciò che in concreto può essere disposto dal giudice con questa sentenza, non vi sia piena uniformità di vedute.
La dichiarazione di illegittimità della delibera di esclusione provoca il diritto del socio di:
- essere reintegrato nella società, con conseguente ripristino della pienezza dei diritti derivanti dalla posizione del socio anteriormente all’esclusione;
- ottenere il risarcimento dei danni subiti, qualora il socio abbia subito un pregiudizio economico a causa della illegittima.
A differenza di quanto accade per la liquidazione della quota del receduto e per l’instaurazione del giudizio di opposizione, il soggetto passivo cui va rivolta la richiesta di risarcimento non è la società ma la maggioranza dei soci che ha adottato la delibera, per evitare la contrapposizione interna alla società, tra soggetto debitore e soggetto creditore, nel caso in cui l’opposizione venisse accolta e il socio si trovasse nuovamente a far parte della compagine, dovendosi attingere in quel caso, per il risarcimento del suo danno, esclusivamente dai conferimenti degli altri.
2.5 La liquidazione della quota del socio escluso
In conseguenza dell’esclusione del socio sorge in capo a questi del diritto di ricevere una quota di liquidazione, cioè una porzione ideale di patrimonio ricavata dal valore iniziale del conferimento, incrementato o ridotto a seconda della situazione economica e finanziaria attuale in cui versa la società al momento dell’esclusione.
L’art. 2289 primo comma c.c. prevede che il socio escluso ha diritto di vedersi attribuita soltanto di una somma di denaro. Il socio non può quindi pretendere la divisione di beni aziendali (macchinari, impianti, attrezzature ed altri beni necessari all’attività comune), ma solo un importo di pari valore, nel quale andrà incluso anche l’avviamento.
La somma di denaro di spettanza del socio deve essere valutata in base al valore patrimoniale della società al momento dello scioglimento, ovvero in relazione al valore del patrimonio netto attualizzato al giorno di efficacia dell’esclusione (art. 2289 secondo comma c.c.).
Tale valore non è pari a quello risultante da bilancio d’esercizio, non essendo i criteri prudenziali di redazione di quest’ultimo compatibili con le esigenze della valutazione della quota di spettanza dell’uscente. L’effettiva consistenza del patrimonio sociale, indicato in forma contabile, deve essere il risultato dell’insieme di valori rilevati analiticamente e rivalutati dai soci amministratori in concorso od anche in contraddizione con il socio uscente.
Il socio uscente ha diritto di veder integrato il valore della propria quota con l’ulteriore entità economica rappresentata dall’avviamento, ossia con quel maggior utile prodotto dalla società nel suo complesso di beni e servizi, rispetto a quello che sarebbe stato possibile conseguire attraverso l’utilizzo isolato di ciascuno di essi. Ciò discende direttamente dall’art. 2289 c.c., secondo cui la liquidazione deve essere fatta sulla base della situazione patrimoniale attuale; in caso contrario vi sarebbe un ingiusto vantaggio per coloro che, permanendo nella compagine, continuerebbero ad avvantaggiarsi dell’utilità di tal maggior valore costituito con il contributo dell’escluso.
Il valore di avviamento non deve essere individuato in base alle risultanze del bilancio bensì attraverso una sorta di rendiconto straordinario, il quale deve valutare la redditività futura dell’azienda sulla base di una visione prospettica fondata su elementi presenti o passati che comprovino la possibilità di maggiori utili, rispetto alla mera sommatoria algebrica degli elementi attivi e passivi.
Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2289 c.c., il pagamento della quota al socio deve avvenire entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto sociale; si tratta di un limite massimo che può essere ridotto per volontà concorde dei soci, e può essere ampliato esclusiva- mente per concessione del socio espulso.
Secondo la giurisprudenza prevalente, qualora il socio abbia messo a disposizione della società mezzi e strumenti per il conseguimento dell’oggetto sociale, i beni conferiti in godimento possono essere restituiti solo con la volontà di tutti i soci, posto che, come regola generale, il socio ha unicamente diritto a vedersi liquidata la somma corrispondente all’utilità ricavata dalla società dalla titolarità del mero diritto di godimento.
La liquidazione della quota del socio escluso deve essere fatta prendendo in considerazione anche le operazioni in corso, ovvero l’insieme degli affari già iniziati mentre il socio era partecipe alla società che, non essendosi ancora integralmente tradotti in variazioni patrimoniali, continuano a produrre effetti giuridici ed economici anche dopo l’esclusione.
Secondo la giurisprudenza, le operazioni in corso comprendono ogni situazione che, pur non in atto al momento dello scioglimento del vincolo sociale, debba considerarsi la conseguenza necessaria ed inevitabile di atti o rapporti giuridici preesistenti, anche se la definizione di questi ultimi sia intervenuta in epoca successiva a quella in cui deve procedersi alla liquidazione della quota.
La liquidazione delle operazioni in corso costituisce una determinazione separata – in parte concomitante ed in parte successiva alla liquidazione della quota di spettanza del socio – e si articola in due fasi:
- l’individuazione della somma di denaro rappresentante la quota;
- la valutazione degli utili o delle perdite che derivano dagli affari già avviati ma non condotti a termine.
Per definire il più velocemente possibile le pendenze con il socio escluso, è possibile una liquidazione provvisoria, alla quale seguiranno eventuali conguagli a completamento avvenuto delle operazioni.
L’unico soggetto legittimato a liquidare la quota al socio uscente è la società: l’obbligo di liquidare la quota del socio receduto fa quindi capo direttamente alla società, e non ai singoli soci restanti, dato che la stessa società è soggetto di diritto ed è titolare di un autonomo patrimonio.
Lo scioglimento del rapporto sociale e la conseguente liquidazione della quota comporta l’accrescimento proporzionale delle quote degli altri soci.
Ai sensi dell’art. 2290 c.c., l’ex socio resta responsabile verso i soci e verso i terzi per tutte le obbligazioni sorte fino al momento di efficacia dello scioglimento del rapporto societario. Tale responsabilità cessa a partire dal compimento delle nuove operazioni per le quali il socio non è minimamente responsabile.
Ai sensi dell’art. 2290 c.c., l’ex socio resta responsabile verso i soci e verso i terzi per tutte le obbligazioni sorte fino al momento di efficacia dello scioglimento del rapporto societario. Tale responsabilità cessa a partire dal compimento delle nuove operazioni per le quali il socio non è minimamente responsabile.
La cessazione del rapporto societario per i soci opera a tutti gli effetti a partire dal trentesimo giorno dalla comunicazione a socio escluso, ma non è opponibile ai terzi finché non ne sia stata data adeguata pubblicità, in mancanza della quale l’espulso risponde delle obbligazioni contratte dalla società anche successivamente al momento di efficacia dello scioglimento, salva la possibilità di rivalersi in seguito sui soci.
I mezzi di pubblicità ritenuti idonei sono quelli previsti dall’art. 2300 c.c., che prevede l’iscrizione delle modificazioni dell’atto costitutivo entro trenta giorni dall’avvenimento nel Registro Delle Imprese. Per le società semplici è sufficiente la compilazione della modulistica presente nell’ufficio delle imprese, mentre nel caso delle S.n.c. e delle S.a.s. regolari per procedere all’iscrizione è necessaria una modifica dei patti sociali, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, fermo restando che, a prescindere dalla data di iscrizione nel registro delle imprese, lo scioglimento acquista efficacia solo decorsi i trenta giorni dalla comunicazione al socio previsti dalla legge.
3. L’esclusione del socio di S.r.l.
Un socio di S.r.l. può essere escluso per due cause:
- per mancato conferimento ( 2466 c.c.)
- per giusta causa (art. 2473 bis c.).
L’art. 2466 c.c. prevede l’esclusione del socio in caso di mancata esecuzione dei conferimenti; tale ipotesi si riferisce a qualsiasi natura di conferimento, ovvero in denaro, in natura, di credito o altri beni.
Prima di procedere all’esclusione per tale causa, tuttavia, gli amministratori della società devono provvedere con diffida ad adempiere al conferimento, entro il termine di 30 giorni.
Solo decorso inutilmente tale termine e valutata negativamente l’ipotesi di procedere ad azione esecutiva, gli amministratori della società possono vendere la quota del socio moroso agli altri soci, in misura proporzionale alle loro partecipazioni.
Ai sensi dell’art. 2466 c.c., la vendita è effettuata a rischio e pericolo del socio, per il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato. In mancanza di offerte per l’acquisto, se lo statuto lo consente, la quota è venduta all’incanto. Il socio moroso, pertanto, si assumer il rischio che non ci siano compratori della sua quota.
Gli altri soci partecipano alla vendita in misura proporzionale alla quota posseduta, Qualora non vi siano offerte di acquisto la quota è venduta all’incanto e la società ha l’obbligo di escludere il socio.
L’art. 2466 c.c., infatti prevede che se la vendita non può aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori escludono il socio, trattenendo le somme riscosse e riducendo il capitale in misura corrispondente.
L’art. 2473 bis c.c. prevede inoltre una seconda causa di esclusione da S.r.l., consentendo alla società di contemplare nello statuto ulteriori motivi di esclusione per giusta causa Tali motivi devono essere specifici, non essendo ammessa né la previsione di circostanze generiche e discrezionali, né la possibilità di rimettere la specificazione della causa alla successiva fase dell’adozione della delibera di esclusione.
Secondo la giurisprudenza, integrano giusta causa di esclusione la violazione di obblighi contrattuali, di doveri di fedeltà, di lealtà, diligenza o correttezza tanto gravi da pregiudicare irreparabilmente il rapporto fiduciario esistente tra i soci, non consentendo quindi la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto sociale.
Ad esempio, sono state ritenute legittime le cause di esclusione del socio di S.r.l., previste dallo statuto, connesse ad accadimenti legati alla persona del socio, come l’interdizione, inabilitazione o fallimento, o alla perdita di determinati requisiti soggettivi (quali ad esempio specifici requisiti di onorabilità, professionalità o indipendenza), o la violazione del divieto di concorrenza.
E’ altresì ritenuta legittima l’esclusione di un socio inattivo o irreperibile, ovvero del socio che non partecipa in alcun modo all’attività sociale e in particolare all’attività assembleare.
Il legislatore non ha disciplinato il procedimento di esclusione, non indicando quale sia l’organo competente per la deliberazione né in quale modo la decisione debba essere comunicata all’interessato. Tali elementi possono essere disciplinati dall’atto costitutivo.
Qualora lo statuto non preveda alcunché in proposito, si ritiene che la competenza sia rimessa all’assemblea dei soci; la deliberazione di esclusione non deve, tuttavia, essere necessariamente assunta in forma assembleare, ben potendo avvenire, ai sensi del comma 3 dell’art. 2479 c.c., mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto.
La delibera viene presa con il voto della maggioranza dei soci, secondo le regole sulle società di persone o con maggioranze diverse stabilite nello statuto. Si applica anche alla S.r.l. la norma di cui all’art. 2287 c.c., dettata per le società di persone, ai sensi della quale nel computo della maggioranza per la delibera di esclusione non si calcola il socio da escludere. La delibera di esclusione ha effetto decorsi trenta giorni dalla data della comunicazione al socio escluso.
Il socio escluso può impugnare la delibera assembleare di esclusione, nel termine di trenta giorni dalla data della comunicazione della delibera stessa.
Il socio escluso ha diritto al rimborso della sua quota di partecipazione. Con riferimento alle modalità di rimborso della quota del socio escluso, l’art. 2473 bis c.c. rinvia alla disciplina del recesso, vietando tuttavia che il rimborso al socio escluso possa essere operato mediante riduzione del capitale sociale.
Conseguentemente, le quote del socio receduto vengono distribuite tra i soci proporzionalmente a ciascuna partecipazione, per non alterare i diritti amministrativi e patrimoniali spettanti a ciascun socio.
Con l’accordo di tutti i soci, la partecipazione del socio escluso potrà essere acquistata anche da parte di un soggetto estraneo, il quale entrerà come nuovo socio nella compagine sociale.
In difetto di riserve disponibili o di soci e/o di terzi disponibili ad acquistare la quota del socio escluso, è invitabile lo scioglimento della società.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in Diritto Societario
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