La concorrenza sleale tra imprese: gli atti di concorrenza sleale e i rimedi
La disciplina sulla concorrenza sleale è finalizzata a realizzare gli interessi delle imprese, ovvero a far sì che prevalga l’impresa più efficiente sul mercato, e non quella che si avvale di strumenti scorretti per raggiungere questo fine. L’art. 2598 c.c. vieta la realizzazione di condotte di concorrenza sleale che consistono in: a) atti di confusione con i prodotti o servizi di altro concorrente; b) atti denigratori o di appropriazione di pregi nei confronti di prodotti o servizi di altro concorrente; c) altri atti non conformi alla correttezza professionale e idonei a danneggiare un concorrente, quali in particolare il mendacio concorrenziale e la pubblicità ingannevole, lo storno di dipendenti, la concorrenza di ex dipendenti e collaboratori, la sottrazione di segreti aziendali e informazioni riservate, ribassi di prezzo e vendite sottocosto (predatory pricing), il boicottaggio, la violazione di esclusiva, la concorrenza parassitaria, la violazione di norme pubblicistiche. I rimedi nei confronti degli atti di concorrenza sleale consistono nell’inibitoria, nell’eliminazione degli atti di concorrenza sleale e nel risarcimento del danno.
1. La concorrenza sleale tra imprese: principi generali
Come è noto, nel nostro ordinamento vige il principio generale della libera concorrenza tra le imprese sul mercato, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. La libertà di iniziativa economica comporta che sul mercato beni o servizi fra loro identici o simili siano offerti da una pluralità di imprenditori, i quali sono animati dalla volontà di realizzare il maggior profitto possibile. A tale scopo, ogni imprenditore è libero di attuare le strategie che ritenga più efficaci, non soltanto per richiamare la clientela, ma anche per sottrarla ai propri concorrenti.
Lo spazio di manovra di cui godono gli imprenditori sul mercato non è però senza limiti. L’ordinamento prevede infatti delle norme finalizzate ad assicurare la correttezza della concorrenza tra le imprese sul mercato, e dunque a reprimere gli atti di concorrenza sleale.
La concorrenza si deve infatti svolgere, nell’interesse generale, in modo corretto e leale per impedire che vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del pubblico, che decreta il successo di un’impresa piuttosto che di un’altra. Ciò nella convinzione che il gioco della concorrenza può contribuire ad assicurare il benessere economico generale a condizione che a vincere la gara sia l’imprenditore realmente più capace: cosa che a sua volta è possibile esclusivamente se il pubblico dei potenziali destinatari dei beni o servizi – clienti professionali o consumatori – è in grado di dirigere la propria preferenza verso i prodotti migliori per prezzo e qualità.
La disciplina sulla concorrenza sleale non è dunque finalizzata alla tutela dei consumatori, bensì a realizzare gli interessi delle imprese, ovvero a far sì che prevalga l’impresa più efficiente sul mercato, e non quella che si avvale di strumenti scorretti per raggiungere questo fine.
La principale norma del nostro ordinamento che disciplina la concorrenza sleale è l’art. 2598 c.c. Esso vieta la realizzazione di condotte di concorrenza sleale che consistono in:
- atti di confusione con i prodotti o servizi di altro concorrente;
- atti denigratori o di appropriazione di pregi nei confronti di prodotti o servizi di altro concorrente;
- altri atti non conformi alla correttezza professionale e idonei a danneggiare un concorrente.
Le prime due fattispecie di concorrenza sleale previste dall’art. 2598 c.c. (le condotte di concorrenza sleale per confusione e quelle di denigrazione o vanteria) sono nominate, in quanto descritte analiticamente; la terza fattispecie è invece innominata, in quanto riguarda una pluralità indeterminata di pratiche commerciali non conformi ai principi di correttezza professionale e idonee a danneggiare i competitors.
I presupposti generali di applicabilità della disciplina sulla concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. sono:
- la qualità di imprenditore del soggetto agente e del soggetto che “subisce” la concorrenza sleale (presupposto soggettivo)
- la sussistenza di un rapporto di concorrenza (presupposto oggettivo).
2. I presupposti della concorrenza sleale
2.1. La qualità di imprenditore
Presupposto soggettivo della concorrenza sleale è il rapporto di concorrenzialità tra il soggetto agente (soggetto attivo) e il soggetto che subisce la concorrenza sleale (soggetto passivo). Soggetto attivo e passivo dell’atto di concorrenza sleale devono essere necessariamente imprenditori, ovvero soggetti che organizzano un complesso di beni per l’esercizio dell’impresa, ai sensi dell’art. 2555 c.c., e in quanto tali in grado di trovarsi, appunto, in concorrenza tra loro.
In questo senso, la giurisprudenza prevalente non riconosce al socio di una società in nome collettivo la legittimazione di agire in giudizio in proprio per l’accertamento e l’inibitoria dell’attività di concorrenza sleale posta in essere in danno della società da altro socio receduto.
Non è necessario che i soggetti svolgano abitualmente l’attività d’impresa, essendo sufficiente anche l’esercizio occasionale.
La giurisprudenza adotta peraltro una interpretazione estensiva del concetto di imprenditore, ritenendo applicabile la disciplina della concorrenza sleale anche a imprenditori pubblici, come imprese pubbliche, enti pubblici economici e non economici che esercitano attività imprenditoriale, enti pubblici territoriali, enti fieristici e concessionari di pubblici esercizi.
Un imprenditore diventa tale già quando inizia ad organizzare l’attività di impresa, e non smette di esserlo sino alla definitiva cessazione dell’attività, successiva alla chiusura delle operazioni di liquidazione. Pertanto, già in fase di organizzazione e in sede di liquidazione dell’impresa trova applicazione il divieto di concorrenza sleale. Il divieto di concorrenza sleale trova altresì applicazione anche a seguito di fallimento dell’impresa, qualora il curatore fallimentare eserciti in via provvisoria l’attività d’impresa.
La disciplina della concorrenza sleale può essere estesa anche a soggetti terzi, laddove, pur non in presenza di atti di concorrenza sleale compiuti da un imprenditore, tali atti siano a questi riconducibili in quanto posti in essere nel suo interesse, nell’ambito di un rapporto di lavoro, di collaborazione o altro.
Sono quindi riconducibili all’imprenditore gli atti di concorrenza sleale posti in essere dai suoi dipendenti nell’esercizio delle proprie mansioni, i quali rispondono in solido con l’imprenditore stesso, indipendentemente dal fatto che il comportamento del dipendente abbia ecceduto i limiti delle sue mansioni stesse o trasgredendo le istruzioni del datore di lavoro.
Per quanto riguarda gli atti sleali compiuti dagli ausiliari o collaboratori autonomi dell’imprenditore, la giurisprudenza prevalente ritiene che, affinché si configuri una responsabilità in capo all’impresa, è necessario che tali soggetti siano in una relazione con quest’ultima tale da qualificare la condotta come volta a procurarle un vantaggio, ai danni di un altro imprenditore, come nel caso dell’amministratore della società.
Per lo stesso principio, è stata affermata la responsabilità nell’ambito del gruppo di imprese;
- della capogruppo (holding) a titolo di concorrenza sleale per atti compiuti dalle società controllate, in quanto titolare di un interesse all’attività economica delle società appartenenti al gruppo che la porta a condividerne le operazioni economiche;
- della società consorella che, pur non detenendo quote nel capitale sociale della società che ha commesso l’illecito, eserciti un’influenza determinate su di essa.
Secondo la giurisprudenza prevalente la disciplina di cui all’art. 2598 c.c. non si applica, invece, ai professionisti, mancando tra gli stessi un rapporto di concorrenzialità (Cass. n. 560/2005). I professionisti possono peraltro invocare la norma di cui all’art. 2043 c.c., ricorrendone i presupposti.
2.2. La sussistenza di un rapporto di concorrenza
Il secondo presupposto per la realizzazione della fattispecie della concorrenza sleale è costituito dalla esistenza di un rapporto di concorrenza tra i soggetti coinvolti. Gli imprenditori devono infatti offrire nello stesso ambito di mercato beni o sevizi rivolti alla stessa clientela o a soddisfare bisogni identici o simili.
È necessario, in altri termini, che gli imprenditori condividano la stessa clientela finale, effettiva o anche semplicemente potenziale, valutando, sulla base delle circostanze concrete, se l’attività esercitata, considerata nella sua dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale, geografico e merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti o di prodotti affini.
La sussistenza di un rapporto di concorrenza dipende, quindi, da un triplice ordine di ragioni:
- l’ambito territoriale, cioè l’area ove l’impresa ha concrete possibilità di espandersi (c.d. mercato di sblocco); a tal proposito, deve essere valutato sia il mercato attuale che quello potenziale: con la conseguenza che un rapporto concorrenziale fra due imprese è ritenuto esistente anche quando, pur operando esse in ambiti territoriali diversi, vi sia la concreta possibilità per l’una di accedere al mercato in cui opera l’altra (c.d. concorrenza potenziale territoriale);
- il profilo merceologico, in base alla possibilità che l’oggetto dell’impresa di una delle parti possa rappresentare una possibile futura evoluzione dell’attività dell’altra;
- l’aspetto temporale, in relazione a soggetti che non abbiano ancora avviato ovvero abbiano sospeso in modo non definitivo l’attività ovvero quando sia stata avviata la sola fase organizzativa.
In linea con tali principi, la giurisprudenza ritiene rilevante anche la concorrenza solo potenziale tra imprenditori, ovvero l situazione in cui, pur mancando un rapporto di concorrenza attuale fra i due soggetti interessati, appaia comunque probabile una prossima interferenza fra i mercati in cui gli stessi operano. Ad es., qualora Tizio, produttore di molle, diffonda notizie false e denigratorie sulla qualità dei materassi di Caio, si rende responsabile di concorrenza sleale anche se non vi è coincidenza dei beni fabbricati né questi mirano a soddisfare esigenze identiche o anche soltanto simili fra loro, tenuto conto della possibilità che Tizio possa decidere di fabbricare egli stesso direttamente anche il prodotto finito.
La giurisprudenza prevalente ritiene inoltre che sia configurabile un rapporto di concorrenza anche nel caso di imprenditori operanti a livelli economici diversi della catena produttiva – come ad es. nel caso rapporto tra il produttore di un bene ed il commerciante dello stesso bene o di un bene analogo -purché l’attività degli stessi incida sulla medesima cerchia di consumatori finali, i quali determinano il successo o meno di una determinata attività.
3. La concorrenza sleale per confusione
L’art. 2598 n. 1 c.c. dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
- usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri; oppure
- imita servilmente i prodotti di un concorrente; oppure
- compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente.
Affinché gli atti in questione possano effettivamente configurare una concorrenza sleale è necessario che si tratti di atti idonei a produrre confusione con i prodotti o i servizi di un competitor; essi devono essere quindi suscettibili di incidere sulle scelte dei consumatori e tali da indurli ad imputare determinati prodotti o una data attività ad un imprenditore diverso da quello cui effettivamente appartengono.
L’accertamento delle confondibilità deve essere condotto avendo riguardo all’impressione che, presumibilmente, la somiglianza dei segni o dell’aspetto esteriore dei prodotti può suscitare nel consumatore medio, dotato di ordinaria diligenza e attenzione a cui sono normalmente destinati i prodotti. Tale accertamento avviene in via sintetica e non in via analitica, nel senso che si riferisce all’impressione d’insieme suscitata nel consumatore dal segno distintivo.
A tal fine non è necessario che la confusione in capo ai consumatori sia realmente avvenuta, in quanto costituiscono condotte punibili ai sensi dell’art. 2598 n. 1 c.c. tutte quelle che siano anche potenzialmente in grado di generare confusione.
La prima condotta di concorrenza sleale prevista dalla norma in oggetto è costituita dall’uso di nomi o segni distintivi usati legittimamente da altri e dall’ imitazione servile di prodotti di un concorrente. Per nomi o segni distintivi deve intendersi qualsiasi entità capace di caratterizzare un prodotto e di distinguerlo dagli altri analoghi di diversa provenienza, presenti sul mercato: dunque sia i segni tipici, come il marchio registrato, la ditta e l’insegna – tutelati già dall’azione di contraffazione – che quelli atipici, come marchi di fatto, ditte irregolari, sigle, slogan pubblicitari, nomi di dominio, etichette.
Tuttavia, non tutti i segni che caratterizzano i prodotti o i servizi di un’impresa sono idonei a generare un’effettiva confusione con quelli di un’altra concorrente. Affinché ciò accada, è necessario che i segni imitati siano:
- nuovi, in quanto immessi nel mercato prima degli altri;
- dotati di capacità distintiva, cioè concretamente idonei a distinguere i prodotti o i servizi dell’impresa da quelli (simili) di un’altra; non vi è capacità distintiva, ad es., se il segno consiste in una denominazione generica o indicazione descrittiva del prodotto;
- noti, cioè concretamente percepiti dal pubblico cui il prodotto/servizio è destinato come riconducibili ad una specifica impresa; tale requisito si acquista con l’uso continuativo e ininterrotto del segno sul mercato.
La seconda fattispecie di condotte di concorrenza sleale per confusione concerne l’imitazione servile dei prodotti di un concorrente, ovvero la riproduzione della forma esteriore del prodotto di un concorrente, tale da ingenerare confusione.
Per costituire un atto di concorrenza sleale, l’imitazione deve riguardare forme esteriori che, per la loro originalità e novità, costituiscono l’individualità di un prodotto e ne denotano la provenienza di fronte alla specifica clientela cui esso è destinato. Non rilevano invece quali imitazioni servili le ipotesi in cui vengano imitate forme prive di originalità, cioè forme comuni o standardizzate, o che siano indispensabili al funzionamento del prodotto, ovvero rispondano ad esigenze di tipo tecnico.
Quando l’imitazione servile riguarda le confezioni dei prodotti (il packaging), si parla di look-alike. Questo fenomeno identifica quei comportamenti in cui nonostante siano apposti marchi diversi, si adottano confezioni simili, per forma, colore, foggia e/o grafica, tali da creare confusione sul mercato o, comunque, tali da diluire indebitamente la capacità distintiva di un packaging utilizzato da un’impresa.
Rientrano nella categoria dell’imitazione servile anche le altre fattispecie atipiche, ovvero i comportamenti che, pur non riguardando l’imitazione di segni distintivi o della forma esteriore del prodotto, sono comunque idonei a ingenerare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente, come cataloghi, listini strutturati in modo tale da attirare l’attenzione del cliente utilizzando tecniche subdole e ingannevoli, l’allestimento di punti vendita (Cass. 2018/1985). Altra ipotesi rientrante nella disciplina della concorrenza sleale sotto il profilo dell’imitazione servile è stata individuata nell’utilizzazione di strumenti pubblicitari copiati in maniera pedissequa da quelli di un concorrente.
4. La concorrenza sleale per denigrazione e vanteria
L’art. 2598 n. 2 c.c. dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
- diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito; oppure
- si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente.
E’ responsabile di concorrenza sleale chi diffonde notizie o apprezzamenti idonei a determinare il discredito di concorrenti, cioè la perdita o la diminuzione della reputazione e della fiducia di cui l’impresa concorrente gode sul mercato.
Non è necessario che tale diffusione si rivolga ad un ampio numero di persone, essendo sufficiente una diffusione di tipo qualitativo, rivolta anche ad un solo soggetto che riveste un determinato peso sul mercato (si pensi ad es. ad un cliente particolarmente importante).
Secondo l’orientamento della giurisprudenza, le notizie o gli apprezzamenti screditanti devono essere falsi: non sono illeciti se veritieri, purché essi siano esposti in modo obiettivo e supportati da riscontri “scientifici”.
Le fattispecie di denigrazione più ricorrenti sono:
- la comparazione con i prodotti o i servizi di un’altra impresa (ad es. quando vengono utilizzate espressioni come “il mio prodotto è migliore del suo” o “il suo prodotto è peggiore del mio”); la pubblicità comparativa illecita, cioè ingannevole, è vietata e sanzionata anche ai sensi del lgs. n. 145/2007;
- la c.d. pubblicità iperbolica, cioè la definizione del proprio prodotto come il solo e unico ad avere determinate caratteristiche o qualità; l’auto attribuzione di pregi provoca infatti nel pubblico l’idea che gli stessi non siano presenti nei prodotti dei concorrenti quindi, indirettamente, getta discredito su questi. La magnificazione del proprio prodotto è tuttavia considerata lecita qualora sia talmente esagerata da non essere credibile dai destinatari del messaggio, anche se denigra implicitamente i prodotti altrui;
- la diffusione di notizie volte a gettare discredito sulla solidità commerciale di un concorrente (ad es., sbandierando le sue difficoltà finanziare oppure la sua non adeguata esperienza o puntualità), anche nel caso in cui le notizie divulgate siano vere, purché la divulgazione venga effettuata in maniera tendenziosa e scorretta.
Rientrano tra le condotte denigratorie anche le diffide volte ad assumere determinati comportamenti con il pretesto che ciò sia dovuto per interrompere la lesione dei propri diritti, senza che il diffidante, in realtà, ne sia titolare, o le diffide finalizzate a diffondere discredito tra il pubblico. Integra inoltre la condotta sleale per denigrazione la diffusione di notizie tendenti a screditare la solidità commerciale di un concorrente, quali, ad es., il versare in difficoltà finanziarie o la mancanza di esperienza e puntualità.
La norma vieta, inoltre, le condotte c.d. di vanteria, ovvero tutti gli atti di appropriazione di pregi di prodotti o attività di un concorrente. I pregi, secondo la giurisprudenza, riguardano le qualità dell’impresa vittima della condotta illecita, o dei suoi prodotti, che vengono apprezzate e preferite dai consumatori. La condotta appropriativa si configurai quando l’impresa comunica al mercato che essa o i propri prodotti presentino i pregi propri dell’impresa concorrente (o dei prodotti di quest’ultima).
Si ha appropriazione di pregi anche quando il prodotto dell’impresa presenta una forma analoga a quella adottata dal prodotto di un’impresa nota, ma aggiungendo una denominazione diversa (ad es. alla forma tipica della boccetta della colonia “Acqua di Parma” viene applicata la denominazione “Acqua di …”).
Rientra in tale fattispecie di concorrenza sleale anche il cd. ambush marketing, o marketing parassita, consistente nell’intrufolarsi tra i vari concorrenti in gara in modo abusivo per sfruttare l’impatto mediatico dell’evento, allo scopo di indirizzare verso il proprio marchio l’attenzione del pubblico senza sostenere gli ingenti costi di sponsorship; in tal modo, i consumatori creano un’associazione indebita tra l’evento mediatico e il marchio dell’imprenditore parassita, sebbene estraneo agli sponsor ufficiali.
Simile all’ambush marketing è la c.d. pubblicità per agganciamento, volta a far ritenere i propri prodotti simili a quelli di un concorrente, magari già molto conosciuto e apprezzato, allo scopo di sfruttarne una risonanza e una rinomanza già consolidate: ciò permette di risparmiare la fatica e i costi di farsi conoscere dai consumatori, sfruttando la fama raggiunta dal titolare del marchio noto. Come avviene nel caso in cui un imprenditore presenti il proprio marchio sui propri prodotti, accanto a quello dell’impresa nota, preceduto dalla parola “tipo” o “simili” (ad es. la mia penna è “tipo Mont Blanc”). In questo caso, non ha importanza che il proprio prodotto sia qualitativamente inferiore o superiore a quello dell’impresa nota: la condotta illecita si configura per il solo fatto di avere sfruttato la rinomanza di quest’ultima.
5. Le altre fattispecie di concorrenza sleale
Ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., compie atti di concorrenza sleale anche chiunque utilizzi, direttamente o indirettamente, ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
Si tratta di una norma di chiusura, finalizzata a punire gli atti di concorrenza sleale atipici, ovvero non espressamente disciplinate dalle norme sopra menzionate. I presupposti di applicabilità di tale fattispecie di concorrenza sleale sono:
- la contrarietà alla correttezza professionale, interpretata dalla giurisprudenza prevalente con riferimento ai principi etici generalmente seguiti dagli imprenditori;
- l’idoneità a danneggiare il concorrente; a tal fine la giurisprudenza ritiene sufficiente che l’atto sia idoneo a produrre il danno, indipendentemente dal fatto che il danno effettivamente si verifichi (illecito di pericolo), elemento quest’ultimo che rileva solo ai fini risarcitori.
Rientrano in tale categoria generale di condotte illecite:
- il mendacio concorrenziale e la pubblicità ingannevole;
- lo storno di dipendenti;
- la concorrenza di ex dipendenti e collaboratori;
- la sottrazione di segreti aziendali e informazioni riservate;
- ribassi di prezzo e vendite sottocosto (predatory pricing);
- il boicottaggio;
- la violazione di esclusiva;
- la concorrenza parassitaria;
- la violazione di norme pubblicistiche.
5.1. Il mendacio concorrenziale e la pubblicità ingannevole.
La fattispecie del mendacio concorrenziale si concreta nella condotta dell’imprenditore che attribuisce alla propria impresa o ai propri prodotti, con qualsiasi mezzo di comunicazione, pregi inesistenti. Quando tale comportamento viene effettuato attraverso lo strumento pubblicitario si parla, più specificamente, della c.d. pubblicità menzognera.
La pubblicità menzognera costituisce una condotta di pubblicità ingannevole, sanzionata dal D.lgs. n. 145/2007. Essa può tuttavia costituire anche una condotta di concorrenza sleale, rientrante appunto come tale nell’ambito applicativo dell’art. 2598 n. 3 c.c. Quando invece il messaggio pubblicitario riguarda la promozione di beni e servizi offerti al consumatore, si applicano gli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo, in tema di pratiche commerciali scorrette.
Si ha mendacio concorrenziale nel caso in cui venga inviato qualsiasi messaggio rivolto al pubblico dei consumatori che sa idoneo ad indurli in errore, facendogli compiere scelte che altrimenti non avrebbero fatto. L’inganno deve quindi influire sulle scelte d’acquisto del consumatore medio, ovvero avere ad oggetto fatti specifici attinenti alle caratteristiche dei prodotti, la loro natura e composizione, il metodo e la data di fabbricazione, la quantità, etc.
Sono invece ritenute dalla giurisprudenza generalmente lecite, in quanto inidonee ad ingannare il consumatore medio, le vanterie generiche, le affermazioni iperboliche, le palesi esagerazioni prive di apprezzamenti screditanti nei confronti dei concorrenti (dolus bonus).
Una particolare ipotesi di inganno pubblicitario che investe non già il contenuto del messaggio, ma la sua fronte, è quella della pubblicità occulta, che si ha quando i messaggi pubblicitari sono presentati come messaggi effettuati dalla redazione di un giornale, oppure con il product placement, consistente nell’inquadrare il prodotto pubblicizzato in maniera apparentemente casuale in scende di film o programmi televisivi. Tale forma di pubblicità è espressamente vietata dall’art. 5 del D.lgs. n. 145/2007, il quale richiede che la pubblicità debba essere chiaramente riconoscibile come tale, vietando ogni forma di pubblicità subliminale.
5.2. Lo storno di dipendenti (rinvio)
Un’altra fattispecie di concorrenza sleale rientrante nell’ambito dell’art. 2598 n. 3 c.c. è il c.d. storno di dipendenti, ovvero l’acquisizione di lavoratori operanti in un’altra impresa concorrente, effettuata con l’intento di danneggiare quest’ultima.
Su questo tema ci siamo specificamente soffermati in un altro articolo, al quale si rimanda.
5.3 La concorrenza di ex dipendenti e collaboratori (rinvio)
Costituisce altresì un atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. quella dell’ex dipendente o collaboratore il quale, cessato il rapporto di lavoro o di collaborazione, eserciti attività lavorativa sfruttando informazioni riservate acquisite nel corso del suo precedente impiego o collaborazione professionale, per sviare la clientela dell’impresa.
Su questo tema ci siamo specificamente soffermati in un altro articolo, al quale si rimanda.
5.4. La sottrazione di segreti aziendali e informazioni riservate
La sottrazione dei segreti aziendali (know-how) di un imprenditore concorrente può essere realizzata attraverso un vero e proprio spionaggio industriale ovvero per il tramite di un dipendente infedele. Spesso l’illecito in questione è collegato alla fattispecie dello storno dei dipendenti , dato che tale obiettivo è il più delle volte raggiungibile solo attraverso chi fa o ha fatto parte dell’impresa concorrente.
Ai sensi dell’art. 98 del D. lgs. n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale), sono tutelabili come segreto aziendale, in quanto incluse tra i diritti di proprietà industriale, le informazioni che:
- sono soggette al legittimo controllo del detentore, sia esso l’ideatore delle stesse, sia esso colui che è autorizzato ad utilizzarle con il consenso del titolare;
- sono segrete, ovvero acquisibili solo con sforzi non indifferenti, superiori rispetto a quelli che occorrono per effettuare una accurata ricerca;
- hanno valore economico, in quanto è stato necessario anche uno sforzo economico per ottenerle, mentre analogo sforzo economico sarebbe stato richiesto presumibilmente per duplicarle;
- sono sottoposte a misure di segretezza, con particolare riferimento sia ad una protezione fisica, assicurata da sistemi di protezione adeguati, sia ad una protezione giuridica, assicurata da una informazione adeguata, data ai terzi che vengono in contatto con le informazioni, sul carattere riservato e sulle necessità che venga mantenuto tale.
Ai sensi dell’art. 99 del Codice della proprietà industriale, il legittimo detentore delle informazioni aziendali ed esperienze tecnico industriali aventi i requisiti di cui sopra ha il diritto di vietare ai terzi, salvo il proprio consenso, di acquistare, rivelare a terzi od utilizzare in modo abusivo tali informazioni ed esperienze, salvo il caso in cui siano state acquistate in modo indipendente dal terzo.
L’art. 99 del Codice della proprietà industriale, fa peraltro, salva la disciplina della concorrenza sleale; ciò consente di tutelare ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. anche quelle informazioni aziendali
che, pur non avendo i requisiti per essere considerate segrete, previsti dall’art. 98 Codice della proprietà industriale – ad esempio perché le informazioni non siano adeguatamente protette – sono comunque riservate, in quanto appartenenti al know-how aziendale, aventi valore economico e tali da consentire a chi le utilizzi un vantaggio parassitario a danno del legittimo detentore. E’ il caso, ad esempio, delle informazioni circa la politica aziendale, degli elenchi clienti, delle condizioni contrattuali applicate alla clientela, delle informazioni concernenti i prezzi di vendita, etc.
L’acquisizione di tali informazioni riservate ed il loro utilizzo per danneggiare un concorrente, ad es. attraverso sviamento di clientela, o storno di dipendenti, costituisce quindi atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c.
5.5. Ribassi di prezzo e vendite sottocosto (predatory pricing)
L’offerta di prodotti o servizi a prezzi inferiori a quelli di mercato rappresenta una tipica manovra concorrenziale, con effetti tendenzialmente favorevoli anche per i consumatori. In linea generale, dunque, la politica commerciale del ribasso dei prezzi, quando non sia frutto di specifiche violazioni di legge e non avvenga a condizioni sistematicamente non remunerative, è perfettamente lecita ed anzi meritevole di apprezzamento sotto il profilo economico, in quanto rappresenta una delle modalità fondamentali attraverso le quali si attua il principio della libera concorrenza. Al di fuori di un sistema di prezzi imposti e fatta eccezione per i casi di vendita sottocosto, l’offerta di prodotti analoghi a quelli di un concorrente a prezzi competitivi non costituisce atto di concorrenza sleale, poiché quando una nuova società si affaccia sul mercato e si presenta a clienti di altre ditte, è normale che cerchi di offrire condizioni più vantaggiose e si informi anche dagli stessi clienti dei prezzi e delle condizioni applicate dalle ditte concorrenti, per concedere un trattamento migliore.
Tuttavia, in determinate circostanze i ribassi di prezzo possono dar luogo ad atti di concorrenza sleale. Una particolare fattispecie di concorrenza sleale riguardante il prezzo è quella consistente nella c.d. vendite sottocosto (predatory pricing) che, a determinate condizioni, sono in grado di produrre un’alterazione della concorrenza sul mercato.
Tale comportamento – che può essere tenuto da un imprenditore che operi già in un mercato tendente al monopolio, o che intenda conquistare e successivamente rafforzare una posizione dominante – è illecito in quanto in tal modo l’imprenditore “dominante”, in ragione della fisiologica maggiore disponibilità di risorse rispetto ai concorrenti “minori”, è in grado di decidere di applicare prezzi a sé sfavorevoli (cd. non remuneratori) accettando di subire perdite economiche, al fine di impedire l’accesso al mercato di nuovi concorrenti o allo scopo di escludere quelli esistenti.
Affinché l’applicazione di prezzi inferiori possa essere considerato come atto di concorrenza sleale illecito, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c. è necessario che il ribasso:
- sia molto consistente, ovvero inferiore al costo di produzione del prodotto;
- sia posto in essere da un’impresa in posizione dominante, che, in tal modo, frapponga barriere all’ingresso di altri concorrenti sul mercato;
- sia praticato allo scopo di eliminare dal mercato la concorrenza, per poi rialzare i prezzi approfittando della situazione di monopolio così venutasi a determinare.
Al verificarsi di tali presupposti, la vendita sottocosto è sanzionabile anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), in quanto fattispecie di abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 3 L. n. 287/1990; essa infatti, mentre non può considerarsi, di per sé, sfavorevole ai consumatori e al mercato, provoca un danno nel momento in cui conduce alla soppressione della concorrenza.
Sono invece considerate lecite le vendite sottocosto giustificate sul piano economico aziendale e commerciale da situazioni contingenti, come quelle consistenti in iniziative promozionali temporanee ed occasionali (ad es. le vendite di fine stagione o promozionali). Il D.P.R. n. 218/2001 considera altresì lecite le vendite sottocosto quando si tratti di prodotti, deperibili, difettati o obsoleti, o siano effettuate in particolari ricorrenze, festività o simili.
Una particolare vendita sottocosto, generalmente posta in essere dalla grande distribuzione e considerata illecita, è quella che ha ad oggetto i c.d. prodotti civetta, cioè, prodotti solitamente di grandi marche, il cui fine è di richiamare la clientela per poi venderle principalmente altri prodotti.
5.6. Il boicottaggio.
Con il termine boicottaggio ci si riferisce a condotte finalizzate ad ostacolare o bloccare i rapporti commerciali di un concorrente, e dunque la sua presenza sul mercato.
Si distingue, in particolare, il boicottaggio primario, che si ha quando uno o più soggetti rifiutano spontaneamente, sulla base di accordi comuni, di contrattare con il terzo, dal boicottaggio secondario, caratterizzato dalla condotta di uno o più soggetti (promotori) consistente nell’indurre altri soggetti (esecutori) a non intrattenere rapporti con un concorrente dei primi (boicottato).
Il boicottaggio può essere determinato da comportamenti concordati tra più imprese (c.d. boicottaggio collettivo) ovvero da un’unica impresa (c.d. boicottaggio individuale). Una ipotesi di boicottaggio collettivo secondario si ha, ad es., nel caso in cui una pluralità d’imprenditori riuniti in una associazione di categoria impedisca che le imprese associate stabiliscano rapporti con operatori che non appartengono all’associazione stessa oppure che non soddisfano particolari requisiti unilateralmente posti dall’associazione e privi di giustificazione.
Il rifiuto a contrattare è invece ritenuto generalmente lecito, in quanto espressione di autonomia negoziale dell’impresa non monopolista. Tale condotta può diventare tuttavia illecita qualora:
- il rifiuto è irragionevole e deriva da un accordo specifico finalizzato unicamente ad estromettere dal mercato un concorrente (rifiuto concordato);
- il rifiuto proviene da un’impresa che, pur senza essere monopolista legale (nel qual caso avrebbe l’obbligo a contattare, ai sensi dell’art. 2597 c.c.), gode sul mercato di una posizione dominante, cioè tale da rendere comunque il rifiuto causa di ostacolo o esclusione dal mercato (art. 3 L. 287/1990 e 102 TFUE).
5.7. La violazione di esclusive contrattuali.
L’oggetto della manovra concorrenziale può consistere anche nel sistema di distribuzione organizzato dall’imprenditore attraverso la concessione di esclusive per la vendita di determinati prodotti.
In particolare, si è discuso sia in dottrina che in giurisprudenza circa la riconducibilità all’art. 2598 n. 3 c.c. delle fattispecie consistenti nella vendita di prodotti della stessa marca di parte di un soggetto terzo all’accordo distributivo, nella zona per la quale altro soggetto è concessionario un diritto di esclusiva. Nonostante la potenziale dannosità di simili comportamenti, secondo l’orientamento prevalente la violazione dell’esclusiva che al contempo non realizzi anche una contraffazione di marchio (violazione d’esclusiva c.d. pura), non costituisce concorrenziale sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3.
Tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto che, nel caso della distribuzione selettiva – ovvero qualora l’esclusiva venga utilizzata per creare una rete distributiva di cui fanno parte solo distributori selezionati sulla base di criteri specifici, imposti dal fornitore per garantire un alto livello quantitativo del servizio o dell’assistenza ai clienti, relativamente a prodotti particolarmente sofisticati o ricercati, che richiedono notevoli investimenti sotto il profilo del marketing o in servizi di assistenza (ad esempio i prodotti dell’alta moda o i computers) – gli atti dei terzi che, nonostante ne fossero a conoscenza, vendano i prodotti commercializzati con tale sistema distributivo ma a condizioni e modalità diverse, possono essere considerati sleali ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c.
5.8. La concorrenza parassitaria.
La concorrenza parassitaria ricorre nel caso di una costante e ripetuta imitazione di ogni iniziativa intrapresa dal concorrente, a prescindere dal rischio di confusione (altrimenti tale fattispecie viene ricondotta all’art. 2598 n. 1 c.c. (v. par. 3).
Tale illecito si consuma dunque quando vengono compiuti atti sistematicamente e continuativamente imitativi della condotta e della produzione imprenditoriale altrui, ma di tipo non confusorio. Tale condotta integra la concorrenza sleale quando l’imitazione venga effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (concorrenza parassitaria sincronica).
Costituisce concorrenza sleale parassitaria, ad es., l’atto dell’operatore il quale venda come propri i prodotti fabbricati da altri, dopo aver provveduto alla sostituzione del marchio, o utilizzi materialmente un prodotto altrui, già immesso nel mercato, per estrarne delle copie.
5.9. La violazione di norme pubblicistiche
Anche la violazione di norme di tipo pubblico (ad es. penali, fiscali, urbanistiche etc.) può integrare una condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., dato che l’impresa che viola tali norme, evitando gli oneri e i costi derivanti dal rispetto di tali norme, può procurarsi un vantaggio concorrenziale illecito a danno delle imprese competitors.
La giurisprudenza è tuttavia incline ad un orientamento piuttosto restrittivo in proposito, ritenendo che la sola violazione di norme pubblicistiche non implica necessariamente, attesa la moltitudine di norme che incidono sullo svolgimento dell’attività imprenditoriale, il compimento di un atto di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 c.c. n. 3.
Occorre infatti distinguere tra norme che sono rivolte a porre dei limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, la cui violazione implica sempre un atto contrario ai principi di correttezza professionale e dunque di concorrenza sleale, e norme che impongono dei costi alle imprese operanti sul mercato ( ad es. norme fiscali, prescrizioni igienico-sanitarie, norme che subordinano l’esercizio di determinate attività imprenditoriali all’ottenimento di licenze o di autorizzazioni, implicanti comunque dei costi), la cui violazione può costituire l’antecedente di un atto di concorrenza, fronte di danno concorrenziale, ovvero servire per sostenere un ribasso dei prezzi o misure equivalenti, divenendo in tal caso la violazione della norma di diritto pubblico indirettamente la fonte di un illecito concorrenziale.
In sostanza, occorre dimostrare non soltanto la violazione di norme amministrative, ma anche il compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei diritti del concorrente, mediante malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato. In applicazione di tale principio, la giurisprudenza ha ritenuto responsabile di concorrenza sleale il gestore di una sala cinematografica che aveva notevolmente ampliato la capienza del locale, senza alcuna autorizzazione amministrativa.
6. I rimedi contro gli atti di concorrenza sleale
Il principale rimedio nei confronti di condotte di concorrenza sleale è costituito dalla inibitoria, ovvero la facoltà del soggetto leso di richiedere al Giudice la cessazione della condotta lesiva, indipendentemente dall’accertamento di un effettivo danno patrimoniale e della prova della sussistenza di colpa o dolo in capo all’impresa concorrente. È infatti sufficiente la sussistenza del solo danno potenziale, ovvero la potenziale idoneità, del comportamento posto in essere da parte del soggetto agente, a ledere il concorrente.
In proposito, l’art. 2599 c.c. prevede appunto che è possibile chiedere all’autorità giudiziaria in sede di accertamento di un atto di concorrenza sleale che ne venga impedita la continuazione o ripetizione. La tutela inibitoria ha quindi anche una funzione preventiva, essendo esercitabile anche nell’ipotesi di mero tentativo di concorrenza sleale. il ricorso alla tutela inibitoria è invece escluso quando l’illecito si è già esaurito o è decorso un lungo intervallo di tempo dall’epoca in cui è stato commesso il fatto.
L’inibitoria può essere richiesta anche in via cautelare urgente, ai sensi dell’art. 700 C.p.c., stante la necessità di far cessare nel minor tempo possibile la reiterazione delle condotte ed evitare l’aggravamento del danno; a tal fine, l’impresa lesa dovrà dimostrare l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della relativa norma, ovvero periculum in mora e fumus boni iuris.
L’art. 2599 c.c. prevede altresì che può essere richiesta al Giudice l’eliminazione degli effetti dell’atto di concorrenza sleale, ovvero la ricostruzione della situazione di fatto precedente all’illecito, a prescindere, anche in questo caso, dall’esistenza degli estremi per il risarcimento del danno come pure della ricorrenza di colpa o dolo dell’impresa concorrente.
Il Giudice potrà quindi emettere un ordine avente ad oggetto, a seconda dei casi, la distruzione o il ritiro dal commercio di prodotti o di altri oggetti (come ad es. cartelloni pubblicitari, etichette, prodotti costituenti imitazione servile, materiali pubblicitari etc.), oppure il compimento di determinati atti, come ad es. la diffusione di annunci correttivi.
L’art. 2600 c.c. prevede infine che l’impresa può chiedere il risarcimento del danno, nella duplice componente del danno emergente e del lucro cessante. Il danno emergente potrà essere costituito dalle spese sostenute per opporsi all’illecito (ad es. le spese pubblicitarie sostenute per reagire ad un’attività denigratoria, le spese necessarie all’acquisizione della documentazione probatoria dell’illecito e quelle relative all’assistenza legale extragiudiziale), oppure negli investimenti pubblicitari resi vani a causa dell’atto di concorrenza sleale. Il lucro cessante può invece essere costituito nel calo o mancato incremento del fatturato dell’impresa a causa dell’illecito, in rapporto all’utile conseguito dal concorrente.
Il rimedio del risarcimento del danno presuppone che l’atto di concorrenza sleale sia compiuto con dolo o colpa. L’ultimo comma dell’art. 2600 c.c. prevede tuttavia in proposito che la colpa, una volta accertato l’atto illecito, è presunta; in tal modo il soggetto leso dovrà dimostrare l’esistenza della condotta lesiva, il danno subìto e il nesso di causalità fra la condotta illecita e l’evento lesivo, essendo sgravato dall’onere di provare l’elemento psicologico in capo all’impresa agente.
Il secondo comma dell’art. 2600 c.c. prevede poi la possibilità che il Giudice ordini la pubblicazione della sentenza di condanna. Tale provvedimento costituisce una sanzione autonoma, mediante la quale il pubblico viene informato del ripristino del diritto leso, eliminando così gli effetti conseguenti all’illecito e prevenirne di ulteriori e futuri, indipendentemente dall’esistenza di un danno risarcibile. In proposito vi è discrezionalità del Giudice nel decidere le forme di pubblicazione, purché proporzionate ai danni conseguenti dalla condotta anticoncorrenziale.
Infine, ai sensi dell’art. 2601 c.c., qualora gli atti di concorrenza sleale realizzati abbiano pregiudicato gli interessi di una categoria professionale, la repressione degli stessi spetta anche alle associazioni o enti che rappresentino tale categoria. Nella pratica, l’iniziativa delle associazioni professionali è particolarmente frequente a difesa di denominazioni d’origine controllata, atti di denigrazione e di pubblicità menzognera o comparativa scorretta che arrecano danno ad un’intera categoria di imprese, in relazione alla vendita di prodotti a prezzi così bassi da turbare l’equilibrio del mercato o per illeciti antitrust.
Come per tutte le azioni derivanti da fatto illecito, il termine di prescrizione per l’azione di concorrenza sleale è di 5 anni a decorrere dal verificarsi del fatto illecito.
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Avv. Valerio Pandolfini
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