La concorrenza sleale tra imprese: gli atti di concorrenza sleale e i rimedi
La disciplina sulla concorrenza sleale è finalizzata a realizzare gli interessi delle imprese, ovvero a far sì che prevalga l’impresa più efficiente sul mercato, e non quella che si avvale di strumenti scorretti per raggiungere questo fine. L’art. 2598 c.c. vieta la realizzazione di condotte di concorrenza sleale che consistono in: a) atti di confusione con i prodotti o servizi di altro concorrente; b) atti denigratori o di appropriazione di pregi nei confronti di prodotti o servizi di altro concorrente; c) altri atti non conformi alla correttezza professionale e idonei a danneggiare un concorrente, quali in particolare il mendacio concorrenziale e la pubblicità ingannevole, lo storno di dipendenti, la concorrenza di ex dipendenti e collaboratori, la sottrazione di segreti aziendali e informazioni riservate, ribassi di prezzo e vendite sottocosto (predatory pricing), il boicottaggio, la violazione di esclusiva, la concorrenza parassitaria, la violazione di norme pubblicistiche. I rimedi nei confronti degli atti di concorrenza sleale consistono nell’inibitoria, nell’eliminazione degli atti di concorrenza sleale e nel risarcimento del danno.
1. La concorrenza sleale tra imprese: principi generali
Come è noto, nel nostro ordinamento vige il principio generale della libera concorrenza tra le imprese sul mercato, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. La libertà di iniziativa economica comporta che sul mercato beni o servizi fra loro identici o simili siano offerti da una pluralità di imprenditori, i quali sono animati dalla volontà di realizzare il maggior profitto possibile. A tale scopo, ogni imprenditore è libero di attuare le strategie che ritenga più efficaci, non soltanto per richiamare la clientela, ma anche per sottrarla ai propri concorrenti.
Lo spazio di manovra di cui godono gli imprenditori sul mercato non è però senza limiti. L’ordinamento prevede infatti delle norme finalizzate ad assicurare la correttezza della concorrenza tra le imprese sul mercato, e dunque a reprimere gli atti di concorrenza sleale.
La concorrenza si deve infatti svolgere, nell’interesse generale, in modo corretto e leale per impedire che vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del pubblico, che decreta il successo di un’impresa piuttosto che di un’altra. Ciò nella convinzione che il gioco della concorrenza può contribuire ad assicurare il benessere economico generale a condizione che a vincere la gara sia l’imprenditore realmente più capace: cosa che a sua volta è possibile esclusivamente se il pubblico dei potenziali destinatari dei beni o servizi – clienti professionali o consumatori – è in grado di dirigere la propria preferenza verso i prodotti migliori per prezzo e qualità.
La disciplina sulla concorrenza sleale non è dunque finalizzata alla tutela dei consumatori, bensì a realizzare gli interessi delle imprese, ovvero a far sì che prevalga l’impresa più efficiente sul mercato, e non quella che si avvale di strumenti scorretti per raggiungere questo fine.
La principale norma del nostro ordinamento che disciplina la concorrenza sleale è l’art. 2598 c.c. Esso vieta la realizzazione di condotte di concorrenza sleale che consistono in:
- atti di confusione con i prodotti o servizi di altro concorrente;
- atti denigratori o di appropriazione di pregi nei confronti di prodotti o servizi di altro concorrente;
- altri atti non conformi alla correttezza professionale e idonei a danneggiare un concorrente.
Le prime due fattispecie di concorrenza sleale previste dall’art. 2598 c.c. (le condotte di concorrenza sleale per confusione e quelle di denigrazione o vanteria) sono nominate, in quanto descritte analiticamente; la terza fattispecie è invece innominata, in quanto riguarda una pluralità indeterminata di pratiche commerciali non conformi ai principi di correttezza professionale e idonee a danneggiare i competitors.
La disciplina sulla concorrenza sleale contenuta nel codice civile deve essere poi coordinata con altre discipline specifiche, contenute in particolare:
- nel D.lgs. n. 30/2005 (Codice sulla proprietà industriale, CPI) in tema di marchi, brevetti e diritto di autore;
- nel D.lgs. n. 145/2007 sulla pubblicità ingannevole e comparativa;
- nel D.lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo) in tema di pratiche commerciali scorrette.
Per quanto concerne la tutela di brevetti, marchi e modelli prevista dal CPI, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente l’azione di concorrenza sleale (di natura personale), ai sensi dell’art. 2598, è autonoma e fondata su presupposti diversi rispetto a quella (di natura reale) prevista dal CPI; tali tutele possono tuttavia concorrere, sussistendone i relativi presupposti.
I presupposti generali di applicabilità della disciplina sulla concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. sono:
- la qualità di imprenditore del soggetto agente e del soggetto che “subisce” la concorrenza sleale (presupposto soggettivo)
- la sussistenza di un rapporto di concorrenza (presupposto oggettivo).
2. I presupposti della concorrenza sleale
2.1. La qualità di imprenditore
Presupposto soggettivo della concorrenza sleale è il rapporto di concorrenzialità tra il soggetto agente (soggetto attivo) e il soggetto che subisce la concorrenza sleale (soggetto passivo). Soggetto attivo e passivo dell’atto di concorrenza sleale devono essere necessariamente imprenditori, ovvero soggetti che organizzano un complesso di beni per l’esercizio dell’impresa, ai sensi dell’art. 2555 c.c., e in quanto tali in grado di trovarsi, appunto, in concorrenza tra loro.
In questo senso, la giurisprudenza prevalente non riconosce al socio di una società in nome collettivo la legittimazione di agire in giudizio in proprio per l’accertamento e l’inibitoria dell’attività di concorrenza sleale posta in essere in danno della società da altro socio receduto.
Non è necessario che i soggetti svolgano abitualmente l’attività d’impresa, essendo sufficiente anche l’esercizio occasionale.
La giurisprudenza adotta peraltro una interpretazione estensiva del concetto di imprenditore, ritenendo applicabile la disciplina della concorrenza sleale anche a imprenditori pubblici, come imprese pubbliche, enti pubblici economici e non economici che esercitano attività imprenditoriale, enti pubblici territoriali, enti fieristici e concessionari di pubblici esercizi.
Un imprenditore diventa tale già quando inizia ad organizzare l’attività di impresa, e non smette di esserlo sino alla definitiva cessazione dell’attività, successiva alla chiusura delle operazioni di liquidazione. Pertanto, già in fase di organizzazione e in sede di liquidazione dell’impresa trova applicazione il divieto di concorrenza sleale. Il divieto di concorrenza sleale trova altresì applicazione anche a seguito di fallimento dell’impresa, qualora il curatore fallimentare eserciti in via provvisoria l’attività d’impresa.
La disciplina della concorrenza sleale può essere estesa anche a soggetti terzi, laddove, pur non in presenza di atti di concorrenza sleale compiuti da un imprenditore, tali atti siano a questi riconducibili in quanto posti in essere nel suo interesse, nell’ambito di un rapporto di lavoro, di collaborazione o altro.
Sono quindi riconducibili all’imprenditore gli atti di concorrenza sleale posti in essere dai suoi dipendenti nell’esercizio delle proprie mansioni, i quali rispondono in solido con l’imprenditore stesso, indipendentemente dal fatto che il comportamento del dipendente abbia ecceduto i limiti delle sue mansioni stesse o trasgredendo le istruzioni del datore di lavoro.
Per quanto riguarda gli atti sleali compiuti dagli ausiliari o collaboratori autonomi dell’imprenditore, la giurisprudenza prevalente ritiene che, affinché si configuri una responsabilità in capo all’impresa, è necessario che tali soggetti siano in una relazione con quest’ultima tale da qualificare la condotta come volta a procurarle un vantaggio, ai danni di un altro imprenditore, come nel caso dell’amministratore della società.
Per lo stesso principio, è stata affermata la responsabilità nell’ambito del gruppo di imprese;
- della capogruppo (holding) a titolo di concorrenza sleale per atti compiuti dalle società controllate, in quanto titolare di un interesse all’attività economica delle società appartenenti al gruppo che la porta a condividerne le operazioni economiche;
- della società consorella che, pur non detenendo quote nel capitale sociale della società che ha commesso l’illecito, eserciti un’influenza determinate su di essa.
Secondo la giurisprudenza prevalente la disciplina di cui all’art. 2598 c.c. non si applica, invece, ai professionisti, mancando tra gli stessi un rapporto di concorrenzialità (Cass. n. 560/2005). I professionisti possono peraltro invocare la norma di cui all’art. 2043 c.c., ricorrendone i presupposti.
2.2. La sussistenza di un rapporto di concorrenza
Il secondo presupposto per la realizzazione della fattispecie della concorrenza sleale è costituito dalla esistenza di un rapporto di concorrenza tra i soggetti coinvolti. Gli imprenditori devono infatti offrire nello stesso ambito di mercato beni o sevizi rivolti alla stessa clientela o a soddisfare bisogni identici o simili.
È necessario, in altri termini, che gli imprenditori condividano la stessa clientela finale, effettiva o anche semplicemente potenziale, valutando, sulla base delle circostanze concrete, se l’attività esercitata, considerata nella sua dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale, geografico e merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti o di prodotti affini.
La sussistenza di un rapporto di concorrenza dipende, quindi, da un triplice ordine di ragioni:
- l’ambito territoriale, cioè l’area ove l’impresa ha concrete possibilità di espandersi (c.d. mercato di sblocco); a tal proposito, deve essere valutato sia il mercato attuale che quello potenziale: con la conseguenza che un rapporto concorrenziale fra due imprese è ritenuto esistente anche quando, pur operando esse in ambiti territoriali diversi, vi sia la concreta possibilità per l’una di accedere al mercato in cui opera l’altra (c.d. concorrenza potenziale territoriale);
- il profilo merceologico, in base alla possibilità che l’oggetto dell’impresa di una delle parti possa rappresentare una possibile futura evoluzione dell’attività dell’altra;
- l’aspetto temporale, in relazione a soggetti che non abbiano ancora avviato ovvero abbiano sospeso in modo non definitivo l’attività ovvero quando sia stata avviata la sola fase organizzativa.
In linea con tali principi, la giurisprudenza ritiene rilevante anche la concorrenza solo potenziale tra imprenditori, ovvero l situazione in cui, pur mancando un rapporto di concorrenza attuale fra i due soggetti interessati, appaia comunque probabile una prossima interferenza fra i mercati in cui gli stessi operano. Ad es., qualora Tizio, produttore di molle, diffonda notizie false e denigratorie sulla qualità dei materassi di Caio, si rende responsabile di concorrenza sleale anche se non vi è coincidenza dei beni fabbricati né questi mirano a soddisfare esigenze identiche o anche soltanto simili fra loro, tenuto conto della possibilità che Tizio possa decidere di fabbricare egli stesso direttamente anche il prodotto finito.
La giurisprudenza prevalente ritiene inoltre che sia configurabile un rapporto di concorrenza anche nel caso di imprenditori operanti a livelli economici diversi della catena produttiva – come ad es. nel caso rapporto tra il produttore di un bene ed il commerciante dello stesso bene o di un bene analogo -purché l’attività degli stessi incida sulla medesima cerchia di consumatori finali, i quali determinano il successo o meno di una determinata attività.
3. La concorrenza sleale per confusione
L’art. 2598 n. 1 c.c. dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
- usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri; oppure
- imita servilmente i prodotti di un concorrente; oppure
- compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente.
Affinché gli atti in questione possano effettivamente configurare una concorrenza sleale è necessario che si tratti di atti idonei a produrre confusione con i prodotti o i servizi di un competitor; essi devono essere quindi suscettibili di incidere sulle scelte dei consumatori e tali da indurli ad imputare determinati prodotti o una data attività ad un imprenditore diverso da quello cui effettivamente appartengono.
L’accertamento delle confondibilità deve essere condotto avendo riguardo all’impressione che, presumibilmente, la somiglianza dei segni o dell’aspetto esteriore dei prodotti può suscitare nel consumatore medio, dotato di ordinaria diligenza e attenzione a cui sono normalmente destinati i prodotti.
Tale accertamento avviene in via sintetica e non in via analitica, nel senso che si riferisce all’impressione d’insieme suscitata nel consumatore dal segno distintivo. Di regola, infatti, il consumatore opera le proprie scelte sulla base dell’impressione complessiva suscitata da una determinata realtà e non a seguito di un attento esame frutto di una precisa comparazione tra segni o prodotti.
A tal fine non è necessario che la confusione in capo ai consumatori sia realmente avvenuta, in quanto costituiscono condotte punibili ai sensi dell’art. 2598 n. 1 c.c. tutte quelle che siano anche potenzialmente in grado di generare confusione.
3.1. L’uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione
La prima condotta di concorrenza sleale prevista dalla norma in oggetto è costituita dall’uso di nomi o segni distintivi usati legittimamente da altri.
I segni distintivi tipici – cioè, oggetto di una specifica disciplina – sono costituiti da:
- il marchio registrato;
- la ditta;
- l’insegna.
Con riferimento ai segni distintivi tipici, l’individuazione dei requisiti di tutelabilità e dei criteri per valutare la confondibilità è contenuta nella normativa speciale di cui al CPI, alla quale rimanda espressamente l’art. 2958 c.c.
Tuttavia, non sempre l’uso di un segno distintivo altrui conduce automaticamente anche ad un illecito concorrenziale ai sensi dell’all’art. 2598 c.c. (c.d. concorrenza sleale dipendente): a tal fine, infatti, devono riscontrarsi in linea generale due requisiti.
In primo luogo, il segno imitato deve essere dotato di capacità distintiva, cioè, deve essere in concreto idoneo a distinguere i prodotti o l’attività di un determinato imprenditore e che venga percepito come tale dallo specifico pubblico cui sono destinati. Occorre pertanto che il segno sia dotato di sufficienti effetti individualizzanti, risultando idoneo a far associare, presso il pubblico, il segno a quel prodotto. Di conseguenza, la giurisprudenza nega capacità distintiva al segno che impieghi parole di uso comune o meramente descrittive o termini non idonei a richiamare immediatamente il prodotto (ad es., un segno consistente in una denominazione generica o in una indicazione descrittiva).
In secondo luogo, occorre che sussista l’idoneità a determinare confusione con il prodotto e l’attività di un concorrente, tenendo conto della capacità del consumatore medio di distinguere opportunamente tra prodotti concorrenti. A tal proposito, la giurisprudenza ritiene che il rischio di confusione sia massimo a fronte di prodotti di uso quotidiano e a basso costo, acquistati in genere in supermercati, velocemente e senza particolare attenzione, sottolineando come nella valutazione del rischio di confusione occorre tener contro dei fattori che condizionano la scelta dei consumatori nel momento dell’acquisto.
Per quanto concerne in particolare il marchio, la contraffazione di un marchio registrato può costituire anche atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, n. 1, atteso che la contraffazione può dare luogo a vendita di prodotti confondibili. Tuttavia, l’azione di concorrenza sleale – a differenza dell’azione di contraffazione prevista dal CPI, la quale, avendo natura reale, tutela il marchio come bene assoluto sulla base della mera confondibilità dei marchi – presuppone:
- che vi sia stato un uso concreto ed effettivo del marchio;
- che il marchio sia utilizzato dal contraffattore in funzione distintiva (c.d. uso tipico) dei prodotti di quest’ultimo, e non in funzione meramente descrittiva, ossia per descrivere le caratteristiche o le qualità del prodotto (c.d. uso atipico: v. art. 21 comma 1 CPI).
- che vi sia un concreto pericolo confusorio, il che richiede un quid pluris rispetto alla mera contraffazione di marchio, ovvero un apprezzamento di confondibilità non solo fra i segni, ma anche tra i prodotti contraddistinti, con conseguente necessità di verificare le circostanze che accompagnano in concreto l’impiego dei marchi in conflitto.
Per quanto concerne la ditta, l’art. 2563 1° comma c.c. stabilisce che l’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta ed impone, al successivo art. 2564 c.c., l’integrazione o la modifica di quelle ditte uguali o simili, o tali da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata, prevedendo che in caso di conflitti fra imprenditori, prevale quello che per primo ha iscritto il proprio nome presso il registro delle imprese. La ditta è quindi un diritto assoluto dell’imprenditore e gode di tutela in quanto bene immateriale del patrimonio dell’imprenditore, il quale infatti ne può disporre.
Per l’applicabilità dell’art. 2564 c.c. non occorre, inoltre, che una confusione tra i due segni distintivi si sia effettivamente verificata, ma è sufficiente che essa possa verificarsi, pur richiedendosi, in ogni caso, che ambedue le imprese interessate operino nello stesso ambito imprenditoriale] e territoriale (secondo la definizione di “localizzazione commerciale” oramai in uso con l’estensione dei limiti commerciali permessi dalle nuove tecnologie).
Tali norme si applicano anche all’insegna (art. 2568 c.c.), che è il segno distintivo dei locali dell’impresa e svolge una funzione di collettore di clientela a favore, in particolare, degli imprenditori che ospitano i consumatori all’interno dei locali o degli edifici in cui viene esercitata l’attività d’impresa (es. ristoranti, alberghi, cinema, etc.). L’insegna può consistere in un’immagine, in un simbolo, oltre che essere nominativa, ma affinché l’imprenditore acquisti sulla stessa un diritto di utilizzazione esclusiva, deve necessariamente possedere capacità distintiva, cioè, deve differenziarsi dalla denominazione generica dell’oggetto dell’impresa.
In proposito, ai sensi dell’art. 2568 c.c. all’insegna è attribuita la medesima tutela riconosciuta alla ditta nei conflitti fra imprenditori; pertanto, quando l’insegna sia uguale o simile ad un’altra usata da un diverso imprenditore, o sia tale da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata, dovrà essere integrata o modificata.
Al di là dei segni distintivi tipici, sono oggetto di protezione da atti di concorrenza sleale anche qualsiasi segno distintivo atipico, capace di caratterizzare un prodotto o un’attività, distinguendoli dagli altri analoghi di un concorrente, quali:
- marchi di fatto;
- ditte irregolari;
- sigle e slogan pubblicitari;
- nomi di dominio (domain names);
- etichette;
- parole, figure, numeri, lettere dell’alfabeto, suoni, forma dei prodotti o delle confezioni di essi, colori.
Tutti gli elementi utilizzati da un’impresa, in quanto idonei a distinguerla dai concorrenti possono, quindi, essere tutelati, qualora il loro uso da parte di altri soggetti generi confusione tra imprese concorrenti e siano dotati di sufficiente capacità distintiva.
Per quanto concerne, in particolare, i nomi di dominio, si rinvia all’apposito approfondimento pubblicato in questo articolo.
3.2. L’imitazione servile
La seconda fattispecie di condotte di concorrenza sleale per confusione disciplinata dall’art. 2598 n. 1 c.c. concerne l’imitazione servile dei prodotti di un concorrente, ovvero la riproduzione fedele, pedissequa, delle parti evidenti, esterne del prodotto di un concorrente, tale da ingenerare confusione.
Al fine di incorrete nell’illecito non è sufficiente l’imitazione fedele di qualsiasi parte del prodotto altrui, bensì della parte che, in quanto dotata di efficacia individualizzante, sia idonea a generare possibilità di confusione, ovvero della forma esteriore. Nessuna rilevanza, infatti, ha l’imitazione delle parti interne o strutturali del prodotto, per definizione non visibili, come ad esempio il contenuto di una scatola.
Il prodotto imitato servilmente deve avere un valore individualizzante e distintivo, deve essere, cioè, dotato di originalità e novità; deve possedere dunque una forma non banale, standardizzata, ma idonea a rendere il prodotto riconoscibile. La forma indispensabile per il conseguimento dell’utilità del prodotto (c.d. forma necessaria) non può essere protetta contro la riproduzione realizzata da terzi, se non nell’ambito delle privative industriali. Tuttavia, i prodotti nei quali la forma necessaria sia preponderante (ad esempio componenti tecnici quali valvole, filtri, apparecchiature, etc.i) non sono esclusi dalla tutela contro l’imitazione servile, in quanto l’insieme dei particolari della forma che non sono necessitati da esigenze funzionali sono tutelabili.
È tutelabile, ai sensi dell’art. 2598 n. 1 c.c., la forma di un prodotto non coperto da privativa se e in quanto l’imitazione ingeneri in concreto confusione circa la provenienza del prodotto, e sempre che l’imitazione non abbia ad oggetto caratteristiche funzionali dello stesso. Il bene giuridico protetto è in sostanza il valore distintivo della forma di un prodotto. D’altra parte, però, la novità e la capacità individualizzante della forma imitata non devono essere tali da conferire al prodotto una particolare utilità tecnica o pregio estetico, in quanto in tal caso la tutelabilità della forma attraverso le privative industriali escluderebbe quest’ultima dalla protezione della disciplina concorrenziale.
Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per imitazione servile, la confondibilità deve sostanziarsi nella presentazione alla clientela di prodotti con nomi, segni distintivi o confezioni che, in base ad un accertamento sintetico esteso a tutte le loro caratteristiche salienti in relazione al normale grado di percezione dei destinatari del prodotto, siano a tal punto somiglianti da indurre in equivoco i consumatori.
Pertanto, il giudizio di confondibilità tra i segni distintivi dei prodotti deve essere condotto in base alla valutazione che possa essere formulata in concreto dal consumatore medio di quel genere di prodotto, e quindi tenendo conto dell’effettivo contesto di mercato in cui si asserisce essere avvenuta l’attività concorrenziale, e deve basarsi su un esame non analitico, ma essenzialmente sintetico, d’impressione, sì da risultare positivo allorché l’imitazione riguardi elementi caratterizzanti o individualizzanti dell’altrui prodotto, confezione o attività.
Il divieto di imitazione servile deve essere coordinato con le regole del sistema brevettuale, in quanto la tutela predisposta contro l’imitazione servile non può costituire un indebito prolungamento o un arbitrario duplicato dell’esclusiva brevettuale, subordinata alla presenza di precisi requisiti dei prodotti e concessa solo per un limitato periodo di tempo. La norma sulla concorrenza sleale non estende la protezione del brevetto, in quanto essa più semplicemente concede all’imprenditore la facoltà di impedire la circolazione di prodotti atti a creare una possibilità di confusione con i suoi, prescindendo dall’esistenza della privativa.
Alla luce del divieto di imitazione servile, il concorrente deve evitare la confusione:
- in assenza di brevetto, quando cioè poteva essere richiesto ma non lo è stato;
- se il prodotto è brevettato ed egli operi sotto licenza, dal momento che quest’ultima lo autorizza ad imitare le forme funzionali, ma non ad ingenerare confusione nel pubblico;
- dopo la scadenza del brevetto anche nell’imitazione di forme funzionali, nella realizzazione di prodotto a forma inderogabile, o utile ma non inderogabile, attraverso una comunicazione del prodotto stesso che ne sottolinei le differenze nonostante l’identità o somiglianza formale (ad. es., diverso colore, marchio apposto in modo evidente, diversa confezione, diversa distribuzione, diverse garanzie ed istruzioni, diversa presentazione pubblicitaria).
In linea generale, in base al divieto di imitazione servile di cui all’art. 2598, n. 1 c.c., non possono essere protette le c.d. forme funzionali e quelle atte a conferire al prodotto un particolare ornamento, per evitare che, tramite il divieto di imitazione servile, si finisca per riconoscere di fatto una tutela perpetua a soluzioni funzionali od ornamentali. Per altro verso, se la legge non consente il perpetuarsi di un monopolio di sfruttamento oltre la fisiologica durata di una privativa, non può altresì consentire, in via di principio, un vero e proprio storno del frutto dell’altrui investimento, in quanto tale soluzione eliminerebbe un presupposto della competizione nel mercato, ovvero la possibilità di conquistare, secondo regole di correttezza commerciale, la clientela.
La giurisprudenza prevalente ritiene pertanto che per escludere la concorrenza sleale per imitazione servile non è sufficiente la forma funzionale o estetica del prodotto imitato, ma occorre accertare che il prodotto non possa subire varianti innocue, senza che, cioè, si vada ad incidere su quella forma. Al fine di bilanciare gli opposti interessi in gioco e superare gli effetti indesiderati derivanti dall’accoglimento del criterio della libera riproduzione delle forme funzionali, si ritiene infatti che spetta a chi riproduce la forma altrui, non brevettata o il cui brevetto sia scaduto, l’onere di differenziare il proprio prodotto in modo da scongiurare il rischio di confusione con quello imitato.
Tuttavia, le varianti devono riguardare elementi che non incidono su aspetti funzionali od estetici del prodotto di una qualche rilevanza, per cui sono rari i casi in cui la loro adozione può fare acquisire al prodotto una capacità distintiva prima non posseduta. Inoltre, l’onere di eseguire modificazioni è ravvisabile solo quando non incide sul funzionamento del prodotto, diminuendone apprezzabilmente l’utilità, e quando il prezzo delle differenziazioni, inteso come dispendio di energie creative e mezzi economici per apportare varianti, non appaia eccessivo e, comunque, sproporzionato rispetto all’interesse del concorrente a non subire imitazioni al proprio articolo.
Pertanto, nei casi in cui non siano possibili interventi modificativi di grado non invasivo e antieconomico, la possibilità di eliminare il rischio di confusione sull’origine dei prodotti dipende solo dagli strumenti ed accorgimenti di ordine estrinseco, quali l’uso del marchio, la presentazione del prodotto in contenitori o imballaggi distinti, l’indicazione che il prodotto è fabbricato da un diverso imprenditore. In questo senso, la giurisprudenza prevalente ritiene che in caso di imitazione di forme funzionali non suscettibili di varianti innocue, i nomi e i segni distintivi tipici e atipici sono gli unici mezzi per ridurre il pericolo di confusione sulla provenienza dei prodotti.
Quando l’imitazione servile riguarda le confezioni dei prodotti (il packaging), si parla di look-alike. Questo fenomeno identifica quei comportamenti in cui nonostante siano apposti marchi diversi, si adottano confezioni simili, per forma, colore, foggia e/o grafica, tali da creare confusione sul mercato o, comunque, tali da diluire indebitamente la capacità distintiva di un packaging utilizzato da un’impresa.
L’ultima parte del n. 1 dell’art. 2598 funge da clausola residuale applicabile alle altre fattispecie atipiche;: rientrano infatti nella categoria dell’imitazione servile anche i comportamenti che, pur non riguardando l’imitazione di segni distintivi o della forma esteriore del prodotto, sono comunque idonei a ingenerare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente, come cataloghi, listini strutturati in modo tale da attirare l’attenzione del cliente utilizzando tecniche subdole e ingannevoli, l’allestimento di punti vendita, l’uso di un certificato di garanzia pedissequamente copiato da quello utilizzato dal concorrente, l’uso di fotografie con la medesima inquadratura e disposizione dei prodotti usati dal concorrente, delle medesime frasi pubblicitarie, dei medesimi cromatismi, composizioni e criteri di disposizione. Altra ipotesi rientrante nella disciplina della concorrenza sleale sotto il profilo dell’imitazione servile è stata individuata nell’utilizzazione di strumenti pubblicitari copiati in maniera pedissequa da quelli di un concorrente.
4. La concorrenza sleale per denigrazione e appropriazione di pregi
L’art. 2598 n. 2 c.c. dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
- diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito; oppure
- si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente.
E’ responsabile di concorrenza sleale chi diffonde notizie o apprezzamenti idonei a determinare il discredito di concorrenti, cioè la perdita o la diminuzione della reputazione e della fiducia di cui l’impresa concorrente gode sul mercato.
Per verificare se un atto concorrenziale abbia provocato il discredito altrui occorre guardare gli effetti provocati sul mercato, che possono concretarsi nella perdita di clientela, nella mancata conclusione di affari ovvero in qualsiasi altro effetto negativo sulla posizione dell’impresa. Secondo la giurisprudenza prevalente, si ha diffusione di notizie anche nel caso in cui si esse siano portate a conoscenza di una cerchia limitata di soggetti o, addirittura, di unica persona, dal momento che anche l’apprezzamento negativo comunicato ad un solo soggetto (che ad es. assuma le vesti di fornitore o finanziatore) può cagionare gravi danni al concorrente.
Affinché ricorra la fattispecie della denigrazione e si produca il danno concorrenziale occorre, dunque, che il soggetto passivo, a cui si riferisce la notizia o apprezzamento screditante, sia individuato o quantomeno individuabile. Qualora più imprenditori siano coinvolti nella vicenda in quanto produttori o distributori del prodotto denigrato, ciascuno di essi può esercitare l’azione di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, n. 2, c.c. purché agisca uti singulus, dimostrando la lesione o la minaccia di un proprio interesse: titolari dell’interesse ad agire della categoria sono invece le associazioni professionali, cui spetta la tutela prevista dall’art. 2601 c.c.
Non è richiesto come elemento della fattispecie che le notizie o gli apprezzamenti, aventi ad oggetto l’attività del concorrente, siano false. La giurisprudenza ritiene infatti che la veridicità dei fatti dichiarati non si traduce nella liceità dei comportamenti osservati dall’imprenditore in concorrenza, laddove la stessa si realizzi per il tramite di modalità espressive tendenziose, scorrette, in modo da produrre un generale discredito per i prodotti e/o per l’attività imprenditoriale esercitata dal concorrente.
Il criterio della verità e della modalità di divulgazione delle notizie relative al concorrente (che deve ispirarsi ai principi di correttezza professionale) è stato applicato anche nella valutazione delle diffide, o comunicazioni, rivolte a concorrenti o a terzi, in cui si invita il concorrente dall’astenersi da un determinato comportamento in quanto lesivo di un diritto dell’imprenditore diffidante. Allo stesso modo, la diffusione di notizie su procedimenti o provvedimenti giudiziari ad iniziativa della parte interessata non costituisce atto di concorrenza sleale, a condizione che la divulgazione non sia attuata con modi e forme tali da ingenerare nei terzi una rappresentazione non corretta del contenuto del provvedimento o dell’andamento del giudizio e che, trattandosi di provvedimenti revocabili o modificabili, sia fatta espressa menzione di tale circostanza.
La denigrazione può essere effettuata con i più diversi mezzi. Le fattispecie più ricorrenti sono:
- la comparazione illecita con i prodotti o i servizi di un’altra impresa (ad es. quando vengono utilizzate espressioni come “il prodotto X è migliore del prodotto Y” o “il prodotto Y è peggiore del prodotto X”); la pubblicità comparativa è di per sé lecita, ma diventa illecita (cioè ingannevole), qualora non ricorrano una serie di requisiti, ai sensi del D.lgs. n. 145/2007 (sul punto si rimanda all’apposito approfondimento;
- la c.d. pubblicità iperbolica, cioè la definizione del proprio prodotto come il solo e unico ad avere determinate caratteristiche o qualità; l’auto attribuzione di pregi provoca infatti nel pubblico l’idea che gli stessi non siano presenti nei prodotti dei concorrenti quindi, indirettamente, getta discredito su questi. La magnificazione del proprio prodotto è tuttavia considerata lecita qualora sia talmente esagerata da non essere credibile dai destinatari del messaggio, anche se denigra implicitamente i prodotti altrui;
- la diffusione di notizie volte a gettare discredito sulla solidità commerciale di un concorrente (ad es., sbandierando le sue difficoltà finanziare oppure la sua non adeguata esperienza o puntualità), anche nel caso in cui le notizie divulgate siano vere, purché la divulgazione venga effettuata in maniera tendenziosa e scorretta.
La norma vieta, inoltre, gli atti di appropriazione di pregi di prodotti o attività di un concorrente (c.d. condotte di vanteria).
La concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti di un concorrente è configurabile quando, in forme pubblicitarie o equivalenti, un imprenditore attribuisce ai propri prodotti o alla propria impresa pregi (quali ad esempio, medaglie, riconoscimenti, qualità, indicazioni, virtù) da essi non posseduti ma appartenenti ai prodotti o all’impresa di un concorrente, in modo tale da turbare la libera scelta del consumatore.
Ai fini della sussistenza della concorrenza sleale per denigrazione non è richiesta anche la falsità dei fatti affermati, in quanto può costituire atto illecito, non conforme ai principi della correttezza professionale, anche la divulgazione di circostanze o notizie vere idonee a determinare discredito sui prodotti o sulle attività di un’impresa concorrente, ove la divulgazione venga effettuata in maniera tendenziosa e comunque scorretta, non essendo consentito all’imprenditore interessato sostituirsi al pubblico nella formulazione di quel giudizio che invece a quest’ultimo dovrebbe essere riservato.
Costituisce, in particolare, appropriazione di pregi e comunicazione ingannevole l’apposizione di un marchiaggio, attestante la conformità dei prodotti alle norme di sicurezza, con cui l’imprenditore attribuisce caratteristiche specifiche al proprio prodotto, considerate positive dagli operatori del mercato e tali da costituire possibile ragione di preferenza, non riscontrabili nel prodotto da esso commercializzato e, invece, costituenti una peculiarità di quelli prodotti dal concorrente. La comunicazione ha un intrinseco carattere ingannevole nei confronti dei possibili acquirenti ed utilizzatori, censurabile a prescindere dal fatto che altro concorrente distribuisca prodotti con – effettivamente – quelle caratteristiche.
Rientra in tale fattispecie di concorrenza sleale anche il cd. ambush marketing, o marketing parassita, consistente nell’intrufolarsi tra i vari concorrenti in gara in modo abusivo per sfruttare l’impatto mediatico dell’evento, allo scopo di indirizzare verso il proprio marchio l’attenzione del pubblico senza sostenere gli ingenti costi di sponsorship; in tal modo, i consumatori creano un’associazione indebita tra l’evento mediatico e il marchio dell’imprenditore parassita, sebbene estraneo agli sponsor ufficiali.
Simile all’ambush marketing è la c.d. pubblicità per agganciamento, volta a sfruttare la notorietà e il successo di un concorrente mediante la riproduzione delle forme di presentazione esteriore del prodotto di questi, al fine di trarre indebito vantaggio dal positivo accreditamento da essa conquistato presso il consumatore, riversando su un prodotto di fascia di prezzo più bassa l’effetto della rinomanza del prodotto concorrente. Come nel caso in cui un imprenditore presenti il proprio marchio sui propri prodotti, accanto a quello dell’impresa nota, preceduto dalla parola “tipo” o “simili” (ad es. la mia penna è “tipo Mont Blanc”); in questo caso, non ha importanza che il prodotto sia qualitativamente inferiore o superiore a quello dell’impresa nota, in quanto la condotta illecita si configura per il solo fatto di avere sfruttato la rinomanza di quest’ultima.
Affinché si possa configurare un illecito concorrenziale in riferimento all’adozione di segni e confezioni simili è necessario che dai prodotti in discussione emerga una chiara impressione d’insieme di sovrapponibilità, idonea ad ingenerare confusione tra prodotti e imprese ovvero a provocare un fenomeno di agganciamento, con indebito sfruttamento di pregi dei prodotti imitati da parte del concorrente imitante.
Costituisce inoltre atto di concorrenza sleale per agganciamento commerciale la riproduzione del prodotto altrui in un’offerta pubblicitaria che sfrutta le potenzialità di accaparramento della clientela mediante l’attribuzione a sé di una macchina in realtà prodotta dal concorrente, così come l’uso (non autorizzato) nell’inserzione pubblicitaria di un’impresa di una fotografia fatta realizzare da una impresa concorrente per pubblicizzare in un dépliant un suo prodotto (dotato di connotazioni stilistiche precipue idonee a renderlo identificabile tra altri prodotti dello stesso genere presenti sul mercato ed a individuare quindi un determinato imprenditore e la sua attività).
Far ritenere i propri prodotti simili a quelli di un concorrente, magari già molto conosciuto e apprezzato, allo scopo di sfruttarne una risonanza e una rinomanza già consolidate: ciò permette di risparmiare la fatica e i costi di farsi conoscere dai consumatori, sfruttando la fama raggiunta dal titolare del marchio noto.
5. Le altre fattispecie di concorrenza sleale
Ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., compie atti di concorrenza sleale anche chiunque utilizzi, direttamente o indirettamente, ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
Si tratta di una norma di chiusura, finalizzata a punire gli atti di concorrenza sleale atipici, ovvero non espressamente disciplinate dalle norme sopra menzionate. I presupposti di applicabilità di tale fattispecie di concorrenza sleale sono:
- la contrarietà alla correttezza professionale, interpretata dalla giurisprudenza prevalente con riferimento ai principi etici generalmente seguiti dagli imprenditori;
- l’idoneità a danneggiare il concorrente; a tal fine la giurisprudenza ritiene sufficiente che l’atto sia idoneo a produrre il danno, indipendentemente dal fatto che il danno effettivamente si verifichi (illecito di pericolo), elemento quest’ultimo che rileva solo ai fini risarcitori.
Rientrano in tale categoria generale di condotte illecite:
- il mendacio concorrenziale e la pubblicità ingannevole (v. par. 5.1);
- lo storno di dipendenti (v. par. 5.2);
- la concorrenza di ex dipendenti e collaboratori (v. par. 5.3);
- la sottrazione di segreti aziendali e informazioni riservate (v. par. 5.4);
- ribassi di prezzo e vendite sottocosto (predatory pricing), (v. par. 5.5);
- il boicottaggio (v. par. 5.6);
- la violazione di esclusiva (v. par. 5.7);
- la concorrenza parassitaria (v. par. 5.8);
- la violazione di norme pubblicistiche (v. par. 5.9);
5.1. Il mendacio concorrenziale e la pubblicità ingannevole.
Si ha mendacio concorrenziale nel caso in cui venga inviato qualsiasi messaggio rivolto al pubblico dei consumatori che sa idoneo ad indurli in errore, facendogli compiere scelte che altrimenti non avrebbero fatto. L’inganno deve quindi influire sulle scelte d’acquisto del consumatore medio, ovvero avere ad oggetto fatti specifici attinenti alle caratteristiche dei prodotti, la loro natura e composizione, il metodo e la data di fabbricazione, la quantità, etc.
Sono invece ritenute dalla giurisprudenza generalmente lecite, in quanto inidonee ad ingannare il consumatore medio, le vanterie generiche, le affermazioni iperboliche, le palesi esagerazioni prive di apprezzamenti screditanti nei confronti dei concorrenti (dolus bonus).
Sulla pubblicità ingannevole, si rinvia all’apposito approfondimento contenuto in altro articolo, quando invece il messaggio pubblicitario riguarda la promozione di beni e servizi offerti al consumatore, si applicano gli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo, in tema di pratiche commerciali scorrette.
5.2. Lo storno di dipendenti (rinvio)
Un’altra fattispecie di concorrenza sleale rientrante nell’ambito dell’art. 2598 n. 3 c.c. è il c.d. storno di dipendenti, ovvero l’acquisizione di lavoratori operanti in un’altra impresa concorrente, effettuata con l’intento di danneggiare quest’ultima.
Su questo tema ci siamo specificamente soffermati in un altro articolo, al quale si rimanda.
5.3. La concorrenza di ex dipendenti e collaboratori (rinvio)
Costituisce altresì un atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. quella dell’ex dipendente o collaboratore il quale, cessato il rapporto di lavoro o di collaborazione, eserciti attività lavorativa sfruttando informazioni riservate acquisite nel corso del suo precedente impiego o collaborazione professionale, per sviare la clientela dell’impresa.
Su questo tema ci siamo specificamente soffermati in un altro articolo, al quale si rimanda.
5.4. La sottrazione di segreti aziendali e informazioni riservate
La sottrazione dei segreti aziendali (know-how) di un imprenditore concorrente può essere realizzata attraverso un vero e proprio spionaggio industriale ovvero per il tramite di un dipendente infedele. Spesso l’illecito in questione è collegato alla fattispecie dello storno dei dipendenti , dato che tale obiettivo è il più delle volte raggiungibile solo attraverso chi fa o ha fatto parte dell’impresa concorrente.
Ai sensi dell’art. 98 del D. lgs. n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale), sono tutelabili come segreto aziendale, in quanto incluse tra i diritti di proprietà industriale, le informazioni che:
- sono soggette al legittimo controllo del detentore, sia esso l’ideatore delle stesse, sia esso colui che è autorizzato ad utilizzarle con il consenso del titolare;
- sono segrete, ovvero acquisibili solo con sforzi non indifferenti, superiori rispetto a quelli che occorrono per effettuare una accurata ricerca;
- hanno valore economico, in quanto è stato necessario anche uno sforzo economico per ottenerle, mentre analogo sforzo economico sarebbe stato richiesto presumibilmente per duplicarle;
- sono sottoposte a misure di segretezza, con particolare riferimento sia ad una protezione fisica, assicurata da sistemi di protezione adeguati, sia ad una protezione giuridica, assicurata da una informazione adeguata, data ai terzi che vengono in contatto con le informazioni, sul carattere riservato e sulle necessità che venga mantenuto tale.
Ai sensi dell’art. 99 del Codice della proprietà industriale, il legittimo detentore delle informazioni aziendali ed esperienze tecnico industriali aventi i requisiti di cui sopra ha il diritto di vietare ai terzi, salvo il proprio consenso, di acquistare, rivelare a terzi od utilizzare in modo abusivo tali informazioni ed esperienze, salvo il caso in cui siano state acquistate in modo indipendente dal terzo.
L’art. 99 del Codice della proprietà industriale, fa peraltro, salva la disciplina della concorrenza sleale; ciò consente di tutelare ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. anche quelle informazioni aziendali
che, pur non avendo i requisiti per essere considerate segrete, previsti dall’art. 98 Codice della proprietà industriale – ad esempio perché le informazioni non siano adeguatamente protette – sono comunque riservate, in quanto appartenenti al know-how aziendale, aventi valore economico e tali da consentire a chi le utilizzi un vantaggio parassitario a danno del legittimo detentore. E’ il caso, ad esempio, delle informazioni circa la politica aziendale, degli elenchi clienti, delle condizioni contrattuali applicate alla clientela, delle informazioni concernenti i prezzi di vendita, etc.
L’acquisizione di tali informazioni riservate ed il loro utilizzo per danneggiare un concorrente, ad es. attraverso sviamento di clientela, o storno di dipendenti, costituisce quindi atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c.
5.5. Ribassi di prezzo e vendite sottocosto (predatory pricing)
L’offerta di prodotti o servizi a prezzi inferiori a quelli di mercato rappresenta una tipica manovra concorrenziale, con effetti tendenzialmente favorevoli anche per i consumatori. In linea generale, dunque, la politica commerciale del ribasso dei prezzi, quando non sia frutto di specifiche violazioni di legge e non avvenga a condizioni sistematicamente non remunerative, è perfettamente lecita ed anzi meritevole di apprezzamento sotto il profilo economico, in quanto rappresenta una delle modalità fondamentali attraverso le quali si attua il principio della libera concorrenza.
Al di fuori di un sistema di prezzi imposti e fatta eccezione per i casi di vendita sottocosto, l’offerta di prodotti analoghi a quelli di un concorrente a prezzi competitivi non costituisce atto di concorrenza sleale, poiché quando una nuova società si affaccia sul mercato e si presenta a clienti di altre ditte, è normale che cerchi di offrire condizioni più vantaggiose e si informi anche dagli stessi clienti dei prezzi e delle condizioni applicate dalle ditte concorrenti, per concedere un trattamento migliore.
Tuttavia, in determinate circostanze i ribassi di prezzo possono dar luogo ad atti di concorrenza sleale. Una particolare fattispecie di concorrenza sleale riguardante il prezzo è quella consistente nella c.d. vendite sottocosto (predatory pricing) che, a determinate condizioni, sono in grado di produrre un’alterazione della concorrenza sul mercato.
Tale comportamento – che può essere tenuto da un imprenditore che operi già in un mercato tendente al monopolio, o che intenda conquistare e successivamente rafforzare una posizione dominante – è illecito in quanto in tal modo l’imprenditore “dominante”, in ragione della fisiologica maggiore disponibilità di risorse rispetto ai concorrenti “minori”, è in grado di decidere di applicare prezzi a sé sfavorevoli (cd. non remuneratori) accettando di subire perdite economiche, al fine di impedire l’accesso al mercato di nuovi concorrenti o allo scopo di escludere quelli esistenti.
Affinché l’applicazione di prezzi inferiori possa essere considerato come atto di concorrenza sleale illecito, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c. è necessario che il ribasso:
- sia molto consistente, ovvero inferiore al costo di produzione del prodotto;
- sia posto in essere da un’impresa in posizione dominante, che, in tal modo, frapponga barriere all’ingresso di altri concorrenti sul mercato;
- sia praticato allo scopo di eliminare dal mercato la concorrenza, per poi rialzare i prezzi approfittando della situazione di monopolio così venutasi a determinare.
Al verificarsi di tali presupposti, la vendita sottocosto è sanzionabile anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), in quanto fattispecie di abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 3 L. n. 287/1990; essa infatti, mentre non può considerarsi, di per sé, sfavorevole ai consumatori e al mercato, provoca un danno nel momento in cui conduce alla soppressione della concorrenza.
Sono invece considerate lecite le vendite sottocosto giustificate sul piano economico aziendale e commerciale da situazioni contingenti, come quelle consistenti in iniziative promozionali temporanee ed occasionali (ad es. le vendite di fine stagione o promozionali). Il D.P.R. n. 218/2001 considera altresì lecite le vendite sottocosto quando si tratti di prodotti, deperibili, difettati o obsoleti, o siano effettuate in particolari ricorrenze, festività o simili.
Una particolare vendita sottocosto, generalmente posta in essere dalla grande distribuzione e considerata illecita, è quella che ha ad oggetto i c.d. prodotti civetta, cioè, prodotti solitamente di grandi marche, il cui fine è di richiamare la clientela per poi venderle principalmente altri prodotti.
5.6. Il boicottaggio
Con il termine boicottaggio ci si riferisce a condotte finalizzate ad ostacolare o bloccare i rapporti commerciali di un concorrente, e dunque la sua presenza sul mercato.
Si distingue, in particolare, il boicottaggio primario, che si ha quando uno o più soggetti rifiutano spontaneamente, sulla base di accordi comuni, di contrattare con il terzo, dal boicottaggio secondario, caratterizzato dalla condotta di uno o più soggetti (promotori) consistente nell’indurre altri soggetti (esecutori) a non intrattenere rapporti con un concorrente dei primi (boicottato).
Il boicottaggio può essere determinato da comportamenti concordati tra più imprese (c.d. boicottaggio collettivo) ovvero da un’unica impresa (c.d. boicottaggio individuale). Una ipotesi di boicottaggio collettivo secondario si ha, ad es., nel caso in cui una pluralità d’imprenditori riuniti in una associazione di categoria impedisca che le imprese associate stabiliscano rapporti con operatori che non appartengono all’associazione stessa oppure che non soddisfano particolari requisiti unilateralmente posti dall’associazione e privi di giustificazione.
Secondo la giurisprudenza prevalente, il boicottaggio che si concretizzi in uno spontaneo rifiuto di contrattare è lecito, espressione di autonomia contrattuale (c.d. boicottaggio primario individuale), mentre è illecito il rifiuto di intrattenere con un determinato soggetto relazioni commerciali, ove sia il frutto di una preordinata manovra fra una pluralità di imprenditori volta ad eliminare il boicottato dal mercato (c.d. boicottaggio secondario).
In questa prospettiva, si ritiene che nel boicottaggio l’idoneità al danneggiamento dell’altrui azienda, richiesta dall’art. 2598, n. 3 c.c., non possa ritenersi esistente in via presuntiva sulla sola base della maggiore onerosità dell’acquisto del prodotto, di cui sia rifiutata la vendita, né sulla supposta inferiore qualità dell’analogo articolo offerto dalle imprese concorrenti, in quanto l’accertata esistenza e accessibilità di prodotti alternativi sul mercato sono sufficienti a garantire la permanenza attiva e proficua di altre imprese; d’altra parte, le differenze di qualità riscontrabili in prodotti similari e il divario dei relativi prezzi devono considerarsi normali in un sistema economico improntato alla libertà di commercio e al confronto fra le imprese del medesimo settore.
Si ritiene altresì che il rifiuto a contrattare sia illecito, qualora:
- il rifiuto sia irragionevole e derivi da un accordo specifico finalizzato unicamente ad estromettere dal mercato un concorrente (rifiuto concordato);
- il rifiuto provenga da un’impresa che, pur senza essere monopolista legale (nel qual caso avrebbe l’obbligo a contattare, ai sensi dell’art. 2597 c.c.), goda sul mercato di una posizione dominante, cioè tale da rendere comunque il rifiuto causa di ostacolo o esclusione dal mercato (art. 3 L. 287/1990 e 102 TFUE).
5.7. La violazione di esclusive contrattuali
L’oggetto della manovra concorrenziale può consistere anche nel sistema di distribuzione organizzato dall’imprenditore attraverso la concessione di esclusive per la vendita di determinati prodotti.
Secondo la giurisprudenza prevalente, la violazione dell’altrui esclusiva –anche se accompagnata dalla conoscenza di quest’ultima – non integra di per sé un atto di concorrenza sleale. Non è quindi illecita ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. la vendita di prodotti con lo stesso marchio di parte di un soggetto terzo all’accordo distributivo, nella zona per la quale altro soggetto è concessionario con diritto di esclusiva (violazione d’esclusiva c.d. pura), salvo che la violazione dell’esclusiva al contempo non realizzi anche una contraffazione di marchio.
Sono invece considerati illeciti i comportamenti del terzo che assuma iniziative di carattere emulativo, come la sistematica vendita di merci nella zona esclusiva riservata ad un concorrente, mediante procacciamento clandestino del prodotto ovvero senza alcuno scopo di utile diretto, ma in funzione esclusivamente aggressiva verso il concorrente esclusivista.
Si è pertanto affermato che il concessionario, il quale lamenti l’inadempimento del concedente concretizzatosi nella stipulazione di altro contratto di concessione con un terzo, non dispone di azione contrattuale contro quest’ultimo, ma può valersi del divieto di atti di concorrenza sleale qualora risulti che il terzo era consapevole dell’esistenza dell’altrui esclusiva e sia entrato nel mercato sfruttando in maniera parassitaria l’avviamento realizzato dal primo concessionario.
La giurisprudenza ha altresì ritenuto che, nel caso della distribuzione selettiva – ovvero qualora l’esclusiva venga utilizzata per creare una rete distributiva di cui fanno parte solo distributori selezionati sulla base di criteri specifici, imposti dal fornitore per garantire un alto livello quantitativo del servizio o dell’assistenza ai clienti, relativamente a prodotti particolarmente sofisticati o ricercati, che richiedono notevoli investimenti sotto il profilo del marketing o in servizi di assistenza (ad esempio i prodotti dell’alta moda o i computers) – gli atti dei terzi che, nonostante ne fossero a conoscenza, vendano i prodotti commercializzati con tale sistema distributivo ma a condizioni e modalità diverse, possono essere considerati sleali ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c.
5.8. La concorrenza parassitaria
La concorrenza parassitaria ricorre nel caso di una costante e ripetuta imitazione di ogni iniziativa intrapresa dal concorrente, a prescindere dal rischio di confusione (altrimenti tale fattispecie viene ricondotta all’art. 2598 n. 1 c.c. (v. par. 3).
Costituisce concorrenza parassitaria, dunque, la commissione di diversi atti, ripetuti nel tempo, d’imitazione delle iniziative del concorrente. Costituisce concorrenza sleale parassitaria, ad es., l’atto dell’operatore il quale venda come propri i prodotti fabbricati da altri, dopo aver provveduto alla sostituzione del marchio, o utilizzi materialmente un prodotto altrui, già immesso nel mercato, per estrarne delle copie.
L’elemento che contraddistingue la concorrenza parassitaria è il tempo, inteso non nel senso della concentrazione o diluizione dell’attività di concorrenza, bensì di dinamismo produttivo e commerciale delle due imprese concorrenti, l’una delle quali si pone sulle orme dell’altra in modo sistematico e continuativo. Se lo sfruttamento sistematico del lavoro e delle creatività altrui viene conseguito attraverso una pluralità di atti succedutisi nel tempo, si configura un’ipotesi di concorrenza parassitaria c.d. diacronica; se, invece, tale sfruttamento ha luogo attraverso una pluralità di atti o un comportamento globale posti in essere contemporaneamente, si verte in ambito di concorrenza parassitaria sincronica.
Secondo la giurisprudenza prevalente, è illecita la concorrenza parassitaria qualora, da un lato, un imprenditore, con un certo dispendio di energie umane e finanziarie, compia apprezzabili progressi nel suo settore ed offra ai consumatori prodotti di una certa qualità e di un certo prezzo e, dall’altro, un concorrente sfrutti tale progresso o, comunque, i risultati degli sforzi inventivi ed innovativi del rivale, procedendo su una strada già tracciata, ma col vantaggio di offrire prodotti analoghi a prezzi migliori.
In considerazione delle necessità operative del mercato, si esclude la ricorrenza della concorrenza parassitaria:
- quando la somiglianza esistente di fatto tra i prodotti di un imprenditore e quelli del concorrente non dipende dalla pedissequa riproduzione di caratteri originali ed inerisce, invece, ad aspetti comuni, ormai standardizzati e rinvenibili in ogni prodotto di quel tipo: l’imitazione può considerarsi illecita solo se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente o dall’ultima e più significativa di esse;
- nel caso di imitazione di modelli altrui che siano di pubblico dominio;
- ogni qualvolta l’impresa che entri per la prima volta sul mercato copi una gamma di prodotti già stabilmente presenti nella produzione delle imprese di settore, se il new comer non si limiti ad una copiatura pedissequa, ma realizzi le diversificazioni estetiche accessorie per evitare confusione tra i suoi e gli altri prodotti;
- nel caso in cui l’imprenditore faccia inserzioni pubblicitarie nelle maggiori e più diffuse riviste specializzate e in settimanali nei quali vi sia un altissimo numero di inserzioni, ancorché le medesime riviste ospitino la pubblicità di un concorrente;
- nel caso di imitazione dei vari aspetti formali di un prodotto del concorrente.
La pubblicità parassitaria, per essere contraria alla correttezza professionale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., deve consistere nello sfruttamento sistematico e continuativo, in materia pubblicitaria, degli altrui studi, spese di preparazione e presentazione e nell’utilizzazione di idee già sperimentate, così da evitare il rischio dell’insuccesso e da contenere i costi di gestione. La valutazione della natura parassitaria deve essere compiuta alla stregua dell’oggetto dell’informazione pubblicitaria, in vista della possibilità ch’essa costringa gli operatori ad adottare messaggi di tenore analogo.
5.9. La violazione di norme pubblicistiche
Anche la violazione di norme di tipo pubblico (ad es. penali, fiscali, urbanistiche etc.) può integrare una condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., dato che l’impresa che viola tali norme, evitando gli oneri e i costi derivanti dal rispetto di tali norme, può procurarsi un vantaggio concorrenziale illecito a danno delle imprese competitors.
La giurisprudenza è tuttavia incline ad un orientamento piuttosto restrittivo in proposito, ritenendo che la sola violazione di norme pubblicistiche non implica necessariamente, attesa la moltitudine di norme che incidono sullo svolgimento dell’attività imprenditoriale, il compimento di un atto di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 c.c. n. 3.
Occorre infatti distinguere tra norme che sono rivolte a porre dei limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, la cui violazione implica sempre un atto contrario ai principi di correttezza professionale e dunque di concorrenza sleale, e norme che impongono dei costi alle imprese operanti sul mercato ( ad es. norme fiscali, prescrizioni igienico-sanitarie, norme che subordinano l’esercizio di determinate attività imprenditoriali all’ottenimento di licenze o di autorizzazioni, implicanti comunque dei costi), la cui violazione può costituire l’antecedente di un atto di concorrenza, fronte di danno concorrenziale, ovvero servire per sostenere un ribasso dei prezzi o misure equivalenti, divenendo in tal caso la violazione della norma di diritto pubblico indirettamente la fonte di un illecito concorrenziale.
In sostanza, occorre dimostrare non soltanto la violazione di norme amministrative, ma anche il compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei diritti del concorrente, mediante malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato. In applicazione di tale principio, la giurisprudenza ha ritenuto responsabile di concorrenza sleale il gestore di una sala cinematografica che aveva notevolmente ampliato la capienza del locale, senza alcuna autorizzazione amministrativa.
6. I rimedi contro gli atti di concorrenza sleale
Il principale rimedio nei confronti di condotte di concorrenza sleale è costituito dalla inibitoria, ovvero la facoltà del soggetto leso di richiedere al Giudice la cessazione della condotta lesiva, indipendentemente dall’accertamento di un effettivo danno patrimoniale e della prova della sussistenza di colpa o dolo in capo all’impresa concorrente. È infatti sufficiente la sussistenza del solo danno potenziale, ovvero la potenziale idoneità, del comportamento posto in essere da parte del soggetto agente, a ledere il concorrente.
In proposito, l’art. 2599 c.c. prevede appunto che è possibile chiedere all’autorità giudiziaria in sede di accertamento di un atto di concorrenza sleale che ne venga impedita la continuazione o ripetizione. La tutela inibitoria ha quindi anche una funzione preventiva, essendo esercitabile anche nell’ipotesi di mero tentativo di concorrenza sleale. il ricorso alla tutela inibitoria è invece escluso quando l’illecito si è già esaurito o è decorso un lungo intervallo di tempo dall’epoca in cui è stato commesso il fatto.
L’inibitoria può essere richiesta anche in via cautelare urgente, ai sensi dell’art. 700 C.p.c., stante la necessità di far cessare nel minor tempo possibile la reiterazione delle condotte ed evitare l’aggravamento del danno; a tal fine, l’impresa lesa dovrà dimostrare l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della relativa norma, ovvero periculum in mora e fumus boni iuris.
L’art. 2599 c.c. prevede altresì che può essere richiesta al Giudice l’eliminazione degli effetti dell’atto di concorrenza sleale, ovvero la ricostruzione della situazione di fatto precedente all’illecito, a prescindere, anche in questo caso, dall’esistenza degli estremi per il risarcimento del danno come pure della ricorrenza di colpa o dolo dell’impresa concorrente.
Il Giudice potrà quindi emettere un ordine avente ad oggetto, a seconda dei casi, la distruzione o il ritiro dal commercio di prodotti o di altri oggetti (come ad es. cartelloni pubblicitari, etichette, prodotti costituenti imitazione servile, materiali pubblicitari etc.), oppure il compimento di determinati atti, come ad es. la diffusione di annunci correttivi.
L’art. 2600 c.c. prevede infine che l’impresa può chiedere il risarcimento del danno, nella duplice componente del danno emergente e del lucro cessante.
Il rimedio del risarcimento del danno presuppone che l’atto di concorrenza sleale sia compiuto con dolo o colpa. Nel primo caso, incombe sul soggetto attivo l’obbligo di risarcire la vittima: nell’altro, il soggetto attivo è tenuto a rimborsare l’arricchimento, secondo quanto disposto dall’art. 2041 c.c., sussistendo per il concorrente un danno derivato dalla perdita di clientela e mancando una giusta causa per l’arricchimento costituito dai guadagni realizzati mediante la clientela altrui.
La colpa, secondo la disciplina della concorrenza sleale, assume il significato di compimento cosciente e volontario di un atto sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c. da parte di chi non provi che non conosceva o non poteva conoscere secondo l’ordinaria diligenza, richiesta per la sua attività professionale, che la condotta tenuta integrasse gli estremi dell’illecito.
L’ultimo comma dell’art. 2600 c.c. prevede che la colpa, una volta accertato l’atto illecito, è presunta; in tal modo il soggetto leso dovrà dimostrare l’esistenza della condotta lesiva, il danno subìto e il nesso di causalità fra la condotta illecita e l’evento lesivo, essendo sgravato dall’onere di provare l’elemento psicologico in capo all’impresa agente.
E’ invece a carico della parte interessata provare di aver subìto uno specifico pregiudizio. La quantificazione del danno, nelle sue voci di danno emergente e lucro cessante, è alquanto problematica da dimostrare per il danneggiato, tanto che è frequente il ricorso alla liquidazione equitativa.
Il danno emergente potrà essere costituito dalle spese sostenute per opporsi all’illecito (ad es. le spese pubblicitarie sostenute per reagire ad un’attività denigratoria, le spese necessarie all’acquisizione della documentazione probatoria dell’illecito e quelle relative all’assistenza legale extragiudiziale), oppure negli investimenti pubblicitari resi vani a causa dell’atto di concorrenza sleale.
Il lucro cessante può invece essere costituito dal calo o mancato incremento del fatturato dell’impresa a causa dell’illecito, in rapporto all’utile conseguito dal concorrente, e dal discredito sofferto presso i consumatori che hanno ricevuto un prodotto simile ma di qualità diversa rispetto a quello richiesto.
Il secondo comma dell’art. 2600 c.c. prevede poi la possibilità che il Giudice ordini la pubblicazione della sentenza di condanna. Tale provvedimento costituisce una sanzione autonoma, mediante la quale il pubblico viene informato del ripristino del diritto leso, eliminando così gli effetti conseguenti all’illecito e prevenirne di ulteriori e futuri, indipendentemente dall’esistenza di un danno risarcibile. In proposito vi è discrezionalità del Giudice nel decidere le forme di pubblicazione, purché proporzionate ai danni conseguenti dalla condotta anticoncorrenziale.
Infine, ai sensi dell’art. 2601 c.c., qualora gli atti di concorrenza sleale realizzati abbiano pregiudicato gli interessi di una categoria professionale, la repressione degli stessi spetta anche alle associazioni o enti che rappresentino tale categoria. Nella pratica, l’iniziativa delle associazioni professionali è particolarmente frequente a difesa di denominazioni d’origine controllata, atti di denigrazione e di pubblicità menzognera o comparativa scorretta che arrecano danno ad un’intera categoria di imprese, in relazione alla vendita di prodotti a prezzi così bassi da turbare l’equilibrio del mercato o per illeciti antitrust.
Come per tutte le azioni derivanti da fatto illecito, il termine di prescrizione per l’azione di concorrenza sleale è di 5 anni a decorrere dal verificarsi del fatto illecito.
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Avv. Valerio Pandolfini
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