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La concorrenza sleale per storno di dipendenti

14 Marzo 2021/in Concorrenza Sleale, Contratti commerciali, News

È lecito assumere dipendenti che prestavano la propria attività presso un’impresa concorrente, magari dotati di professionalità e know-how preziosi? La mera assunzione di dipendenti di un’azienda concorrente non è sufficiente ad integrare un atto di concorrenza sleale; infatti, qualunque impresa, nell’ambito della libertà di iniziativa economica sancita dal nostro ordinamento, è libera di assumere dipendenti che hanno lavorato presso un’impresa concorrente, adottando le strategie e tecniche che ritenga più efficaci e opportune per avvantaggiarsi sui propri competitor. Lo storno di dipendenti è vietato solo se attuato con la precisa intenzione di danneggiare l’impresa concorrente, alla luce di una serie di indici oggettivi, individuati dalla giurisprudenza. In tal caso, è possibile ottenere la cessazione della condotta illecita e il risarcimento del danno.

Indice

1. L’assunzione di dipendenti da parte di un’impresa concorrente: cosa è lecito e cosa non lo è?

Spesso la capacità competitiva e concorrenziale di un’impresa si basa sulle capacità e la professionalità dei propri dipendenti e collaboratori. Quanto più un’impresa è dinamica e innovativa, tanto più facilmente l’originalità dei suoi processi produttivi, che ne costituisce il fattore di successo, si fonda su conoscenze, competenze tecniche, abilità specifiche dei propri lavoratori, che l’impresa stessa ha formato e sviluppato nel corso degli anni, in prospettiva della propria affermazione e crescita nel mercato.

In questo contesto, si verificano sempre più spesso – come confermano le numerose notizie di cronaca e decisioni giurisprudenziali – situazioni in cui un’impresa – specialmente se si affaccia per la prima volta sul mercato – cerca di accaparrarsi lavoratori che hanno lavorato presso un’altra azienda concorrente, dotati di particolari competenze – in quanto destinatari di incarichi strategici e/o dotati di professionalità specialistiche (c.d. core workers) – approfittando magari delle condizioni di difficoltà della concorrente stessa.

In questo modo, un’impresa riesce a penetrare immediatamente nel mercato, approfittando delle conoscenze dei lavoratori acquisiti, con sforzi, costi e tempi assai inferiori a quelli che servirebbero per formare gli stessi dipendenti da zero; inoltre, è in grado di offrire i propri prodotti o servizi ad un prezzo più competitivo, dato che su di essi non incidono i costi di ricerca e sviluppo che avrebbe dovuto sostenere, e che sono stati sostenuti dall’altra impresa “saccheggiata” dei propri core workers, difficilmente sostituibili.

Tali condotte non sono sempre illecite. Vigono infatti nel nostro ordinamento i principi, costituzionalmente garantiti, della libera circolazione del lavoro (art 4 Cost.) e della libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.); inoltre, i lavoratori sono liberi di scegliere l’impresa con cui collaborare e di recedere dal contratto di lavoro (art. 2118 c.c.).

Pertanto, in via generale qualunque impresa, nell’ambito della libertà di iniziativa economica sancita dal nostro ordinamento giuridico, è libera di assumere dipendenti che hanno lavorato presso un’impresa concorrente, adottando le strategie e tecniche che ritenga più efficaci e opportune per avvantaggiarsi sui propri competitor. Come pure qualunque lavoratore è libero di dimettersi dall’impresa in cui lavorava e iniziare a lavorare presso un’impresa concorrente (salvo che abbia stipulato un patto di non concorrenza, con il quale si sia impegnato a non svolgere, una volta cessato il rapporto, attività in concorrenza con il datore di lavoro per un determinato periodo di tempo).

Tuttavia, tali comportamenti diventano illeciti se integrano gli estremi della concorrenza sleale per storno di dipendenti. L’art. 2598, comma primo, n. 3) c.c., vieta infatti a un’impresa di esercitare la propria attività – e quindi in questo caso di assumere dipendenti di un concorrente – in modo “non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

2. I criteri utilizzati dalla giurisprudenza per valutare lo storno di dipendenti

Nel tempo, la giurisprudenza ha identificato il discrimine tra la lecita acquisizione di lavoratori da parte di un’impresa, frutto di una dinamica fisiologica del mercato e ciò che invece costituisce un illecito atto di concorrenza sleale, sotto forma di storno di dipendenti, nel c.d. animus nocendi, ovvero nell’intento di danneggiare l’impresa concorrente.

Tale presupposto viene tuttavia inteso non come  elemento psicologico, bensì come situazione oggettiva, che si realizza qualora, all’esito di un analisi delle specificità di ogni singolo caso, si verifichino una serie di indici specifici, dai quali risulti che:

  • da una parte, l’impresa (stornata) venga messa in difficoltà dalla perdita dei suoi dipendenti o collaboratori – in quanto dotati di competenze particolarmente qualificate, tali da renderli insostituibili o comunque difficilmente sostituibili – subendo una perdita nella propria attività di offerta di beni o servizi non riassorbibile attraverso un’adeguata organizzazione d’impresa;
  • dall’altra, l’impresa (stornante), attraverso i nuovi dipendenti, si impossessi di conoscenze tecniche specialistiche senza affrontare i tempi e i costi legati all’investimento in ricerca e in formazione che sarebbero stati necessari.

In altri termini, lo storno di dipendenti è illecito quando, in base a una serie di circostanze, la sottrazione di dipendenti altrui avviene con modalità tali da non potersi giustificare se non supponendo nell’impresa l’intento di danneggiare l’azienda concorrente e di impedire a quest’ultima di continuare a competere, disgregandone l’efficienza dell’organizzazione aziendale, in modo da ottenere un vantaggio competitivo indebito.

Secondo la giurisprudenza, sono considerati indici presuntivi dello storno illecito principalmente:

  • la simultaneità del passaggio di un numero rilevante di dipendenti da un’impresa all’altra;
  • la qualifica dei dipendenti e la loro particolare utilità per l’impresa concorrente danneggiata;
  • la non agevole sostituibilità per l’impresa dei dipendenti stornati;
  • i metodi adottati per convincere i dipendenti a passare a un’impresa concorrente (ad esempio, la denigrazione del datore di lavoro danneggiato e l’induzione a violare l’obbligo di fedeltà in costanza del rapporto di lavoro dei dipendenti stornati);
  • le dimissioni senza osservare il periodo di preavviso da parte dei dipendenti stornati;
  • il medesimo settore di impiego assegnato al lavoratore stornato presso il nuovo datore di lavoro;
  • la sottrazione di informazioni e documenti aziendali da parte dei dipendenti stornati;
  • l’immediata destinazione dei lavoratori stornati alla frequentazione della medesima clientela.

3. I casi di storno di dipendenti

 In definitiva, lo storno di dipendenti viene considerato illecito se un’impresa si appropria delle risorse umane di un’altra impresa concorrente altrui con modalità:

  • non fisiologiche, in quanto potenzialmente rischiose per la continuità aziendale dell’imprenditore che lo subisce, tenuto conto, da un lato, delle normali dinamiche del mercato del lavoro in un preciso contesto economico e, dall’altro, delle condizioni interne dell’impresa;
  • non prevedibili, in grado cioè di provocare alterazioni non immediatamente riassorbibili, ed aventi un effetto shock sull’ordinaria attività di offerta di beni o di servizi dell’impresa che subisce lo storno;
  • che violano la disciplina giuslavoristica e/o i diritti di proprietà intellettuale dell’impresa concorrente.

In tale ottica, sono state sanzionate come storno di dipendenti in particolare due situazioni:

  • il c.d. storno di staff, ovvero l’acquisizione di un gruppo di lavoratori esperti in un determinato settore in una zona determinata, attuata allo scopo di crearsi un vantaggio competitivo svuotando l’organizzazione concorrente di sue specifiche possibilità operative;
  • il c.d. “cherry picking”, cioè l’assunzione di collaboratori dell’impresa concorrente dotati di una specifica competenza, in quanto provenienti da uno specifico settore e con un ruolo apicale nel comparto interessato.

4. I rimedi in caso di storno di dipendenti

L’impresa che abbia subìto lo storno illecito dei propri dipendenti, una volta dimostrata la concorrenza sleale, può chiedere il risarcimento del danno all’impresa concorrente .

L’impresa deve quindi assolvere un duplice onere probatorio; deve infatti dimostrare che:

  • lo storno dei propri dipendenti è illecito, in quanto appunto atto di concorrenza sleale da parte dell’altra azienda;
  • per effetto dello storno, ha subìto un danno, sotto forma di danno emergente e/o lucro cessante.

È inoltre possibile chiedere, anche in via cautelare urgente, la cessazione immediata delle condotte illecite, cioè il divieto dei dipendenti stornati di prestare attività in favore dell’altra azienda per un certo periodo di tempo.

Tale rimedio risulta anzi spesso  l’unico idoneo a tutelare efficacemente l’impresa, dato che in caso di storno di dipendenti il danno, tipicamente rappresentato dalla perdita di posizioni di mercato, è spesso irreversibile e difficilmente monetizzabile.

Il periodo di tempo durante il quale può essere impedito ai dipendenti stornati di lavorare presso l’azienda concorrente è pari a quello che stato necessario a quest’ultima per sviluppare autonomamente il know-how sottratto tramite i dipendenti, nonché per formare questi ultimi compiutamente (generalmente) non inferiore ad anni due.

 

Avv. Valerio Pandolfini

Avvocato Diritto Societario 

Per altri articoli  di approfondimento su tematiche attinenti il diritto d’impresa: visitate il nostro  blog.

 


Le informazioni contenute nel presente articolo hanno carattere generale e non sono da considerarsi un esame esaustivo né intendono esprimere un parere o fornire una consulenza di natura legale. Le considerazioni e opinioni riportate nell’articolo non prescindono dalla necessità di ottenere pareri specifici con riguardo alle singole fattispecie. Di conseguenza, il presente articolo non costituisce un (né può essere altrimenti interpretato quale) parere legale, né può in alcun modo considerarsi come sostitutivo di una consulenza legale specifica.

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