I gruppi di società: contratti infragruppo, responsabilità della holding, amministratori plurisocietari
Il modello del gruppo di società, inizialmente adottato dalle sole realtà multinazionali di maggior rilievo, è oggi una tendenza diffusa in ogni settore imprenditoriale, coinvolgendo anche strutture di dimensioni media e piccola. Secondo una recente statistica, oltre il 40% delle società italiane appartengono ad un gruppo. Il gruppo di società si fonda sull’attività di direzione e coordinamento che la holding esercita nei confronti delle altre società del gruppo, la quale si esplica essenzialmente attraverso la direzione gestionale, l’assistenza finanziaria e l’assistenza tecnico-operativa alle società controllate. Gli artt. 2497 – 2497-septies c.c. disciplinano il gruppo di società dettando una serie di regole in materia di responsabilità, di pubblicità e di motivazione delle decisioni. La prassi di nominare quale amministratore delle diverse società appartenenti al gruppo il medesimo soggetto, in modo da garantire rapidità nell’esecuzione delle azioni strategiche, flusso costante di informazioni e contenimento dei costi, comporta rilevanti problematiche giuridiche.
1. Il gruppo di società
Il modello del gruppo di società, inizialmente adottato dalle sole realtà multinazionali di maggior rilievo, è oggi una tendenza diffusa in ogni settore imprenditoriale, coinvolgendo anche strutture di dimensioni media e piccola. Secondo una recente statistica, oltre il 40% delle società italiane appartengono ad un gruppo.
Il gruppo è un’aggregazione di imprese formalmente autonome e indipendenti ma assoggettate a una direzione unitaria, in quanto sotto l’influenza dominante di una società, denominata capogruppo o holding. Il gruppo è caratterizzato da una antinomia tra realtà economica e posizione giuridica delle singole società: sotto il profilo economico si ha un’unica impresa, sotto il profilo giuridico soggetti distinti e autonomi.
La distinta soggettività giuridica delle società operanti sotto il controllo della holding fa sì che questa rimanga terza rispetto ai rapporti giuridici che le società controllate abbiano posto in essere; sicché i creditori della controllata non hanno titolo per invocare la responsabilità patrimoniale della capogruppo.
Il gruppo consente quindi di fruire più intensamente del beneficio della responsabilità limitata e attua la c.d. diversificazione dei rischi, perché rende fra loro separati i rischi relativi ai vari settori imprenditoriali, impedendo che le avverse vicende di un settore si comunichino al patrimonio destinato agli altri settori o al patrimonio della holding.
Il gruppo societario è caratterizzato dalla possibilità per la capogruppo di esercitare un’attività di direzione e coordinamento delle altre società del gruppo, intesa come indirizzo, gestione, programmazione, organizzazione e controllo delle singole attività aziendali oggetto delle attività del gruppo.
Tale attività è svolta dalla controllante avvalendosi soprattutto della propria posizione di supremazia, derivante dalla partecipazione azionaria, maggioritaria o addirittura totalitaria, nelle società controllate, la quale le consente di nominare (ed eventualmente revocare) gli amministratori di queste ultime e conseguentemente di indirizzare loro direttive.
L’attività di direzione e coordinamento consiste quindi in un flusso costante e sistematico di istruzioni impartite dalla holding alle società del gruppo, consistente in particolare nella:
- predisposizione di piani strategici, industriali, finanziari e di budget;
- emanazione di direttive attinenti alla politica finanziaria e creditizia, le acquisizioni, dismissioni e concentrazioni di partecipazioni/attività;
- formulazione di direttive strategiche e nella verifica della loro esecuzione.
Ai sensi dell’art. 2497-sexies c.c. (introdotto dalla riforma delle società del 2003), la direzione e coordinamento di una società nei confronti di un’altra si presume quando la prima controlla la seconda ai sensi dell’art. 2359 c.c., ovvero quando:
- dispone della maggioranza dei voti nell’assemblea (controllo interno di diritto);
- dispone dei voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea (controllo interno di fatto);
- ha un’influenza dominante in virtù di particolari vincoli contrattuali (controllo esterno).
In particolare, si ha un controllo esterno contrattuale in presenza di particolari clausole in base alle quali l’esercizio dell’attività di uno dei partners viene condizionato, per tutta la durata del rapporto, dall’altro contraente. Ad esempio, si tratta delle clausole che vincolano un’impresa:
- al perseguimento di determinate strategie produttive e di mercato;
- all’adozione di determinati procedimenti di lavorazione o di determinate tecniche di vendita;
- all’uso di determinati materiali con esclusione di altri;
- a produrre o a vendere una determinata quantità (minima o massima) di beni;
- a usare esclusivamente determinati marchi determinate insegne;
- a localizzare in determinate regioni gli stabilimenti di produzione e i negozi o gli uffici di vendita.
Parimenti, sono rivelatrici di un controllo gestorio ex art. 2359 c.c., le clausole che:
- istituiscono vincoli e controlli per la selezione e formazione del personale;
- subordinano la permanenza del rapporto contrattuale al mantenimento di una determinata compagine sociale, ovvero di una determinata composizione dell’organo amministrativo della società controllata;
- condizionano il trasferimento a terzi delle azioni o quote al “gradimento” del partner contrattuale in posizione dominante;
- conferiscono il diritto di designare uno o più membri dell’organo di gestione;
- vincolano l’impresa a non adottare determinate decisioni (ad esempio in materia di sviluppo, investimenti, ecc.) se non con l’assenso preventivo dell’altra o sulla base delle indicazioni e istruzioni di quest’ultima.
Ai fini del controllo azionario (di diritto o di fatto) si computano anche i voti spettanti alle società controllate; quindi il controllo azionario può anche essere indiretto (ad esempio: la società A controlla la società B, che a sua volta controlla la società C; in tal caso, C è controllata indirettamente da A).
Il gruppo di società può essere regolamentato mediante un contratto di coordinamento gerarchico, nel quale vengono individuate le competenze gestionali (piani industriali, di sviluppo, riorganizzazione, espansione etc.) che dalle singole società del gruppo si trasferiscono alla controllante, la quale le esercita in modo accentrato, in funzione degli obiettivi strategici del gruppo.
Ad esempio, nei gruppi integrati in senso orizzontale (tra società operanti nello stesso settore di mercato) il contratto di coordinamento può prevedere diversi target di clientela (ad esempio, alcune società di un gruppo immobiliare si dedicano alla commercializzazione di immobili di prestigio, altre agli immobili ad uso commerciale, etc.); nei gruppi integrati in senso verticale (ogni società opera in uno stadio produttivo diverso) il contratto può prevedere piani di attività e sviluppo produttivo delle controllate e la riserva alla capogruppo di alcune operazioni (ad esempio, negoziare direttamente con le banche l’erogazione dei finanziamenti alle controllate, a condizioni meno onerose).
Al riguardo, al fine di non comprimere l’autonomia della società ed evitare che il vincolo alla capogruppo si perpetui nel tempo, è opportuno che il regolamento del gruppo riconosca alla società vincolata, laddove si verifichino “giuste cause”, la facoltà di sciogliersi da tale legame. La stessa facoltà deve essere riconosciuta alla società madre nei casi in cui l’autonomia delle società figlie non consenta de facto l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento.
2. La direzione e coordinamento della holding e i contratti infragruppo
L’attività di direzione e coordinamento che la holding esercita nei confronti delle altre società del gruppo si esplica essenzialmente attraverso:
- la direzione gestionale;
- l’assistenza finanziaria;
- l’assistenza tecnico-operativa.
L’attività di direzione gestionale della holding si esplica attraverso la nomina (ed eventualmente revoca) degli amministratori delle controllate, nonché attraverso le direttive sulla gestione delle società del gruppo, emanate agli amministratori stessi.
L’attività di direzione e coordinamento della capogruppo consiste in questo caso in un flusso costante e sistematico di istruzioni e direttive impartite alle società del gruppo (tramite i rispettivi organi amministrativi), concernenti piani strategici, industriali, finanziari, di budget etc.
L’assistenza finanziaria alle società del gruppo riguarda la provvista da parte della capogruppo di mezzi finanziari necessari alle controllate (finanziamento c.d. downstream).
Tali finanziamenti vengono erogati con varie finalità, funzionali all’interesse di gruppo quali ad esempio quella di consentire il risanamento di una società o di facilitare l’ottenimento del credito.
Il flusso finanziario può anche essere in senso inverso, cioè da una controllata alla controllante o ad altre società sorelle (finanziamento c.d. upstream), ad esempio con la finalità di migliorare la redditività del gruppo.
Tra le funzioni accentrate spicca, in particolare, quella della tesoreria. In questo ambito viene utilizzato il cash pooling. Per un esame di tale contratto, si rimanda all’apposito articolo pubblicato in questo blog.
Alle società che fanno parte del gruppo si applicano di solito i regolamenti e le procedure interne (standard operating procedures, SOP) della capogruppo. Le SOP contengono le norme che tutte le società del gruppo devono seguire nelle più svariate circostanze in cui è interesse della capogruppo che i comportamenti delle società del gruppo siano uniformi. Ad esempio, le SOP possono regolamentare:
- i principi contabili e di redazione dei bilanci preventivi e consuntivi;
- il tipo e la periodicità delle relazioni finanziarie da inviare alla direzione della capogruppo;
- l’approvazione da parte della capogruppo dei budget delle controllate;
- le deleghe di poteri (che nelle società del gruppo hanno formalmente fonti autonome – CdA, assemblea, amministratori – ma che sostanzialmente promanano dalla capogruppo);
- il tipo di approvazioni che le unità organizzative, anche se costituite in forma societaria indipendente, devono ottenere per determinati atti e contratti;
- le modalità di controllo e di revisione.
3. I service agreements
La holding può svolgere anche attività di assistenza tecnico-operativa alle altre società del gruppo, centralizzando funzioni di carattere gestionale attraverso la prestazione di servizi di varia natura (tecnica, finanziaria, legale, commerciale, fiscale etc.) alle società controllate, direttamente o attraverso altre società del gruppo (c.d. service agreements).
I service agreements prevedono appunto la prestazione di servizi tra le varie consociate o tra la capogruppo e le controllate, i quali vengono svolti in modo accentrato, con la finalità di assicurare l’uniformità di comportamento all’interno del gruppo, con le conseguenti economie di scala e risparmio di risorse.
Così, ad esempio, la holding può redigere i bilanci per tutte le società del gruppo, o operare quale centro specializzato nell’innovazione tecnologica, o per il marketing, il controllo di produzione, l’elaborazione informatica dei dati, etc.
Le forme contrattuali comunemente utilizzate per la disciplina dei rapporti di service infragruppo si differenziano in relazione alle modalità di determinazione del compenso da corrispondersi alla società del gruppo fornitore dei servizi:
- nel service agreement, il compenso viene determinato senza correlazione alcuna con gli oneri sostenuti dalla società fornitrice;
- nel cost-sharing agreement, invece, il compenso è determinato in base alla suddivisione del costo sostenuto dall’impresa fornitrice fra tutte le società del gruppo.
Nel caso dei service agreements assume rilevanza centrale il rapporto di corrispettività tra le prestazioni (scambio di uno o più servizi con corrispettivo) e non vi è una condivisione di risorse aziendali e rischio d’impresa: il rischio è sopportato integralmente dal prestatore. Al contrario, nel caso dei contratti di cost sharing si realizza una vera e propria distribuzione dei costi e del rischio tra le società partecipanti all’accordo, la quale risponde essenzialmente ad una finalità di tipo mutualistico.
Dato il loro potenziale impatto elusivo, i contratti di service infragruppo sono vagliati dall’Amministrazione finanziaria con molta attenzione, al fine di accertare che la loro stipula risponda a logiche di carattere economico e non a esigenze di pianificazione tributaria. Una strumentale alterazione del valore normale dei servizi resi o ricevuti potrebbe, infatti, risolversi nella illegittima riduzione del carico fiscale del gruppo.
Fondamentale è il rispetto del principio dell’inerenza dei servizi infragruppo, il che presuppone l’esistenza di tre requisiti:
- la prestazione della capogruppo in favore della controllata deve essere effettivamente stata erogata;
- la prestazione della capogruppo in favore della controllata deve rispondere ad un effettivo interesse della controllata;
- la controllata deve avere tratto dalla prestazione della capogruppo un effettivo vantaggio, in quanto in assenza del servizio si sarebbe rivolta a terzi indipendenti, sostenendo comunque un costo.
In particolare, nei gruppi multinazionali, le prestazioni di servizi intercompany assumono uno specifico rilievo nell’ottica della pianificazione fiscale, in quanto sono utilizzati spesso come strumento per trasferire utili da una società all’altra (transfer pricing). In questo ambito, ai sensi degli artt. 110 e 9 TUIR, il corrispettivo contrattualmente previsto deve essere congruo, ovvero parametrato al valore normale della prestazione; in altri termini, gli oneri corrisposti a fronte di servizi convenuti fra società appartenenti al medesimo gruppo di imprese devono essere valutati in base al prezzo mediamente praticato per prestazioni della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza.
La snellezza e la semplicità organizzativa della controllata – in sé insindacabili riflesso di un’insindacabile scelta imprenditoriale – giustificano la dipendenza della società da fornitori di servizi esterni, ma non il ricorso come fornitore esterno rispetto alle altre società del gruppo, salvo che queste non operino a condizioni concorrenziali. L’entità del corrispettivo per i servizi della controllante deve essere quindi in linea con i prezzi di mercato.
4. Gli oneri pubblicitari
Al fine di garantire un’adeguata tutela informativa per i soci e i terzi, l’art. 2497-bis c.c. prevede che la società deve indicare la propria soggezione all’altrui attività di direzione e coordinamento negli atti e nella corrispondenza, nonché mediante iscrizione presso un’apposita sezione del registro delle imprese.
Tale adempimento è richiesto a un componente dell’organo amministrativo della società soggetta all’altrui attività di direzione e coordinamento, non essendo peraltro previsto un termine preciso entro cui provvedere. Non sono invece previsti specifici obblighi in capo ai soggetti controllanti (o comunque esercitanti attività di direzione e coordinamento) in relazione agli atti ed alla corrispondenza.
La ratio della disposizione in esame è di rendere conoscibile ai terzi, che entrano in contatto con le varie società appartenenti al gruppo, il fatto che la società sia soggetta all’altrui potere di direzione e coordinamento. In tal modo, i terzi potranno valutare l’incidenza e gli effetti di tale soggezione.
La norma in esame prevede inoltre, a carico degli amministratori, una responsabilità per i danni che ai soci e ai terzi possono derivare per l’omessa pubblicità della soggezione all’attività di direzione e coordinamento e della sua cessazione (art. 2497-bis, comma 3, c.c.). Tale responsabilità è funzionale alla tutela dell’affidamento dei terzi.
L’art. 2497-ter c.c. prevede altresì un generale obbligo di motivazione delle operazioni «influenzate» dalla società capogruppo. Tale obbligo non si riferisce alle ragioni di convenienza di una data operazione per la società singolarmente considerata, ma al modo in cui le scelte strategiche della società eterodiretta siano state influenzate dalla società che svolge attività di direzione e coordinamento, nonché agli interessi – del gruppo totalmente considerato e non degli amministratori – che abbiano influenzato le decisioni.
5. La responsabilità della holding
Il gruppo di imprese si basa sul principio dell’interesse di gruppo, ovvero il fatto che la gestione di una società del gruppo può essere legittimamente influenzata dalla capogruppo, la quale persegue, appunto, una politica di gruppo.
L’attività di direzione e coordinamento della holding, che è in generale legittima e fisiologica, non può tuttavia essere esercitata in modo abusivo, in modo cioè da compromettere totalmente l’interesse imprenditoriale delle singole società controllate, svuotandone il patrimonio o diminuendone la capacità reddituale senza che al contempo tali deficit siano compensati da vantaggi pregressi o futuri. Non è infatti consentito alla holding di perseguire politiche di gruppo che pregiudichino la redditività e il valore della partecipazione, o l’integrità del patrimonio sociale.
L’art. 2947 comma 1 c.c. prevede in tal senso che la capogruppo è responsabile nei confronti dei soci e dei creditori della società controllata per abuso della direzione unitaria, cioè quando la stessa viola il principio di corretta gestione societaria e imprenditoriale della società controllata.
L’art. 2497, 2° comma, c.c., stabilisce altresì che risponde in solido con la capogruppo chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio.
Più specificamente, in tale ipotesi la capogruppo è obbligata a risarcire i seguenti danni:
- ai soci, il danno consistente nella lesione alla redditività (in termini di frutti e cioè dei dividendi della partecipazione), nonché al valore (con riferimento alla valorizzazione della partecipazione in sede di scambio, ossia sul mercato) della partecipazione sociale;
- ai creditori, il danno consistente nella lesione all’integrità patrimoniale delle società eterodirette.
Il legislatore, peraltro, non specifica quali siano i principi di “corretta gestione societaria ed imprenditoriale” all’interno delle dinamiche di gruppo; pertanto, la concreta individuazione degli stessi è rimessa all’interprete e alla giurisprudenza.
In proposito, si può affermare che la capogruppo deve rispettare gli obblighi generali di amministrare con diligenza e senza conflitti di interessi e gli obblighi specifici che la legge o lo statuto impongono agli amministratori delle società coordinate e dirette, principi richiamati dall’art. 2403, comma 1, c.c. Inoltre, nell’emanare direttive volte a perseguire dell’interesse di gruppo, la capogruppo deve tenere conto delle conseguenze e degli interessi per la singola società diretta e coordinata.
Le direttive della holding devono quindi essere emanate in modo da consentire alle società controllate di produrre utili, garantendo la redditività della partecipazione dei soci di minoranza; la società del gruppo resta infatti pur sempre una società, il cui fine è, ai sensi dell’art. 2247 c.c., la realizzazione di utili da dividere fra i soci. Analogamente, il potere di direzione e coordinamento incontra un limite nell’obbligo di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale previsto a tutela dei creditori della società controllata.
Costituisce invece violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale sia l’imposizione di singole operazioni nell’interesse esclusivo della holding, o di altre società del gruppo, o di terzi e pregiudizievoli per la società che le compie, senza prospettiva di un vantaggio compensativo, sia una politica di sistematica sottrazione di ricchezza ad una o più società del gruppo. Si pensi ai seguenti esempi:
- un accordo di cash pooling finalizzato a drenare la liquidità del gruppo ad esclusivo vantaggio della holding o di una singola società, o ad effettuare finanziamenti infragruppo incompatibili con le condizioni di mercato;
- un contratto di consulenza e fornitura di servizi (amministrativi, contabili, fiscali etc.,) tra la capogruppo e le controllate, che preveda corrispettivi non a condizioni di mercato tali da assorbire gli utili che le società controllate possono conseguire, per trasferirli in capo alla controllante.
L’art. 2947 c.c. prevede tuttavia che non sussiste alcuna responsabilità in capo alla holding se il pregiudizio arrecato trova una compensazione in un vantaggio corrispondente, effettivo e proporzionato al sacrificio sofferto dalla controllata, derivante da altre operazioni previste all’interno della strategia unitaria di gruppo (principio dei vantaggi compensativi).
Se in linea di principio è fisiologico che la capogruppo operi nell’ambito di una logica globale di gruppo, ne discende che anche la valutazione della sua responsabilità deve tener conto di questa logica e che, pertanto, il giudizio sulla sua responsabilità per le direttive impartite alle singole società del gruppo non avvenga sulla base della valutazione della singola operazione, del singolo atto e della singola direttiva, ma in relazione ai programmi, alle strategie e alle politiche complessive adottati dalla capogruppo. Alla società controllante è quindi concesso di provare che il pregiudizio causato ad una singola società ha trovato rimedio nell’ambito delle iniziative da essa assunte.
Per valutare la responsabilità della capogruppo, occorre dunque verificare se il singolo atto negoziale potenzialmente dannoso per la controllata sia o meno compensato da altri effetti positivi derivanti dall’inserimento nel gruppo (ad esempio in termini di economie di scala, maggiore capacità concorrenziale, etc.) o da vantaggi ricollegabili ad altre operazioni infragruppo capaci di arrecare alla controllata un incremento patrimoniale (ad esempio facilitazioni nei finanziamenti, nell’approvvigionamento di materie prime, nella commercializzazione di prodotti con i terzi).
In definitiva, qualora il compromesso tra il perseguimento dell’interesse di gruppo e l’interesse della singola società che ne fa parte venga attuato correttamente, la limitazione dell’autonomia delle società soggette a direzione unitaria può essere accettabile anche per il socio delle controllate, in virtù dei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo; quando invece si verifichi un illecito esercizio del potere della capogruppo, in violazione del criterio della correttezza di gestione, con conseguente depauperamento della società controllata, si impone la tutela dei soci e dei creditori della controllata.
Se, ad esempio, per ragioni strategiche la holding impone ad una società del gruppo di stipulare un contratto che preveda condizioni non vantaggiose, ma poi, sempre nell’ambito del coordinamento globale delle attività del gruppo stesso, procuri a quella medesima società, tramite altri accordi, benefici in grado di compensare le perdite derivanti dal contratto precedentemente concluso, il danno può essere eliminato, appunto “a seguito di operazione a ciò diretta”, come se la controllata venisse indennizzata direttamente dalla capogruppo per il pregiudizio che possa averle procurato la decisione assunta dalla medesima capogruppo.
La giurisprudenza ha così ritenuto che alla capogruppo è consentito di imporre alle controllate decisioni per esse svantaggiose o pregiudizievoli, purché attuate nell’ambito di una coerente politica di gruppo, dalla quale possa ragionevolmente derivare ad esse un vantaggio, sul piano organizzativo, produttivo, commerciale e finanziario, che compensa il pregiudizio subìto.
Tale vantaggio deve essere reale – ovvero, misurabile in termini di maggiori ricavi o minori costi di gestione – diretto, cioè afferente la singola società del gruppo e non il gruppo di società nel suo complesso.
Ad esempio, si è ritenuto che:
- la vendita a prezzi più bassi di quelli di mercato da parte della controllata possa essere compensata dal fatto che la controllante acquisti l’intera produzione;
- il finanziamento effettuato dalla controllata alla controllante a tasso di favore possa essere compensato dalla responsabilità assunta dalla controllante con fideiussioni o lettere di patronage per debiti della controllata;
- l’acquisto di semilavorati dalla controllata a prezzi inferiori a quelli di mercato possa essere compensato da servizi amministrativi, contabili o finanziari effettuati gratuitamente o a condizioni di favore.
In linea generale, il punto di equilibrio tra gli interessi della controllante e delle controllate viene individuato il fatto che le operazioni orchestrate nell’ambito dell’attività di direzione unitaria devono produrre un risultato economicamente neutro per le società eterodirette. Ciò non significa che il saldo algebrico fra operazioni vantaggiose e pregiudizievoli debba essere pari a zero, essendo nella realtà pressoché impossibile che due operazioni, l’una positiva e l’altra negativa per la singola società di un gruppo, producano un identico risultato. Proporzionalità del vantaggio al danno cagionato significa piuttosto che, alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento (e, quindi, all’esito di tutte le operazioni programmate dalla società di vertice nell’ambito della strategia imprenditoriale di gruppo), il saldo delle stesse, calcolato con riferimento alla singola società e al suo patrimonio, non deve risultare negativo.
Peraltro, l’attività d’impresa è, come noto, un’attività dinamica e i programmi imprenditoriali hanno spesso una prospettiva proiettata nel tempo; ciò comporta una scissione cronologica fra la pianificazione delle operazioni infragruppo e il conseguimento dei risultati attesi. In assenza di indicazioni nell’art. 2497 c.c., si pone quindi un duplice problema:
- in quale momento deve essere verificato il “risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento”?
- rilevano solo i vantaggi conseguiti o anche quelli prevedibili?
In proposito, si è osservato che l’esclusione della responsabilità civile della capogruppo per i danni derivanti dalle operazioni pregiudizievoli imposte alle singole eterodirette deve essere subordinata alla sussistenza di vantaggi compensativi effettivi, ossia di vantaggi che, nel momento in cui deve essere valutato il risultato complessivo di gestione nell’ambito dell’attività di direzione unitaria, devono essersi già realizzati.
Ciò non significa, tuttavia, che il vantaggio compensativo debba essere contestuale al momento in cui viene decisa l’operazione pregiudizievole: l’art. 2497 c.c., infatti, non fa riferimento al momento dell’attuazione dell’atto dannoso, ma al “risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento”. Ne consegue che, nel momento in cui vengono predisposti i piani imprenditoriali dalla capogruppo, rilevano i vantaggi prospettati, purché fondatamente prevedibili; la mancanza di responsabilità della capogruppo è subordinata al fatto che gli stessi si siano concretamente verificati nel momento in cui vengono valutati, con riferimento alla singola società, i risultati complessivi della gestione del gruppo.
Ciò comporta altresì che il mancato verificarsi dei vantaggi prospettati, se fa sorgere una responsabilità della capogruppo (sempre che il danno non venga eliminato ex post con un’operazione a ciò diretta), non determina automaticamente una responsabilità degli amministratori delle eterodirette se, al momento della predisposizione dei piani e dell’assunzione della decisione, tali vantaggi erano fondatamente prevedibili.
Come si è visto, infatti, nell’ambito dell’attività di direzione e coordinamento, le conseguenze pregiudizievoli di una operazione svantaggiosa per una società eterodiretta possono venire neutralizzate da operazioni di segno opposto e che, quindi, sulla base di una valutazione ex ante, tale operazione può considerarsi legittima, perché l’effetto negativo dalla stessa prodotto è destinato, nel disegno imprenditoriale di gruppo, a venire compensato da un risultato positivo.
Ne consegue che gli amministratori delle società eterodirette che diano attuazione a direttive pregiudizievoli, adottate sulla base di piani strategici, industriali e finanziari di gruppo che prevedano vantaggi fondatamente prevedibili, non possono ritenersi responsabili per i danni derivati dalla mancata realizzazione dei risultati positivi attesi, se tale decisione è stata assunta secondo valutazioni ex ante ragionevoli, plausibili e puntualmente documentate e motivate.
Il risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento deve essere valutato alla fine del ciclo di ciascun programma imprenditoriale. Infatti, finché i vantaggi previsti e debitamente documentati non si sono verificati, non può ancora considerarsi mancante la condizione per l’operatività dell’esimente da responsabilità.
Ciò comporta, peraltro, il rischio che operazioni di lunga durata agevolino eventuali comportamenti speculativi della capogruppo e costituiscano un ostacolo a una tutela effettiva dei soggetti interessati, i quali dovranno attendere l’esito dell’intera operazione programmata prima di poter esercitare l’azione di responsabilità.
6. Contratti infragruppo ed equilibrio economico delle prestazioni
Come si è visto, nel gruppo di imprese, grazie alla gestione accentrata delle varie operazioni infragruppo, è possibile ottimizzare il risultato complessivo dell’iniziativa economica attraverso l’allocazione di costi, ricavi e di altre variabili rilevanti qualora risulti più conveniente. Questo costituisce uno dei principali vantaggi derivanti dalla articolazione del gruppo in più centri giuridici distinti.
Spesso fa società sorelle appartenenti al gruppo o fra una delle società eterodirette e la capogruppo vengono conclusi contratti di vario tipo – quali, ad esempio, contratti di servizio o contratti di fornitura – a condizioni economiche differenti da quelle di mercato.
Se ciò può essere giustificato sul piano economico – in quanto il gruppo di società comporta che si presentino come rapporti contrattuali fra vari soggetti quelli che altro non sono, nella sostanza, che spostamenti di risorse fra diversi settori di una medesima unità economica – sul piano giuridico, stante l’autonomia soggettiva di ciascuna società, tali operazioni possono presentare problemi sia nei rapporti interni – a causa del pregiudizio al valore e alla reddittività della partecipazione che consegue ad una lesione al patrimonio sociale – che nei rapporti esterni, in particolare nei confronti dei creditori sociali, nonché sul piano fiscale (si pensi al c.d. transfer pricing).
L’artificiale rigonfiamento dei corrispettivi nelle operazioni infragruppo costituisce, infatti, una delle modalità attraverso cui si realizzano le attribuzioni patrimoniali indirette fra società sorelle.
Se è vero che, in linea generale, ogni soggetto gode di piena autonomia negoziale e non sono sindacabili le scelte economico-giuridiche compiute dalle parti contraenti, il contesto economico in cui operano le società parti di un gruppo è profondamente diverso da quello in cui operano imprese indipendenti in condizioni di libero mercato. I contratti infragruppo, infatti, sono conclusi da soggetti che possono trovarsi fra loro in conflitto di interessi e il cui potere contrattuale è impari: da una parte vi è la capogruppo e, dall’altra, la società diretta e coordinata, la cui autonomia contrattuale è di fatto condizionata dall’influenza che sull’organo amministrativo ha il capitale di comando. Analoga situazione di conflitto si realizza anche quando un contratto è stipulato fra società sorelle, se la conclusione dello stesso è conseguenza di una direttiva impartita dalla capogruppo.
Qualora la situazione di conflitto e di alterazione della forza contrattuale delle parti si rifletta sull’equilibrio economico del contratto, è necessario verificare se, ed entro quali limiti, ciò sia giustificato nell’ambito dell’attività di direzione e coordinamento e quando, invece, ciò si traduca in una violazione delle previsioni legislative dirette a regolare tale attività.
Come si è visto, la norma di cui all’art. 2497 c.c., allo scopo di non ostacolare la gestione unitaria del gruppo – nella consapevolezza che l’attività imprenditoriale si basa su strategie economiche destinate a produrre risultati nel tempo – sposta il giudizio di legittimità al “risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento”. L’appartenenza ad un gruppo di società può pertanto giustificare l’emanazione e l’attuazione di direttive pregiudizievoli, in prima battuta, per la singola società purché le conseguenze negative di operazioni sul patrimonio di una società vengano neutralizzate attraverso operazioni di segno opposto, che abbiano l’effetto di compensare con vantaggi i pregiudizi arrecati, oppure attraverso atti diretti a eliminare il danno. Ciò in quanto la politica di gestione della capogruppo non può spingersi sino ad imporre a ciascuna società di sacrificare gli interessi di cui è portatrice.
Un’operazione svantaggiosa per la singola società del gruppo è quindi lecita se si inserisce in un più ampio disegno imprenditoriale, nell’ambito del quale il pregiudizio arrecato alla stessa trovi una contropartita in benefici derivanti da altre operazioni tali da eliderlo. Viceversa, una politica di gruppo diretta a sottrarre sistematicamente ricchezza ad una o più società eterodirette mediante l’imposizione di operazioni pregiudizievoli disposte nell’interesse della holding o di altre società sorelle, senza la prospettiva di alcun vantaggio compensativo, costituisce violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, ovvero dei criteri fondanti la “correttezza sostanziale” nel governo delle società eterodirette, in forza dei quali si deve valutare la razionalità e coerenza della singola operazione.
Si pensi, ad esempio, ad un contratto di fornitura di beni o di servizi concluso fra due società di un gruppo sulla base di una direttiva della capogruppo, ad un prezzo notevolmente più elevato rispetto a quello praticato sul mercato per prodotti analoghi, che ha l’effetto di trasferire ricchezza da una società all’altra, con la conseguenza che, a causa delle condizioni economiche del contratto, l’operazione si risolve in una perdita per la società acquirente. Ai sensi dell’art. 2497 c.c., tale contratto non è fonte di responsabilità della capogruppo se la società acquirente veda riparato il pregiudizio subito grazie a vantaggi provenienti da altre operazioni concluse nell’ambito dei programmi imprenditoriali del gruppo, ovvero attraverso un’attribuzione patrimoniale ad hoc effettuata dalla capogruppo al fine di neutralizzare il danno causato.
7. Il danno sociale e i diversi profili di responsabilità
Qualora vengano realizzate dalla capogruppo delle condotte illecite che producono un danno alla società eterodiretta, si possono prospettare diversi profili di responsabilità.
Anzitutto, la violazione dei principi di corretta gestione di cui all’art. 2497 c.c. è fonte di responsabilità diretta per la capogruppo e per i suoi amministratori, con conseguente obbligo di risarcimento del danno nei confronti dei soci e dei creditori della controllata.
In questo senso, ad esempio, è stata affermata la responsabilità degli amministratori della controllante che, abusando della posizione di supremazia (derivante nella specie dal potere di nomina e di revoca dell’organo gestorio della controllata), abbiano indotto gli amministratori della controllata a non realizzare attività doverose, quali l’omessa tempestiva messa in liquidazione della società.
Nel caso in cui tale attività illecita provochi un pregiudizio anche al patrimonio della capogruppo, gli amministratori della holding sono responsabili anche nei confronti dei soci di quest’ultima, in base agli ordinari rimedi dell’azione sociale di responsabilità previsti dagli artt. 2393 e ss. c.c., per violazione del criterio di diligenza professionale ex art. 1176, 2° comma, c.c., richiesto agli amministratori nell’adempimento dei propri doveri imposti dalla legge e dallo statuto.
L’art. 2497 c.c. prevede, come si è visto, accanto alla responsabilità delle società che abbia esercitato l’attività di direzione e coordinamento, la responsabilità solidale di coloro che abbiano «preso parte al fatto lesivo» e, nei limiti del vantaggio conseguito, di chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio.
La responsabilità della controllante è quindi esclusiva qualora non vi sia un coinvolgimento degli amministratori della controllata, i quali si siano litati ad eseguire le direttive della holding e siano pertanto estranei all’illecito prodotto. Agli amministratori della controllata non può infatti essere imputata alcuna responsabilità se la lesione all’integrità del patrimonio sociale sia stata cagionata da fattori da loro non direttamente controllabili, come ad esempio quando le operazioni compensative, previste per bilanciare i danni causati da un’attività in sé isolatamente pregiudizievole, non vengano poi effettuate dalla controllante, oppure quando il piano di azione strategico del gruppo sulla base del quale erano state adottate le deliberazioni della società eterodiretta, non vengano realizzate dalla holding.
Gli amministratori della società eterodiretta, pregiudicata dalle operazioni della holding senza alcun vantaggio compensativo, rispondono, invece, in solido con gli amministratori della capogruppo, se abbiano effettivamente preso parte al fatto lesivo, ossia se risultano co-artefici, anche per omissione, o consapevoli esecutori delle operazioni scorrette sotto il profilo imprenditoriale e societario.
Si ritiene, infatti, che anche quando l’azione di direzione e coordinamento sia esercitata sulla base di un contratto o di clausole statutarie, pur implicando l’obbligo della società sottoposta (e per essa dei suoi amministratori) di attenersi alle strategie imprenditoriali delineate dalla capogruppo, non si può escludere l’autonomia di valutazione e di decisione degli organi preposti a ciascuna singola società, cui resta affidata non soltanto la gestione minuta dell’impresa, ma anche la responsabilità di individuare i limiti oltre i quali è necessario distaccarsi da quelle direttive che rendono incompatibile il perseguimento della strategia di gruppo con l’interesse della società da loro specificamente amministrata.
Gli amministratori delle società controllate, pur dovendo tenere conto dell’interesse di gruppo e di tutte le informazioni e valutazioni provenienti dal gruppo, non possono quindi essere privati di alcuni poteri di gestione ordinaria e devono, anzi, conservare un ambito di discrezionalità nel valutare autonomamente l’interesse delle società da essi gestite, dato che all’interno di un gruppo di società ogni ente conserva la propria autonomia giuridica e patrimoniale.
Gli amministratori della società eterodiretta, dunque, sono chiamati ad assumere costantemente informazioni sull’evoluzione dell’attività di direzione e coordinamento, e svolgono un importante ruolo di “filtro” nell’attuazione delle direttive che, pur ispirate ad una logica di gruppo, possono rivelarsi lesive dell’interesse della singola società. Da ciò consegue che gli amministratori della controllata hanno l’onere di esplicitare i motivi per i quali scelgano di limitare la propria autonomia rispetto alla singola decisione e di manifestare l’interesse della società ad effettuare quella operazione pregiudizievole.
Ai fini dell’individuazione dei diversi gradi di responsabilità da attribuirsi agli amministratori della controllante e della controllata, assumono particolare rilievo le motivazioni delle decisioni ai sensi dell’art. 2497-ter c.c., in quanto l’assenza di motivazione o una motivazione che faccia un generico riferimento all’interesse di gruppo può manifestare la consapevolezza della illiceità della decisione. In presenza, invece, di motivazioni analitiche, con specifica indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione, si tratterà di vedere se esse si basano su dati documentati o verificabili o se, invece, erano solo considerazioni formali prive di riscontro oggettivo.
In particolare, qualora il compimento della (o il consenso alla) operazione pregiudizievole sia motivato con la previsione di successivi vantaggi compensativi, la prevedibilità del loro verificarsi dovrà essere valutata sulla base della documentazione (piani industriali e finanziari, relazioni sulla gestione ai sensi dell’art. 2497-bis, 5° comma, c.c., verbali del CdA, contratti, corrispondenza) della holding e della società eterodiretta all’epoca del fatto lesivo.
In questo caso, i soci della controllata possono agire per la richiesta di risarcimento dei danni subiti contro gli amministratori sia della capogruppo – in base all’art. 2497, 1° comma, c.c., – sia contro gli amministratori della stessa società eterodiretta, in base all’art. 2497, 2° comma, c.c. Quest’ultima azione spesso si sovrappone alle ordinarie azioni di responsabilità esercitabili nei confronti degli amministratori di società, ai sensi degli artt. 2393 e ss. c.c.
Ai sensi dell’art. 2497, 3° comma c.c., l’obbligo di risarcimento del danno non può essere fatto valere nei confronti della capogruppo se non si sia proceduto preventivamente nei confronti della società eterodiretta. In altri termini, la responsabilità della holding opera in subordine rispetto a quella della società soggetta a direzione e coordinamento e, più precisamente, solo nell’ipotesi in cui quest’ultima non possa soddisfare le ragioni dei soci e dei creditori sociali.
I soci della controllante, invece, possono agire nei confronti degli amministratori della stessa mediante l’esperibilità dell’azione sociale di responsabilità prevista dall’art. 2393-bis c.c.
Infine, sussiste una responsabilità esclusiva degli amministratori della società controllata nel caso in cui l’attività di direzione e coordinamento da parte della holding si svolga in maniera corretta e gli amministratori della controllata, tenuti a dare attuazione alle direttive impartite dalla capogruppo, eseguano in maniera scorretta oppure disattendano, con mala fede o negligenza, tale onere.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha, recentemente, affermato che, anche nel caso di operazioni infragruppo, stante l’autonomia giuridica e patrimoniale delle singole società facenti parte del gruppo, non sono imputabili alla capogruppo atti che siano direttamente riferibili alle società partecipate, ancorché voluti e coordinati dalla capogruppo.
Una responsabilità esclusiva della controllata potrebbe emergere anche laddove gli atti di gestione (ovvero azioni od omissioni, causate da negligenza, imperizia o dolo) siano compiuti dagli amministratori della stessa in completa autonomia, cioè senza poter essere ricondotti ad alcuna iniziativa dell’organo gestorio della capogruppo che possa ritenersi connessa all’attività di direzione unitaria, determinando, di conseguenza, la totale estraneità di quest’ultimo dalle scelte compiute dalla controllata.
8. Possibile invalidità dei contratti infragruppo conclusi in violazione dell’art. 2497 c.c.
La tutela risarcitoria prevista dall’art. 2497 c.c. incontra alcuni limiti, il principale dei quali è costituito dal fatto che essa, non incidendo sugli atti all’origine di tale responsabilità, è idonea a riparare solo pregiudizi già verificatisi e non a impedire l’esecuzione del contratto.
Se, per esempio, venga riconosciuta la responsabilità della capogruppo per un’operazione infragruppo dannosa per la società eterodiretta e i cui pregiudizi non siano stati sanati nell’ambito della complessiva attività di direzione e coordinamento – come può accadere nel caso della conclusione di un contratto di servizi infragruppo a prezzo fuori mercato, non giustificato da alcuna effettiva ragione commerciale se non quella di distrarre ricchezza a favore della capogruppo o di altra società sorella – la tutela prevista dalla norma in esame ha l’effetto di risarcire i soggetti danneggiati (soci di minoranza, creditori e la stessa società abusata, qualora si riconosca una sua legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di responsabilità) per i danni già dimostrati. Tuttavia, in assenza di un rimedio diretto a invalidare definitivamente la produzione degli effetti dell’atto lesivo, il contratto, fonte del danno e della responsabilità, rimarrebbe in vita, con la conseguenza che il pregiudizio da questo creato potrebbe perpetrarsi.
Nel caso dei contratti infragruppo una forma di tutela esclusivamente risarcitoria può quindi risultare inadeguata, in quanto rischia di lasciare impregiudicati gli atti illeciti compiuti mediante un esercizio abusivo del potere di direzione unitaria. Si potrebbe arrivare al paradosso di ottenere un risarcimento per le conseguenze negative di una determinata operazione, ma di non poter bloccare la produzione degli effetti dell’atto che è stato la fonte dei danni già verificatisi e che potrà in futuro arrecarne ulteriori (si pensi, ad esempio, a un contratto di durata o a un contratto in cui è prevista una clausola di rinnovo tacito).
Di qui la tesi, avanzata da parte della dottrina, secondo cui il generale rimedio risarcitorio previsto dall’art. 2497 c.c., non esclude che, in materia di rapporti infragruppo (e, segnatamente, in relazione alla conclusione di contratti fra le società di un gruppo), si possa utilizzare anche un rimedio di tipo invalidatorio.
In particolare, secondo tale tesi, stante l’alterità giuridica degli enti che compongono un gruppo, le operazioni infragruppo poste in essere in violazione dei limiti inderogabili fissati dalla legge, oltre a far sorgere una responsabilità della capogruppo ai sensi dell’art. 2497 c.c., devono ritenersi nulle per violazione di una norma imperativa, dovendosi ritenere che la norma di cui all’art. 2497 c.c. non fissi una mera regola di condotta ma stabilisca dei limiti inderogabili di contenuto all’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento. In altri termini, si ritiene che il principio di corretta gestione societaria e imprenditoriale costituisca il parametro per la valutazione nel merito del contenuto delle operazioni di gruppo.
In questa prospettiva, la violazione dell’art. 2497 c.c., inteso quale norma imperativa che stabilisce i requisiti di validità dei singoli atti di cui si compone l’attività di direzione e coordinamento, comporterebbe la nullità delle operazioni abusive. Si tratterebbe, infatti, di una nullità relativa di protezione a tutela della eterodiretta, dei suoi creditori e dei soci di minoranza.
Poiché peraltro, come si è visto, in virtù del criterio dei vantaggi compensativi, il momento in cui valutare il “risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento” è quello della fine del ciclo di ciascun piano imprenditoriale – poiché solo al termine di tale periodo è possibile valutare se l’operazione potenzialmente pregiudizievole posta in essere viola in concreto i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, una volta accertato che le conseguenze patrimoniali negative non sono neutralizzate da vantaggi compensativi – il contratto infragruppo concluso a condizioni antieconomiche e fuori mercato dovrebbe ritenersi colpito da nullità virtuale sopravvenuta.
Da ciò conseguirebbe che, in mancanza di vantaggi diretti a compensare il pregiudizio patrimoniale o in assenza di un’operazione diretta a riparare il danno, data la nullità di tali contratti la capogruppo (o altra società del gruppo che si è avvantaggiata del contratto) sarebbe tenuta a restituire per intero quanto indebitamente ricevuto in virtù di tale contratto. Rischio, questo, ben più grave rispetto a quello del risarcimento di cui all’art. 2497 c.c. limitato solo ai soci di minoranza e ai creditori che agiscano e provino rispettivamente il danno derivato al valore e alla reddittività della loro partecipazione, nonché all’integrità del patrimonio sociale.
9. Gli amministratori plurisocietari nei gruppi di società
All’interno dei gruppi di società, il controllo e la direzione strategica unitaria della capogruppo sulle diverse società del gruppo possono attuarsi anche attraverso la nomina dei medesimi soggetti quali amministratori delle varie società del gruppo. L’amministratore plurisocietario può garantire, infatti, la necessaria rapidità nell’esecuzione delle azioni strategiche del gruppo e un flusso costante di informazioni tra la società controllante e le varie società controllate.
Tuttavia, il fatto che il medesimo soggetto amministri più società del gruppo, non introduce di per sé alcuna deroga ai principi generali che governano la responsabilità degli amministratori nei confronti della società, dei soci e dei creditori sociali, i quali principi sono ispirati ad una logica atomistica, imperniata cioè sulla singola società, indipendentemente dal fatto che la stessa faccia parte di un gruppo. In altri termini, L’amministratore plurisocietario ha il dovere di proteggere gli interessi delle (singole) società che amministra.
Gli amministratori plurisocietari hanno infatti un generale obbligo nei confronti delle singole società amministrate di adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, secondo quanto previsto dall’art. 2392 c.c. Qualora venga meno ai doveri fissati dalla legge o dall’atto costitutivo, l’amministratore è responsabile di tale inadempimento, nei confronti delle singole società che amministra.
Gli amministratori delle società soggette a direzione e coordinamento hanno quindi l’obbligo di verificare la correttezza delle direttive impartire, affinché esse non siano pregiudizievoli per la società da essi amministrata. Per non violare il proprio dovere di diligenza, l’amministratore della società eterodiretta, qualora ritenga che le direttive impartire dalla capogruppo non siano rispondenti alle esigenze e agli interessi della società da lui amministrata, deve quindi disattenderle, motivando tale decisione.
Peraltro, l’interesse della singola società eterodiretta deve essere valutato nell’ambito di una logica di gruppo; l’organizzazione del gruppo, infatti, implica la necessità di contemplare il rispetto dell’autonomia giuridica delle singole società che appartengono al gruppo con le esigenze strategiche e finanziarie del gruppo medesimo. L’apparente svantaggio subito dalla singola società potrebbe quindi non essere in concreto pregiudizievole, ad esempio perché i vantaggi derivanti dai rapporti tra le varie società del gruppo possono essere tali da colmare gli svantaggi della singola operazione.
Vi sono inoltre specifici obblighi a carico dell’amministratore plurisocietario:
- l’art. 2497-bis, comma 5, c.c. prevede l’ obbligo dell’amministratore di indicare, nella relazione sulla gestione, i rapporti e gli effetti derivanti dall’attività di direzione e coordinamento;
- l’art. 2497-ter c.c. prevede un obbligo di motivazione delle operazioni «influenzate» dalla società capogruppo; l’amministratore deve quindi indicare il modo in cui le scelte strategiche della società eterodiretta siano state influenzate dalla società che svolte l’attività di direzione e coordinamento, nonché agli interessi – del gruppo totalmente considerato – che abbiano influenzato le decisioni.
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Avv. Valerio Pandolfini
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