Le clausole vessatorie nei contratti tra imprese e consumatori (B2C)
L’art. 33 del D. lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo) vieta, nei contratti tra imprese o professionisti e consumatori (B2C) le clausole vessatorie, cioè le clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Per facilitare l’onere probatorio, l’art. 33 del Codice del Consumo prevede una lista di clausole che si presumono vessatorie salvo prova contraria (c.d. “lista grigia”), mentre l’art. 36 prevede una lista di clausole vessatorie in ogni caso, cioè senza possibilità di prova contraria da parte dell’impresa (c.d. “lista nera”). I consumatori hanno a disposizione, oltre all’azione di accertamento della nullità della clausola, anche la tutela inibitoria, allo scopo di far cessare il comportamento lesivo già verificatosi e imporre all’impresa di astenersi per il futuro da ulteriori comportamenti antigiuridici.
1. La disciplina delle clausole vessatorie nei contratti B2C
L’art. 33 comma 1 del D.lgs. n. 206/2005 (c.d. Codice del Consumo, di seguito CdC) dispone che “nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”.
Sotto il profilo soggettivo, la norma si applica a tutti i contratti conclusi tra un consumatore ed un professionista.
L’art. 3 CdC definisce il consumatore come la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, cioè per esigenze della vita quotidiana o relative alla propria sfera privata. Il professionista è invece definito come la persona, fisica o giuridica, che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, ovvero un suo intermediario.
Pertanto, la normativa in esame si applica a tutti i contratti stipulati tra imprese o lavoratori autonomi, da una parte, e persone fisiche che concludano il contratto stesso per finalità estranee all’ambito della propria attività lavorativa, dall’altra (c.d. contratti Business to Consumer, “B2C”).
Restano invece esclusi dall’ambito d’applicazione del CdC (e quindi sottoposti alla normativa generale del codice civile) i contratti conclusi:
- tra imprese (Business to Business – “B2B”);
- tra privati (Consumer to Consumer – “C2C”).
Sotto il profilo oggettivo, gli artt. 33 e ss. Codice del consumo si applicano a tutti i contratti conclusi tra un consumatore ed un professionista, e quindi ai contratti aventi ad oggetto la vendita di beni di consumo o la fornitura di servizi al consumatore, ma anche ai contratti di credito al consumo, ai contratti bancari, ai contratti di investimento, ai contratti di vendita di pacchetti turistici, ai contratti di multiproprietà, alle vendite stipulate fuori dai locali commerciali, ed alle vendite a distanza.
2. Il rapporto tra gli artt. 33 e ss. CdC e gli artt. 1341-1342 c.c.
La disciplina delle clausole vessatorie contenuta negli artt. 1341 e ss. c.c. non si sovrappone a quella sulle clausole vessatorie contenuta nel CdC, in quanto quest’ultima integra la prima. Ciò significa che qualora una clausola, contenuta in un contratto B2C, rientri nel campo di applicazione degli artt. 1341 e ss. c.c., trova comunque applicazione la relativa disciplina (occorrerà quindi la specifica doppia sottoscrizione), ma a tale disciplina si aggiunge quella – ben più incisiva – quella contenuta nel CdC, posto che la quasi totalità delle clausole considerate vessatorie ex art. 1341, II co., c.c. sono inserite nell’elenco contenuto nel CdC.
Agli effetti pratici, dunque, in presenza di una clausola vessatoria, l’approvazione per iscritto ex art. 1341 c.c. non esclude l’invalidità della clausola, ai sensi del CdC.
D’altra parte, mentre la disciplina contenuta nel codice civile riguarda esclusivamente le clausole vessatorie che siano contenute in condizioni generali di contratto, la natura vessatoria delle clausole secondo il CdC va accertata a prescindere dal fatto che siano inserite in condizioni generali di contratto o meno, essendo sufficiente che la clausola sia stata predisposta dall’impresa anche per regolare un singolo affare.
Pertanto, nei contratti B2C:
- la natura vessatoria di una clausola non è sanata per il solo fatto che rispetti i requisiti formali di cui all’art, 1341 comma 2 c.c.;
- una clausola che abbia superato positivamente il giudizio di vessatorietà di cui agli artt. 33 e ss. CdC è comunque nulla se non approvata specificamente per iscritto, ai sensi dell’art. 1341, secondo comma, c.c.
3. Il significativo squilibrio di diritti e obblighi.
Ai sensi dell’art. 33 CdC, sono considerate in generale vessatorie le clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Si tratta di una clausola generale il cui scopo è estendere al massimo la tutela del consumatore, consentendo l’applicazione della relativa disciplina anche a casi non espressamente previsti. La sussistenza del “significativo squilibrio” è dunque accertamento di merito da compiere caso per caso.
In linea generale, uno squilibrio sussiste in tutti i casi in cui una delle parti, in virtù della propria posizione economica predominante, riesce ad imporre all’altra parte condizioni normative che, in una contrattazione paritaria, ben difficilmente avrebbe potuto ottenere.
Il significativo squilibrio è da escludersi quando la clausola “abusiva”, pur prevedendo vantaggi per il predisponente, sia dettata da giustificate esigenze organizzative e gestionali dell’impresa, in difetto delle quali la stessa non potrebbe svolgere in modo remunerativo la sua attività.
L’espressione “malgrado la buona fede” richiama la buona fede soggettiva del professionista, nel senso che l’eventuale mancanza di consapevolezza da parte del professionista di avere predisposto clausole vessatorie a danno del consumatore è irrilevante. Ciò permette di qualificare come vessatore quelle clausole contrattuali che determinano un significativo squilibrio tra le prestazioni in danno del consumatore, nonostante la buona fede soggettiva dell’altro contraente.
Per verificare l’esistenza del significativo squilibrio, secondo l’art. 34 CdC il giudice deve valutare tre diversi elementi:
- la natura del bene o del servizio oggetto del contratto;
- le circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto;
- le altre clausole del contratto o di un altro contratto collegato o da cui dipende.
Tale elemento ha particolare rilievo, perché, come chiarito dalla dottrina, il significativo squilibrio va valutato tenendo conto di tutte le clausole del contratto e non solamente di una o alcune. Lo squilibrio a danno del consumatore prodotto da una clausola potrebbe essere infatti compensato dal contenuto favorevole al consumatore di un’altra clausola del contratto o di un contratto a questo collegato (ad es. in un contratto di mutuo, una clausola teoricamente vessatoria, come quella che vieti l’accollo ad altri del mutuo senza consenso, può essere legittima se il prestito è concesso a condizioni particolarmente agevolate).
In ogni caso, il “significativo squilibrio” è di carattere normativo, non economico: riguarda, cioè, i diritti e gli obblighi scaturenti dal contratto, e non la misura delle prestazioni o l’adeguatezza del corrispettivo (v. par. seguente).
Ad esempio, la giurisprudenza ha qualificato come vessatorie in base al principio generale del significativo squilibrio:
- la clausola di calcolo degli interessi anatocistici, con cui si prevedeva la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito relativa ai rapporti di conto corrente bancario sorti anteriormente all’entrata in vigore della delibera con cui il CICR ha stabilito modalità e criteri per la disciplina dell’anatocismo nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, i cui effetti non siano ancora esauriti;
- la clausola delle condizioni generali predisposte da una banca per disciplinare i contratti di conto corrente bancario, che obbliga il cliente a corrispondere una somma a titolo di commissione per la richiesta di estinzione del conto, anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo eserciti il diritto di recesso, a seguito della comunicazione da parte dell’istituto di credito della unilaterale modificazione dei tassi, dei prezzi e altre condizioni, senza che la somma richiesta risulti corrispondere a spese effettivamente sostenute da parte della banca e adeguatamente motivate;
- la clausola delle condizioni generali di un contratto di trasporto aereo, con la quale si attribuisce al vettore la facoltà di annullare la prenotazione del volo di ritorno o di prosecuzione, ove il passeggero non abbia usufruito della prenotazione del volo di andata o di avvicinamento e non provveda a comunicare al vettore l’intenzione di volersi avvalere di quella effettuata per il secondo viaggio;
- le clausole che prevedono l’assunzione da parte del promissario acquirente dell’obbligo di corrispondere il compenso provvigionale al mediatore anche nell’ipotesi di revoca della proposta.
4. Quali clausole non possono essere considerate vessatorie
Ai sensi dell’art. 34 CdC non possono essere considerate vessatorie le clausole:
- relative all’oggetto del contratto e al corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile; tali clausole, causando uno squilibrio di tipo economico (e non giuridico), sono quindi sottratte al controllo di vessatorietà, ad eccezione del caso in cui esse siano scarsamente chiare o comprensibili;
- che riproducono disposizioni di legge; non sono considerate tuttavia tali le norme che implicano una scelta, frutto dell’esercizio dell’autonomia contrattuale; ad es. la clausola che esclude la responsabilità del professionista per colpa semplice (posto che l’art. 1229 c.c. ammette la validità di tale pattuizione), la clausola di recesso a favore del professionista (art. 1373 c.c.), o di limitazione della garanzia per vizi (art. 1490 c.c.); vi rientra invece la clausola di recesso della banca per giusta causa nei contratti di apertura di credito a tempo determinato, riproduttiva dell’art. 1485 2° comma c.c., clausole in tema di recesso dell’assicuratore (artt. 1893 e ss. c.c.), clausola di esclusione di responsabilità per colpa lieve del professionista per prestazioni relativi a problemi tecnici di speciale difficoltà (art. 2236 c.c.);
- che siano state oggetto di trattativa individuale; a tal fine, la trattativa deve presentare il carattere dell’effettività, cioè il consumatore deve avere la possibilità di esercitare la propria autonomia negoziale influendo sul contenuto del testo contrattuale, anche se poi non abbia inteso esercitare tale potere o vi abbia rinunciato; occorre quindi che le parti abbiano discusso nel dettaglio il contenuto della singola clausola, nonché possibili formulazioni alternative a quelle inizialmente addotte dal professionista e che, ciò nonostante, il consumatore abbia, in esito a tale discussione, volutamente rinunciato alla sua modifica in cambio di concessioni su altri aspetti rilevanti del regolamento negoziale o in cambio dell’inserimento di clausole a lui vantaggiose.
Tale ultima circostanza è di assai difficile dimostrazione da parte dell’impresa; sostanzialmente, la trattativa individuale può essere dimostrata solo ove si sia in presenza di concessioni che nei moduli e formulari non erano previste ovvero condizioni particolari rispetto a quanto normalmente praticato. La Cassazione ha in proposito ritenuto che perfino la “aggiunta a penna”, anche se autografa, nell’ambito del contratto dattiloscritto, non possa essere ritenuta indice della libera autodeterminazione contrattuale e, dunque, non costituisca prova di una trattativa individuale.
Del tutto inidonea è altresì, ai fini della prova positiva della trattativa, l’approvazione per iscritto, da parte del consumatore, della clausola vessatoria, difettando anche in questa ipotesi il requisito dell’effettività, che sempre deve caratterizzare una trattativa privata.
5. Le presunzioni di vessatorietà: a) la “lista grigia”.
L’accertamento in concreto della natura vessatoria di una clausola inserita nel contratto del consumatore è facilitato da una serie di presunzioni, sicché il consumatore assai raramente ha l’onere di dimostrare l’esistenza del significativo squilibrio, essendogli sufficiente dimostrare che la clausola in questione rientra in quelle presunte dalla legge come vessatorie.
Il CdC distingue due diverse tipologie di clausole, rispetto alle quali la prova della natura vessatoria si atteggia diversamente.
In un primo gruppo rientrano una serie di clausole che si presumono vessatorie salvo prova contraria (cd. “lista grigia”: art. 33 comma 2 CdC). Si tratta delle clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di:
- escludere o limitare l’opportunità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti del professionista con un credito vantato nei confronti di quest’ultimo;
- prevedere un impegno definitivo del consumatore mentre l’esecuzione della prestazione del professionista è subordinata ad una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volontà;
- consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest’ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest’ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere;
- imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo;
- riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;
- consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso, tranne nel caso di giusta causa;
- stabilire un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta al fine di evitare la tacita proroga o rinnovazione;
- consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato
- motivo indicato nel contratto stesso;
- stabilire che il prezzo dei beni o dei servizi sia determinato al momento della consegna o della prestazione;
- consentire al professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio senza che il consumatore possa recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato
- rispetto a quello originariamente convenuto;
- riservare al professionista il potere di accertare la conformità del bene venduto o del servizio prestato a quello previsto nel contratto o conferirgli il diritto esclusivo d’interpretare una clausola qualsiasi del contratto;
- limitare la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai mandatari o subordinare l’adempimento delle
- suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalità;
- limitare o escludere l’opponibilità dell’eccezione d’inadempimento da parte del consumatore;
- consentire al professionista di sostituire a se’ un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, anche nel caso di preventivo consenso del consumatore, qualora risulti
- diminuita la tutela dei diritti di quest’ultimo;
- sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria, limitazioni all’adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell’onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi;
- stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore;
- prevedere l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo come subordinati ad una condizione sospensiva dipendente dalla mera volontà del professionista a fronte di un’obbligazione immediatamente efficace del consumatore.
Tali clausole si presumono vessatorie fino a priva contraria. Per evitare la declaratoria di vessatorietà, l’impresa ha l’onere di provare che:
- la pattuizione non determina un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi inerenti il contratto; oppure che
- la clausola è stata oggetto di trattativa individuale.
6. Le presunzioni di vessatorietà: a) la “lista nera”.
Sono considerate vessatorie in ogni caso, cioè senza possibilità di prova contraria da parte dell’impresa, le clausole appartenenti alla c.d. “lista nera” (art. 36, comma 2 CdC), ovvero le clausole che hanno l’effetto di:
- escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un’omissione del professionista;
- escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;
- prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto.
Per tutte le altre clausole (e cioè quelle non comprese né nella lista grigia né nella lista nera), è il consumatore che ne invoca la vessatorietà a dovere provare che abbiano arrecato un significativo squilibrio alla propria posizione.
7. Le conseguenze della vessatorietà delle clausole per le imprese.
La normativa del CdC ha l’obiettivo di approntare una protezione sostanziale, e non meramente formale, del consumatore, quale parte debole del rapporto contrattuale. Qualora si accerti che una clausola contrattuale è vessatoria ai sensi del CdC, essa viene dichiarata nulla dal giudice. La nullità della clausola vessatoria non si estende all’intero contratto, ma rimane confinata alla clausola.
Si tratta di nullità relativa, in quanto opera solo a vantaggio del consumatore, il quale è l’unico soggetto – oltre al giudice – legittimato a chiedere la declaratoria di nullità di una clausola vessatoria.
I consumatori hanno a disposizione, oltre all’azione di accertamento della nullità della clausola abusiva, anche la tutela inibitoria, allo scopo di far cessare il comportamento lesivo già verificatosi e imporre all’autore dell’illecito un obbligo di astenersi per il futuro da ulteriori comportamenti dei quali sia accertata l’antigiuridicità.
Tale azione può essere esercitata, oltre che dal singolo consumatore, anche dalle associazioni di consumatori, iscritte nell’apposito elenco istituito presso il Min. delle attività produttive, ai sensi dell’art. 137 CdC. Il CdC attribuisce infatti alle associazioni dei consumatori la legittimazione ad agire in via diretta ed autonoma quando in pericolo o danneggiati sono gli interessi collettivi dei consumatori, cioè quando i comportamenti lesivi mettono in pericolo o producono effetti dannosi in relazione ad interessi riconducibili alla generalità della categoria dei consumatori.
L’azione inibitoria collettiva che può assumere due diverse forme:
- l’azione inibitoria di clausole (art. 37 CdC);
- l’azione inibitoria di “atti e comportamenti” (art. 140 CdC).
L’art. 37 CdC prevede che le associazioni rappresentative dei consumatori, le associazioni dei professionisti e le CCIAA possono convenire in giudizio il professionista che utilizzi, o che raccomandi l’utilizzo di condizioni generali di contratto (non le clausole contrattuali predisposte appositamente dal professionista per una singola operazione). Oggetto del giudizio è l’accertamento della vessatorietà della clausola; qualora tale accertamento dia esito positivo, al professionista convenuto viene ordinato di astenersi dall’adottare la clausola abusiva nei propri contratti.
L’inibitoria può essere richiesta anche in via cautelare, qualora ricorrano “giusti motivi di urgenza”. Attraverso l’azione inibitoria cautelare si ottiene quindi una tutela anticipatoria degli effetti della successiva decisione di merito circa la abusività delle clausole.
Secondo l’orientamento maggioritario, i “giusti motivi di urgenza” sono riferibili non a criteri di tipo quantitativo (legati ad es. alla rilevanza numerica dei contratti stipulati da una determinata impresa con i consumatori) bensì di tipo qualitativo, in quanto legati alla essenzialità del bene o servizio oggetto dei contratto.
L’inibitoria cautelare è stata infatti per lo più concessa quando il contratto cui accede la clausola vessatoria sia destinato a soddisfare bisogni “primari” o “essenziali” della persona, anche a prescindere dalla dimostrazione di un pregiudizio effettivo e concreto. In questo senso, è stata ad es. respinta l’azione inibitoria cautelare promossa contro una casa automobilistica avente ad oggetto condizioni generali di contratto relative ad un bene (l’auto) non essenziale; viceversa, tale misura è stata concessa per un contratto di somministrazione di acqua potabile.
Il giudice può anche ordinare la pubblicazione della sentenza su organi di stampa (art. 37 co. 3 CdC). Non ha invece il potere né di condannare al risarcimento del danno (che spetterà eventualmente al singolo consumatore danneggiato dalla violazione) né di fissare una somma di denaro da pagare a titolo di penale. Pertanto, poiché tale provvedimento è sostanzialmente incoercibile (si è in presenza, infatti, di una prestazione infungibile), il soddisfacimento della pretesa dell’associazione dei consumatori dipende dalla volontaria ottemperanza del professionista soccombente al provvedimento inibitorio, collegata principalmente al timore di discredito, cui un professionista che operi su vasti mercati non può essere insensibile.
L’art. 140 CdC prevede inoltre che le associazioni dei consumatori possono richiedere al tribunale di:
- inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori;
- adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate;
- ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate.
Gli “atti e i comportamenti” costituiscono una nozione molto ampia, comprensiva dell’adozione di clausole vessatorie, ma non limitata a questa. L’inibitoria di cui all’art. 140 CdC ha infatti lo scopo di contrastare non solo la diffusione di clausole abusive, ma anche di comportamenti illeciti, potenzialmente dannosi per i consumatori, prima ancora che essi siano inseriti in contratti individuali; essa pertanto non presuppone l’esistenza di vere e proprie “clausole” disciplinanti una particolare tipologia negoziale, potendo indirizzarsi verso atti e comportamenti incidenti su diritti fondamentali del consumatore, sia prodromici alla conclusione di contratti, sia successivi alla conclusione di rapporti negoziali ed afferenti alle modalità concrete di erogazione delle prestazioni.
La procedura dell’azione inibitoria ex art. 140 C.d.C. si articola in tre fasi.
Fase 1: richiesta formale. L’associazione dei consumatori ha, anzitutto, l’onere di effettuare una richiesta formale, presso il soggetto che reputa responsabile, di cessare il comportamento ritenuto lesivo dei diritti dei consumatori e degli utenti. Tale onere si sostanzia in un una diffida preventiva da parte dell’associazione dei consumatori. Solo dopo 15 giorni dalla data in cui è stata presentata tale richiesta scatta la possibilità di rivolgersi al giudice competente.
Fase 2: tentativo di conciliazione. Prima del ricorso al giudice, le associazioni hanno la possibilità di risolvere la controversia in via conciliativa presso le commissioni arbitrali e conciliative territorialmente competenti, istituite presso le CCIAA. La procedura conciliativa deve definirsi entro 60 giorni, e il verbale di conciliazione costituisce titolo esecutivo.
Fase 3: ricorso all’autorità giudiziaria. In aggiunta o in alternativa a tali possibilità, l’associazione di tutela dei consumatori può infine rivolgersi all’Autorità Giudiziaria ordinaria o amministrativa.
L’art. 140 co. 7° CdC attribuisce al giudice il potere di disporre il pagamento di una somma di denaro (tra un minimo di 516 euro ed un massimo di 1.032 euro) per ogni inadempimento o giorno di ritardo, in caso di inadempimento degli obblighi stabiliti dal provvedimento inibitorio da parte del professionista, su domanda dell’associazione che ha agito in giudizio od anche d’ufficio.
8. L’art. 5 D.L. n. 1/2012
L’art. 5 del Decreto legge n. 1 del 24 gennaio 2012 ha ulteriormente rafforzato la tutela dei consumatori nei confronti delle imprese e dei professionisti che utilizzino clausole vessatorie nelle proprie condizioni generali di contratto. L’art. 37-bis CdC, inserito dalla menzionata norma, prevede infatti che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), d’ufficio o su denuncia dei consumatori interessati, possa dichiarare la vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra imprese e consumatori conclusi mediante adesione a condizioni generali di contratto o attraverso la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari.
Il provvedimento che accerta la vessatorietà della clausola – previo accordo con le associazioni di categoria – è pubblicato sul sito Internet dell’AGCM, sul sito dell’impresa stessa e su ogni altro mezzo ritenuto adeguato alla esigenza di informare i consumatori (inserzioni su giornali, mailing list etc.).
L’art. 37-bis comma 3 CdC facoltizza imprese e professionisti ad interpellare preventivamente l’AGCM per conoscere se una determinata clausola che l’eventuale circa la eventuale vessatorietà delle clausole che intendano utilizzare nei rispettivi moduli contrattuali con i consumatori abbia carattere vessatorio. Le clausole che passeranno l’esame dell’AGCM non potranno più essere ritenute vessatorie dall’AGCM stessa ai fini della pubblicità di cui sopra, fermo restando il sindacato del giudice circa la legittimità della clausola vessatoria e quindi l’eventuale responsabilità delle imprese/professionisti nei confronti dei consumatori.
vessatorie nelle proprie condizioni generali di contratto. L’art. 37-bis CdC, inserito dalla menzionata norma, prevede infatti che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), d’ufficio o su denuncia dei consumatori interessati, possa dichiarare la vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra imprese e consumatori conclusi mediante adesione a condizioni generali di contratto o attraverso la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari.
Il provvedimento che accerta la vessatorietà della clausola – previo accordo con le associazioni di categoria – è pubblicato sul sito Internet dell’AGCM, sul sito dell’impresa stessa e su ogni altro mezzo ritenuto adeguato alla esigenza di informare i consumatori (inserzioni su giornali, mailing list etc.).
L’art. 37-bis comma 3 CdC facoltizza imprese e professionisti ad interpellare preventivamente l’AGCM per conoscere se una determinata clausola che l’eventuale circa la eventuale vessatorietà delle clausole che intendano utilizzare nei rispettivi moduli contrattuali con i consumatori abbia carattere vessatorio. Le clausole che passeranno l’esame dell’AGCM non potranno più essere ritenute vessatorie dall’AGCM stessa ai fini della pubblicità di cui sopra, fermo restando il sindacato del giudice circa la legittimità della clausola vessatoria e quindi l’eventuale responsabilità delle imprese/professionisti nei confronti dei consumatori.
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Avv. Valerio Pandolfini
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