Lo sfruttamento commerciale dell’immagine degli sportivi
L’industria dello sport, e i contratti ad essa connessi, si basano in larga misura sullo sfruttamento commerciale dell’immagine, non solo degli atleti, ma anche degli eventi sportivi cui essi partecipano, delle leghe e delle federazioni che organizzano tali eventi e dei luoghi e delle strutture in cui questi eventi sono organizzati. Lo sfruttamento dell’immagine degli atleti assume particolare importanza nel contratto di sponsorizzazione, con il quale l’atleta può cedere lo sfruttamento della propria immagine per la pubblicizzazione dei prodotti dello sponsor in cambio di un corrispettivo.
1. Il diritto d’immagine
Il diritto all’immagine può essere definito come il diritto della persona di apparire e di mostrarsi agli altri, se e quando lo voglia, in conformità alle proprie esigenze e ai propri bisogni, o eventualmente di non farlo, nel caso in cui non abbia un apprezzabile interesse in tal senso.
Tale diritto trae il suo fondamento nell’art. 10 c.c., il quale, pur non riconoscendo espressamente il diritto d’immagine, prevede che si possa ricorrere contro l’esposizione e la pubblicazione della propria immagine, qualora ciò avvenga fuori dai casi consentiti dalla legge o con pregiudizio al decoro e alla reputazione della persona, chiedendo la cessazione dell’abuso e l’eventuale risarcimento dei danni. La norma riconosce quindi il diritto di opporsi all’utilizzo contrario alla legge della propria immagine da parte di terzi, stabilendo che l’utilizzazione dell’altrui immagine non è consentita qualora l’immagine rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione o al decoro della persona stessa.
La L. n. 633/1941 (c.d. legge sul diritto d’autore), all’art. 96, stabilisce la regola generale secondo cui il ritratto di una persona non può essere “esposto, riprodotto o messo in commercio” senza il consenso della persona stessa. Tale norma utilizza il termine “ritratto” – ovvero la riproduzione dell’immagine, ottenuta mediante un qualunque procedimento, come la pittura, la scultura o la fotografia – e non il termine “immagine” – ovvero la figura esteriore delle cose. L’oggetto e il contenuto della tutela, dunque, non è l’immagine in sé e per sé, ma il ritratto, inteso come riproduzione dell’immagine, ed in particolare alcune utilizzazioni dello stesso.
La preclusione allo sfruttamento indebito dell’immagine di una persona, come risultante dal combinato disposto degli articoli 10 c.c., 96 e 97 della legge sul diritto d’autore consente dunque, seppure indirettamente, la commercializzazione dell’immagine. Infatti, soltanto la persona ritratta nella foto può trarre utilità dalla propria immagine direttamente, sfruttandola a proprio piacimento, o indirettamente, dando il proprio consenso all’utilizzazione ad un terzo in cambio di un corrispettivo.
Evidentemente, maggiore sarà la notorietà della persona ritratta, maggiore sarà la forza commerciale e il corrispettivo che essa potrà ottenere. Di conseguenza, l’atleta che gode di grande fama potrà cedere il diritto di utilizzare la propria immagine per fini commerciali traendone notevoli guadagni.
L’art. 97 della L. n. 633/1941 prevede altresì al primo comma dei casi in cui è possibile pubblicare la riproduzione dell’immagine di una persona senza il suo consenso. Di questi ci occuperemo più avanti (par. 4).
Dalle disposizioni di legge che disciplinano il diritto all’immagine si può ricavare che alla persona spetta non solo di un generale potere negativo di interdire la diffusione della sua immagine ma, altresì, un potere positivo di decidere come utilizzare la propria immagine e, dunque, di farne proprie le utilità economiche che da essa possono derivare. In questo modo, accanto a un diritto della personalità, sussiste un diritto su un bene giuridico immateriale, cioè sul valore del bene-ritratto.
Il diritto all’immagine si configura quindi come diritto dalla duplice natura:
- personale, che tutela l’interesse della persona a mantenere il riserbo sulla propria immagine (right of privacy), di natura indisponibile;
- patrimoniale, diretto ad ottenere un profitto attraverso il controllo della diffusione commerciale della riproduzione dell’immagine (right of publicity), di natura disponibile.
Ne consegue che le norme in materia di diritto di immagine possono essere interpretate in chiave:
- personalistica, quando la pretesa si rivolge all’esterno per chiedere l’inibizione dei comportamenti altrui che ledano il diritto alla non divulgazione dell’immagine;
- patrimoniale, qualora il soggetto eserciti le facoltà esclusive relative al proprio ritratto, esponendolo, pubblicandolo o concedendone l’utilizzo a terzi in cambio di un corrispettivo.
2. Il consenso dello sportivo allo sfruttamento della propria immagine
Ai fini della commercializzazione dell’immagine è dunque fondamentale il consenso della persona interessata. Il consenso costituisce il presupposto e il limite dello sfruttamento commerciale dell’immagine ed assume centrale importanza nella stipula dei contratti di sponsorizzazione, nei quali l’atleta cede allo sponsor l’utilizzo della propria immagine per la pubblicizzazione dei suoi prodotti o della sua attività.
Il consenso è un atto unilaterale che può essere validamente conferito anche in modo implicito, tacito o per fatto concludente, a condizione che risulti in maniera chiara ed inequivoca dal comportamento della persona. Ad esempio, se un soggetto si sottopone spontaneamente ad un servizio fotografico, si può presumere il consenso tacito di tale persona alla diffusione delle immagini che la ritraggono, salva la prova contraria dell’interessato che potrà dimostrare di non avere autorizzato la diffusione.
L’interessato può decidere di concedere l’utilizzazione ad alcuni soggetti, ma negarla ad altri, o di concederla esclusivamente per determinate finalità o per determinati usi. Infatti:
- sotto il profilo soggettivo, il consenso è valido esclusivamente a favore del soggetto o dei soggetti per i quali è stato prestato;
- sotto il profilo oggettivo, il destinatario del consenso non può divulgare l’immagine in modalità diverse o per fini diversi da quelli in funzione dei quali la persona ha prestato il consenso.
Il consenso deve essere specifico, in quanto riferito a prestazioni o attività identificate in maniera chiara, e deve avere ad oggetto condizioni e modalità di utilizzazione conoscibili ex ante, in maniera tale che il soggetto interessato possa valutarne preventivamente tutte le future implicazioni assumendo una decisione libera e consapevole. Ad esempio, nel caso in cui l’atleta abbia dato il consenso alla pubblicazione delle proprie foto su determinate riviste, ciò non permette la pubblicazione delle medesime foto a riviste diverse da quelle autorizzate.
Prestando il proprio consenso alla commercializzazione della propria immagine da parte di un terzo, il soggetto non cede il diritto all’immagine, bensì concede tale diritto ad un altro soggetto, permettendo che la propria immagine venga pubblicata, esposta o più in generale utilizzata, e facendo acquisire al terzo il diritto allo sfruttamento commerciale dell’immagine stessa per un periodo di tempo, determinato o indeterminato.
In particolare, come chiarito dalla giurisprudenza, il consenso ha ad oggetto non già il diritto all’immagine – che è assoluto, indisponibile ed inalienabile, trattandosi di un diritto personalissimo – quanto soltanto il suo esercizio (Cass. n. 1748/2016).
Il consenso, nonostante possa essere inserito in un contratto, rimane distinto ed autonomo da esso, e di conseguenza è sempre revocabile in ogni momento, indipendentemente da eventuali termini indicati nel contratto e dalla pattuizione di un compenso, in quanto i rapporti relativi alla tutela all’immagine non sono rapporti a base patrimoniale, ma l’elemento della patrimonialità è solo eventuale e complementare.
Dalla revocabilità del consenso all’utilizzo della propria immagine consegue una notevole precarietà dei contratti di sponsorizzazione i quali spesso non possono prescindere dall’utilizzo dell’immagine dell’atleta. Per ovviare a tale situazione di incertezza e proteggere gli interessi dello sponsor – garantendo la protezione dei notevoli investimenti effettuati per assicurarsi l’utilizzo dell’immagine dello sportivo e per cercare di raggiungere un determinato ritorno pubblicitario – è possibile prevedere nel contratto il diritto al risarcimento dei danni in favore dello sponsor, in caso di impropria revoca del consenso da parte dello sponsee.
Come infatti stabilito dalla Cassazione, qualora la revoca del consenso sia da ritenersi irragionevole, arbitraria o in mala fede, lo sponsor può ottenere il risarcimento dei danni a titolo di responsabilità extracontrattuale (Cass. n. 27506/2008).
3. La titolarità dell’immagine degli atleti negli sport di squadra
In virtù del contratto di sponsorizzazione con una società sportiva, lo sponsor acquisisce il diritto di sfruttare a fini pubblicitari unicamente l’immagine della squadra, e non dei singoli atleti che la compongono (a meno che esse non siano riconducibili alla squadra, nell’ambito dello svolgimento di gare, allenamenti ed altre attività sociali).
Viceversa, un contratto di sponsorizzazione con il singolo atleta non consente allo sponsor di sfruttare commercialmente l’immagine dello stesso in associazione alla sua squadra di appartenenza; altrimenti, infatti, la disposizione da parte della società dell’immagine del singolo lederebbe il diritto dell’atleta, mentre per converso, il singolo atleta che autorizzi la riproduzione della propria immagine mentre veste i colori sociali lederebbe il diritto d’immagine della propria squadra, al pari del suo nome, dei suoi segni distintivi etc. Ovviamente il tutto salvo diverso accordo intercorrente fra società e atleta riguardo la regolazione dei diritti d’immagine.
L’immagine della squadra e quella dei rispettivi tesserati sono, tuttavia, indissolubilmente connesse, dal momento che l’immagine stessa della squadra è costituita dall’insieme delle immagini dei singoli atleti che la compongono. Inoltre, anche l’immagine del singolo atleta si compone, oltre che delle sue sembianze, anche del marchio della società di appartenenza.
Occorre dunque fare chiarezza, in assenza di esplicita previsione contrattuale, sui limiti entro cui lo sponsor societario può spingersi nell’utilizzare l’immagine dei singoli giocatori per pubblicizzare il proprio marchio, ossia stabilire di volta in volta quando la titolarità dell’immagine del singolo rimanga in capo all’atleta in quanto tale e quando invece si trasferisca automaticamente in capo alla società sportiva in quanto parte dell’immagine societaria.
Anzitutto, nel momento in cui un atleta si vincola contrattualmente con un determinato club, la sua immagine si scinde secondo due direttrici:
- l’una inerente alla sua individualità, legata alla sua personalità e propria di tutti gli individui (immagine personale);
- l’altra afferente alla sua sportività, come atleta membro di una squadra e legata dunque a quest’ultima (immagine sportiva).
L’atleta mantiene la piena disponibilità della propria immagine personale, mentre sulla sua immagine sportiva il club concorre con alcuni diritti di sfruttamento che non richiedono suo espresso consenso, ma che derivano direttamente dal rapporto professionistico fra di essi instauratosi.
Le prestazioni sportive del giocatore vengono svolte in esecuzione di un contratto di lavoro subordinato, di cui il datore di lavoro ha diritto di acquisire e disporre di tutti i risultati. Il risultato dell’attività sportiva non si limita unicamente a quello prettamente agonistico, ma si compone altresì del nome e l’immagine dei giocatori ripresi nello svolgimento dell’attività sportiva per conto della squadra di militanza. Tali elementi, infatti, contribuiscono all’allestimento dello spettacolo sportivo, che altro non è che il servizio commerciale che la società sportiva offre al pubblico in qualità di impresa.
Se, dunque, il prodotto dell’attività commerciale della società sportiva è lo spettacolo, la sua titolarità – compresi tutti gli elementi che lo compongono – risiede ab origine in capo alla società datrice di lavoro e non in capo ai singoli attori che materialmente lo creano. Ciò è un effetto naturale del contratto di lavoro subordinato, senza necessità di un’espressa pattuizione; la prestazione di lavoro subordinato viene svolta in nome e per conto della società titolare delle prestazioni sportive dell’atleta, la quale ne acquisisce i frutti in forza del contratto stipulato con i giocatori stessi e a fronte del corrispettivo in esso previsto.
Tuttavia, se la concessione dei diritti di sfruttamento dell’immagine del giocatore è insita nella prestazione lavorativa da esso dovuta, ciò non significa che sia illimitata; al contrario, essa è circoscritta all’immagine sportiva dell’atleta, ossia unicamente a quelle immagini in cui l’atleta è ritratto nello svolgimento dell’attività sportiva per conto della società di appartenenza, durante lo svolgimento della sua normale prestazione di lavoro subordinato. Tutto ciò che esula da questa cornice rimane nella piena disponibilità dell’atleta e può essere concessa in licenza solo previo suo consenso.
Ciò comporta, in primo luogo, che l’immagine personale dell’atleta inteso come individuo non è acquisibile automaticamente dalla società, quanto piuttosto unicamente a fronte di espressa previsione contrattuale.
In secondo luogo, affinché operi l’acquisizione automatica dell’immagine dei propri tesserati da parte della società, è necessario che questa venga ripresa senza che a tal fine l’atleta sia chiamato a fornire prestazioni ulteriori rispetto alla normale attività istituzionale collegata alle gare ovvero alle attività sociali cui è contrattualmente tenuto. Pertanto, mentre le immagini riprese durante un allenamento rientrano pienamente nei diritti del club, al contrario ne rimangono escluse quelle riprodotte a seguito di un eventuale servizio fotografico in studio.
Al di fuori dell’esercizio della propria prestazione di lavoro, dunque, la società non può disporre dell’immagine del singolo atleta senza precipuo accordo.
In ogni caso, nonostante tale limitazione, la società ha comunque la possibilità di utilizzare e riprodurre legittimamente l’immagine dei propri giocatori quando vengano in considerazione non singolarmente bensì nel loro insieme; ciò nei limiti in cui tale gruppo richiami l’immagine della società e, dunque, l’individualità dei singoli ceda il passo alla collettività della squadra.
L’immagine stessa della squadra è composta dall’insieme dell’immagini di ciascun atleta che la compone, per cui quest’ultima è ben titolare dell’immagine di gruppo come rappresentazione della squadra e libera di cederla al proprio sponsor, purché il numero di giocatori raffigurati sia tale da non indurre i terzi nell’erroneo convincimento che il consenso sia stato prestato da uno o più determinati giocatori e non dalla società.
Lo stesso ragionamento vale dal punto di vista degli atleti, i quali, fermo l’obbligo di indossare il materiale tecnico fornito per l’attività sportiva dallo sponsor societario – eccettuato il materiale funzionale al suo svolgimento – sono liberi di associare la propria immagine personale al marchio di un’azienda anche concorrente, purché non si faccia alcun riferimento alla propria squadra di appartenenza senza che vi sia specifico accordo in proposito. Di conseguenza, essi possono cedere liberamente i diritti di utilizzazione della propria immagine “in borghese”, mentre necessitano del consenso della società qualora volessero disporre della propria immagine “in divisa”, in quanto raffigurante anche il marchio della società stessa.
In definitiva, se l’immagine dell’atleta è ritratta durante lo svolgimento dell’attività sportiva o sociale per conto della società, senza che siano richieste prestazioni ulteriori che esulino dalle normali attività contrattualmente previste, o se ritragga un gruppo di giocatori – anche non impegnati in attività istituzionali – che sia idoneo a richiamare l’idea di squadra, la titolarità dell’immagine è in capo alla società; negli altri casi l’immagine rimane nella disponibilità del singolo, per cui occorrerà sempre uno specifico accordo fra atleta e società, nel rispetto delle Convenzioni siglate dai rappresentanti di categorie.
Sono sempre più diffuse le licenze c.d. “nude”, in virtù delle quali l’atleta cede alla propria squadra i diritti di sfruttamento della propria immagine in toto, sia personale che sportiva. La società in tal modo gestisce autonomamente l’immagine del giocatore garantendosi ogni introito derivante dal suo sfruttamento, a fronte di una maggiorazione sullo stipendio del giocatore in ragione di tale concessione. Solo in questo caso sarà a quest’ultimo preclusa la stipulazione di ulteriori contratti di sponsorizzazione personale, ma unicamente in ragione del fatto di aver già disposto dei diritti di sfruttamento commerciale della propria immagine verso la società stessa.
4. Il risarcimento del danno per l’utilizzo illecito dell’immagine dello sportivo
Per quanto riguarda lo sponsee, la problematica principale che può sorgere relativamente al diritto all’immagine è costituita dall’utilizzo della immagine senza il suo consenso o successivamente alla revoca dello stesso. L’illecito in parola si concreta in un illecito civile extracontrattuale, contro il quale l’ordinamento giuridico, in particolare l’art. 10 c.c., predispone un duplice rimedio:
- l’azione inibitoria, volta alla rimozione della situazione antigiuridica determinatasi (cioè la cessazione della pubblicazione dell’immagine e al suo ritiro dalla circolazione);
- l’azione di risarcimento danni per responsabilità extra-contrattuale, ai sensi dell’art. 2043 c.c.
In particolare, legittimati all’esercizio dell’azione inibitoria sono sia il titolare del diritto all’immagine che i suoi congiunti, poiché l’immagine in quanto diritto della personalità che esprime la rappresentazione sociale del soggetto che ne è titolare si riflette anche sulla rappresentazione dei suoi congiunti, i quali pertanto possono anch’essi essere lesi dalla violazione del diritto all’immagine del titolare.
Per quanto concerne la determinazione dell’importo del risarcimento, la Cassazione in diverse pronunce ha stabilito alcuni principi-guida che i giudici di merito devono seguire nella determinazione del risarcimento sia dei danni patrimoniali che di quelli non patrimoniali.
I danni patrimoniali, come è noto, comprendono il lucro cessante e il danno emergente. Per quanto concerne il lucro cessante, la tecnica di determinazione più utilizzata in giurisprudenza è quella del c.d. “prezzo del consenso“, ovvero il corrispettivo che verosimilmente la persona ritratta avrebbe potuto ottenere qualora essa avesse autorizzato uno sfruttamento analogo della propria immagine da parte di terzi.
Ai fini della determinazione del “prezzo del consenso”, viene fatto riferimento generalmente a tariffari reperibili nel settore pubblicitario o al compenso che l’interessato aveva percepito in precedenza per utilizzazioni analoghe del suo ritratto. Nel caso di utilizzazione non autorizzata del ritratto di una persona nota, nella prassi si tiene conto anche delle caratteristiche del singolo caso concreto e delle diverse variabili idonee ad incidere sull’entità del danno, come l’estensione territoriale della condotta illecita, la natura e la diffusione dei mezzi utilizzati (ad esempio, della diffusione dei manifesti, della trasmissione degli spot televisivi a livello nazionale oppure a livello locale, della riconoscibilità della persona nota nell’immagine in questione). Qualora il soggetto non abbia mai in precedenza consentito un uso commerciale del proprio ritratto, si ritiene che debba essere effettuato un apprezzamento comparativo tra le offerte da lui ricevute.
La giurisprudenza ha esteso tale principio anche al caso in cui il soggetto titolare del diritto d’immagine non sia italiano e non abbia mai ricevuto offerte sul mercato italiano, in considerazione del fatto che le quotazioni pubblicitarie dell’immagine di una persona nota a livello globale non possono rimanere confinate nel paese di appartenenza di questa ma devono essere estese a tutto il mondo.
La tecnica riparatoria del “prezzo del consenso” ha incontrato critiche da parte della dottrina, la quale ha evidenziato che per il danneggiante l’obbligo di pagare successivamente il prezzo del consenso non costituisce un deterrente, poiché tale valore, per definizione, non è altro che il compenso che il raffigurato avrebbe ottenuto autorizzando un’analoga utilizzazione della propria immagine. Inoltre, il danneggiante sfrutterebbe in questo modo l’utilizzazione del ritratto a prescindere dalla volontà del soggetto titolare dell’immagine, traendone un netto vantaggio. In altri termini, grazie all’utilizzazione illecita, si potrebbe sfruttare l’immagine di una persona, che magari non avrebbe dato il proprio consenso, pagandola al compenso “normale”.
Pertanto, secondo tale orientamento, la valutazione del danno dovrebbe essere sempre effettuata tenendo conto del principio generale del nostro ordinamento per cui il danneggiato non può trarre vantaggio dal danno subito, cioè ottenere vantaggi oltre la misura del danno stesso. Il danno risarcibile dovrebbe quindi tenere conto dei benefici realizzati dall’autore della violazione e del mancato guadagno del titolare del diritto leso, in linea con quanto stabilito dall’art. 125 del Codice della proprietà industriale per la lesione dei diritti di proprietà industriale.
Peraltro, nelle ipotesi in cui il prezzo del consenso non sia quantificabile in maniera agevole, per la mancanza di indici cui fare riferimento ai fini di una valutazione commerciale certa, risulta più semplice ricostruire l’arricchimento dell’autore dell’illecito e quantificare così il danno. E’ stato così proposto di determinare il danno attraverso il meccanismo della c.d. retroversione degli utili (“disgorgement”), con il quale il titolare del diritto ottiene l’attribuzione in suo favore degli utili realizzati dall’autore dell’illecito, ovvero una riparazione calcolata non in base alla perdita da lui subita bensì in base ai profitti realizzati dall’autore dell’illecito.
Tale metodo garantisce generalmente un risarcimento maggiore, in quanto gli utili realizzati dall’autore dell’illecito generalmente superano la somma relativa al prezzo del consenso. Inoltre, con questa tecnica risarcitoria il patrimonio dell’autore dell’illecito viene coinvolto in maniera più incisiva, realizzando una funzione deterrente e al contempo punitivo-sanzionatoria, tipica dei c.d. “punitive damages” dei sistemi di common law.
Il danno emergente viene normalmente ricondotto alla perdita di valore dell’immagine. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la determinazione del danno emergente si basa sul rapporto di proporzionalità inversa tra utilizzazione delle prerogative proprie della celebrità ed il loro potere attrattivo. Infatti, si ritiene che il maggiore utilizzo dell’immagine della persona nota porti ad una diminuzione del valore del bene, in quanto l’ampia diffusione e la sovraesposizione di un’immagine fanno perdere attrattività nei confronti della stessa e ne causano dunque un deprezzamento.
Per quanto concerne il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del diritto d’immagine, la Cassazione ha ammesso la risarcibilità dei danni non patrimoniali sofferti da una persona in conseguenza dell’illecita utilizzazione dell’immagine di questa da parte di terzi, affermando, in particolare, che il diritto all’immagine rientra nel novero dei diritti della personalità, inviolabili della persona e rientranti nell’ambito di tutela di cui all’art. 2 della Costituzione. Di conseguenza, la lesione di un diritto costituzionalmente protetto, qual è appunto il diritto all’immagine, attribuisce quindi all’effigiato il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali (Cass. n. 8827/2003).
5. Le eccezioni al divieto di utilizzazione dell’immagine dell’atleta senza il suo consenso
Come si è accennato, l’art. 97 comma 1 della L. n. 633/1941 stabilisce dei casi in cui è possibile riprodurre l’immagine di altri soggetti senza la loro autorizzazione:
- qualora l’utilizzo dell’immagine sia giustificato da esigenze relative all’esercizio del diritto dell’informazione su fatti di pubblico interesse o relativi più in generale alla libertà di stampa e alla promozione della cultura e/o della ricerca scientifica;
- qualora l’utilizzo dell’immagine sia funzionale alla tutela della sicurezza.
Ai sensi della norma ora menzionata, quindi, non deve essere chiesto all’atleta titolare dell’immagine il consenso nei casi in cui la sua immagine, scattata nel corso di una competizione a cui ha preso parte, debba essere utilizzata in un quotidiano sportivo o in un telegiornale, poiché il fine perseguito è esclusivamente di informazione e la riproduzione è collegata ad avvenimenti di interesse pubblico.
In proposito, la giurisprudenza ha affermato che la divulgazione non autorizzata dell’immagine di una persona è lecita soltanto se ed in quanto mira a soddisfare esigenze di pubblica informazione (intesa in senso lato), le quali sussistono nei casi in cui la persona ritratta è nota, poiché richiama su di sé l’attenzione generale della collettività (quindi anche nei casi in cui sia coinvolta in un fatto di cronaca) o se l’immagine riguarda fatti, avvenimenti o cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico (Cass. n. 1748/2016).
Le eccezioni più rilevanti con riferimento agli atleti sono quelle dell’interesse pubblico e della notorietà. Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, le limitazioni di cui all’art. 97 L. n. 633/1941 sono poste esclusivamente a tutela di un interesse pubblico e non possono autorizzare e favorire finalità meramente lucrative. Si è precisato inoltre che la notorietà dell’atleta, o più in generale della persona, non può giustificare la diffusione della sua immagine per il solo fatto che essa incontri un generico interesse della collettività, ma è necessario che il fine e le modalità di pubblicazione mirino esclusivamente all’informazione sull’atleta o sulle sue attività.
Tuttavia, come precisato dalla giurisprudenza, nel caso in cui vengano messi a repentaglio valori di rango almeno pari all’interesse pubblico all’informazione, ad esempio qualora sia pregiudicata la dignità del titolare dell’immagine, l’utilizzazione non autorizzata dell’altrui immagine non è consentita, neppure se la persona ritratta sia notoria o comunque nota al pubblico.
Per determinare la liceità o meno dell’utilizzazione dell’immagine dello sportivo senza consenso, è quindi necessario stabilire se essa, o il prodotto cui è legata, soddisfi un interesse all’informazione, alla didattica o alla conoscenza della collettività o se soddisfi esclusivamente un interesse nel consumatore legato all’utilizzo dell’immagine, intesa come bene suscettibile di valutazione economica.
Generalmente i casi più controversi sono quelli in cui, accanto ad una finalità informativa, coesiste, in capo a colui che utilizza l’immagine, uno scopo di lucro. In questi casi, i giudici devono operare un giudizio di “prevalenza” al fine di determinare quale delle due finalità debba essere ritenuta prevalente e, quindi, se l’utilizzazione senza consenso possa ritenersi lecita. Ad esempio, può considerarsi lecita l’utilizzazione del ritratto dell’atleta su un quotidiano sportivo, nella misura in cui tutte le attività editoriali perseguono una finalità economica senza la quale non potrebbero sostenere la finalità di informazione.
Allo stesso modo, è stato riconosciuto che la divulgazione non autorizzata è lecita quando ad essa è attribuita una finalità didattica, richiamata espressamente quale causa di giustificazione dal comma 1 dell’art. 97, L. n. 633/1941. Per accertare la liceità della pubblicazione, occorre valutare non solo se la riproduzione sia funzionale e complementare alla finalità didattica, ma anche se la pubblicazione dell’immagine non risponda a ragioni pretestuose, essendo prevalente lo scopo di lucro.
In ogni caso, la diffusione dell’immagine che sia giustificata da ragioni di pubblica informazione e che risponda all’esercizio del diritto di cronaca, difficilmente incide in misura rilevante sul diritto esclusivo di sfruttamento economico che spetta all’atleta. Soprattutto nei casi di atleti meno affermati e conosciuti, le immagini utilizzate nella cronaca, diffuse senza il suo consenso, possono viceversa rappresentare una grande occasione per farsi conoscere dal grande pubblico, permettendo agli sponsor di raggiungere la c.d. audience indiretta o secondaria ed assicurarsi un incremento del ritorno pubblicitario.
Trai i numerosi casi in cui i giudici sono stati ad applicare il giudizio di prevalenza, uno dei più rilevanti riguarda le figurine dei calciatori. Si è ritenuto in proposito che la divulgazione sia lecita solo con il consenso dei singoli calciatori, dato che la finalità informativa, assolta esclusivamente dagli scarni dati sulla carriera degli atleti contenuti nell’album, è del tutto marginale rispetto alla finalità lucrativa perseguita dall’editore. Inoltre, la singola figurina, ovvero il ritratto, che non presenta alcun contenuto informativo, può circolare autonomamente ed è capace di per sé di produrre un’utilità economica; allo stesso modo l’album funge esclusivamente da raccoglitore delle immagini, svolgendo una finalità prettamente commerciale.
6. I limiti al diritto d’immagine posti da Leghe e Federazioni
I soggetti che operano nel mondo dello sport sono parte di un ordinamento speciale e pertanto devono associarsi all’ente che li governa e li regola. Tale passaggio avviene mediante il tesseramento, che inserisce l’atleta nell’organizzazione dello sport praticato, sottoponendolo ad una serie di regole che vengono emanate dagli enti nazionali e/o internazionali governatori.
Particolarmente rilevanti sono le norme che condizionano la libertà degli sportivi di concedere l’uso dell’immagine nello svolgimento della propria peculiare attività sportiva, ovvero nel momento in cui essa assume maggior valore. Infatti, l’atleta, sia che si tratti di sport di squadra che di sport individuali, è tenuto a rispettare i diritti esclusivi di utilizzazione dell’evento sportivo a scopo pubblicitario che appartengono all’ente governativo che organizza la manifestazione, il quale potrà sfruttarla mediaticamente e commercialmente. Ciò implica che:
- l’ente dispone necessariamente del diritto di immagine degli atleti che prendono parte all’evento;
- l’atleta non può utilizzare la propria immagine nel corso della manifestazione a fini commerciali, se non nel rispetto dei limiti sanciti dall’organizzatore.
Anche gli sponsor individuali dell’atleta non possono utilizzare le immagini di quest’ultimo nel corso della manifestazione, potendo soltanto apporre i propri segni distintivi sull’equipaggiamento dello sportivo. Ad esempio, il regolamento per la partecipazione alle Olimpiadi prevede che per la partecipazione ai Giochi Olimpici l’atleta debba accettare la Carta Olimpica.
Inoltre, le limitazioni allo sfruttamento commerciale dell’immagine dello sportivo possono discendere anche dalle Federazioni cui gli atleti appartengono. Ad esempio, la Federazione Italiana Nuoto prevede nel proprio regolamento che gli atleti ad essa appartenenti, che gareggiano in competizioni internazionali nelle quali rappresentano l’Italia, non possono utilizzare l’abbigliamento del proprio sponsor. Particolare è il caso del costume, poiché essendo questo un indumento tecnico idoneo ad incidere sulla prestazione dell’atleta, sarà soggetto a scelta personale. Tuttavia, nel caso in cui il costume sia prodotto da uno sponsor diverso da quello della Federazione, il marchio e/o il logo dell’azienda produttrice devono essere cancellati o rimossi in modo che il costume sia del tutto neutro.
Lo sponsor in questi casi non può invocare una responsabilità dello sponsee per inadempimento, essendo riconosciuto ormai pacificamente l’obbligo di osservanza da parte dell’atleta dei regolamenti che ne disciplinano l’attività sportiva, come si è avuto modo di analizzare in precedenza. Tuttavia, è indiscutibile che le limitazioni incidono sull’attrattività dell’atleta e sulla determinazione del corrispettivo che questi può ottenere dal contratto di sponsorizzazione.
Pertanto, le diverse regole delle Federazioni o dei comitati regolatori orientano le scelte degli sponsor nella selezione degli atleti da sponsorizzare e, di conseguenza, sono fondamentali per determinare l’ampiezza dello sfruttamento commerciale della propria immagine da parte degli stessi atleti.
7. I diritti di immagine dei calciatori professionisti
Per quanto concerne gli sport professionistici di squadra, le limitazioni all’utilizzo dell’immagine da parte dello sportivo vengono disciplinate dai contratti, collettivi e individuali, che regolano il rapporto tra atleta e società. Infatti, in questi sport il diritto della società di utilizzare l’immagine della squadra e delle partite a fini commerciali convive con il diritto degli atleti di sfruttamento economico della propria immagine individuale.
Per quanto concerne, in particolare, il diritto d’immagine dei calciatori professionisti, la L. n. 91/1981, che disciplina i rapporti tra società e sportivi professionisti, non regolamenta lo sfruttamento commerciale dell’immagine degli atleti, limitandosi a disciplinare la prestazione sportiva dell’atleta e a qualificare il rapporto che ne discende.
Si né posto pertanto il problema di stabilire se la L. n. 91/1981 attribuisca alle società, nella loro qualità di datrici di lavoro, non solo il risultato della prestazione sportiva in quanto tale, ma anche il diritto di utilizzare l’immagine filmata della prestazione, in quanto parte dei diritti acquisiti per effetto del contratto di prestazione sportiva, oppure se la concessione all’utilizzo dell’immagine dei calciatori debba essere oggetto di specifica ed espressa autorizzazione.
In proposito, la Convenzione per la regolamentazione degli accordi concernenti attività promozionali e pubblicitarie che interessino le società calcistiche professionistiche ed i calciatori loro tesserati, stipulata dall’Associazione Italiana Calciatori e le Leghe calcistiche nel 1981, ha previsto che i calciatori non possano opporsi ad iniziative pubblicitarie degli sponsor del club, dovendo consentire a questi ultimi di utilizzare le fotografie di gruppo della squadra in divisa per fini commerciali e di partecipare a manifestazioni promozionali degli stessi per un massimo di 12 ore mensili.
Per contro, i calciatori rimangono liberi di sfruttare per fini commerciali la propria immagine, purché non associata ai segni distintivi della squadra, e possono sottoscrivere contratti individuali per fornitura di materiali tecnici. Inoltre, data la forte identificazione tra giocatore e squadra di appartenenza, si è cercato di evitare contrasti tra gli sponsor di squadra e del calciatore, prevedendo che il giocatore non possa concedere la propria immagine ad un’azienda concorrente degli sponsor principali, e nel caso in cui tale incompatibilità sopravvenga, il calciatore dovrà terminare il proprio contratto di sponsorizzazione.
La Lega di Serie A ha altresì predisposto delle clausole per lo sfruttamento dei diritti di immagine che le società ad essa afferenti sottopongono ai loro calciatori insieme al contratto di prestazione sportiva. Tali clausole, malgrado siano predisposte a favore delle società, vengono solitamente accettate dai calciatori, a meno che essi non godano di un notevole potere contrattuale che li porta a negoziare accordi ad hoc.
L’art. 26 dello Statuto dell’A.I.C. prevede inoltre che ogni iscritto all’A.I.C. possa liberamente utilizzare il proprio diritto d’immagine purché a titolo individuale, e che l’iscrizione all’Associazione comporti l’automatica concessione a questa “dei diritti all’uso esclusivo del ritratto, del nome e dello pseudonimo” dei calciatori relativamente all’attività calcistica, per la commercializzazione di prodotti oggetto di raccolte, come le figurine, che utilizzino l’immagine o il nome degli atleti. Di conseguenza, l’A.I.C. può esercitare i diritti dei calciatori per la realizzazione e la messa in commercio di tali prodotti, anche per il tramite di altre società, senza bisogno di un ulteriore autorizzazione dell’atleta.
Dunque, il singolo calciatore può liberamente sfruttare a fini commerciali la propria immagine “privata”, vale a dire l’immagine non connessa all’attività calcistica e alla società che lo ha tesserato. Tale consenso all’utilizzazione della propria immagine può lecitamente essere fornito anche alla società che intende tesserarlo nell’ambito di accordi interni.
Per quanto concerne invece l’immagine legata all’attività sportiva, occorre distinguere tra i diritti d’immagine del singolo calciatore utilizzati per prodotti oggetto di raccolte, che vengono concessi dai calciatori all’AIC e per la cui concessione è necessaria l’autorizzazione dell’Associazione, e i diritti d’immagine del calciatore come componente di una squadra. Riguardo a questi ultimi, il singolo calciatore non può liberamente disporre della propria immagine in abiti da gioco senza il consenso del Club o della FIGC, a seconda che si tratti della divisa della squadra per cui è tesserato oppure della Nazionale, e ciò a tutela dei segni distintivi delle società sportive professionistiche e delle squadre nazionali.
La sola immagine di cui la società può disporre commercialmente senza il consenso dei singoli atleti, analogamente a quanto previsto dalla Convenzione tra A.I.C. e le Leghe, è quella raffigurante un gruppo di calciatori con la divisa della squadra. In ogni caso, nella prassi degli accordi tra club e giocatori si prevede generalmente la concessione alle società la facoltà a favore della società di utilizzare a fini pubblicitari l’immagine collettiva della squadra, vale a dire l’immagine di un numero limitato di giocatori che sia evocativa del club.
In definitiva, quindi, l’utilizzazione dell’immagine del calciatore nello svolgimento dell’attività è lecita qualora sia stato prestato il consenso sia da parte della società datrice di lavoro sia da parte del singolo atleta, titolare del diritto assoluto e personale all’immagine.
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Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato specializzato in E-commerce
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