Società: la distribuzione degli utili ai soci
Come è noto, l’utile di esercizio è il risultato positivo che deriva dalla gestione aziendale, risultante dal bilancio di esercizio. Il tema della distribuzione fra i soci degli utili realizzati nello svolgimento dell’attività d’impresa costituisce il punto d’incontro di numerosi e, a volte, contrapposti interessi, interni ed esterni alla società. Per tale motivo, il Codice civile condiziona la distribuzione degli utili all’osservanza di precise cautele e condizioni. Nelle società di capitali, I soci non vantano nei confronti della società un diritto alla periodica distribuzione degli utili, poiché ogni decisione al riguardo spetta esclusivamente all’assemblea; tuttavia, la mancata ripartizione dei profitti deve fondarsi su ragioni rispondenti all’interesse effettivo della società. Nelle società di persone, i soci hanno invece un diritto esigibile alla ripartizione dell’utile, se risultante dal rendiconto approvato.
1. Bilancio di esercizio e utili
Come è noto, l’utile di esercizio è il risultato positivo che deriva dalla gestione aziendale. La determinazione dell’utile dell’impresa societaria avviene attraverso una valutazione degli elementi dell’attivo e del passivo dello stato patrimoniale, quale risultante dal bilancio di esercizio.
Sebbene il risultato vero e proprio della gestione sia effettivamente riscontrabile solo alla fine del ciclo produttivo, per ragioni pratiche di soddisfazione delle esigenze concrete e quotidiane dei soci, ma anche e soprattutto per incentivare l’investimento nelle attività imprenditoriali, la legge rende possibile ai soci (di tutti i tipi sociali) riscuotere il ritorno (ove realizzato) sul proprio investimento ad intervalli costanti: gli esercizi sociali annuali.
Dato che la regolare approvazione del bilancio, inteso come rappresentazione contabile dei risultati dell’attività sociale, costituisce il presupposto fondamentale e determinante della successiva deliberazione di distribuzione degli utili, è evidente l’importanza che assume la redazione di questa scrittura contabile e le conseguenze che ne derivano per la concreta realizzazione del diritto agli utili.
Poiché, ai sensi dell’art. 2433, 1° comma c.c., l’assemblea che approva il bilancio delibera sulla distribuzione degli utili ai soci, l’assemblea ordinaria della società, se intende procedere alla distribuzione degli utili, deve provvedervi non prima dell’approvazione del bilancio e generalmente nella stessa seduta in cui si procede a tale deliberazione.
Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, l’eventuale invalidità della delibera di approvazione del bilancio di esercizio, nel comportare la necessità della sua rinnovazione, si riflette necessariamente anche sulla validità della delibera di distribuzione degli utili realizzati ed emergenti da tale scrittura contabile. È necessario, pertanto, rinnovare anche tale deliberazione in rapporto alle nuove risultanze del bilancio. La deliberazione del bilancio e quella di distribuzione (o di destinazione) degli utili, infatti, sono deliberazioni concettualmente distinte ma tuttavia connesse.
Situazione diversa è quella che si verifica quando, a seguito dell’impugnazione della delibera di approvazione del bilancio, sulla base del quale sono stati pagati dei dividendi, risulta che, in realtà, il dividendo riscosso dai soci non corrisponde ad un utile effettivamente conseguito dalla società. Tale ipotesi è espressamente disciplinata dall’art. 2433, 4° comma c.c., secondo cui “i dividendi erogati in violazione delle disposizioni del presente articolo non sono ripetibili, se i soci li hanno riscossi in buona fede in base a bilancio regolarmente approvato, da cui risultano utili netti corrispondenti”. Ratio della norma è quella di evitare azioni pretestuose da parte dei soci “professionisti”, realizzate unicamente al fine di procurare molestie ai soci di maggioranza.
Spesso la domanda giudiziale presentata per ottenere la dichiarazione d’invalidità della deliberazione di approvazione del bilancio d’esercizio è presentata in realtà per ottenere una modifica delle risultanze dell’esercizio sociale (in quanto, ad esempio, sono state fatte delle sottovalutazioni di poste attive o delle sopravvalutazioni di poste passive), al fine così di determinare un incremento dell’utile da distribuire ai soci. La giurisprudenza è peraltro consolidata nel riconoscere l’interesse ad impugnare la delibera di bilancio anche indipendentemente dai vantaggi di carattere patrimoniale che dall’accoglimento di questa potrebbero derivare.
Qualora invece la delibera di approvazione del bilancio venga revocata dall’assemblea in epoca successiva all’attribuzione dei dividendi, ciò non comporta, di per sé, la revoca della deliberazione di distribuzione degli utili; tra le due deliberazioni, che sul piano giuridico si presentano come atti autonomi, non sussiste infatti un necessario nesso di interdipendenza poiché la prima può essere revocata per motivi che nella valutazione dell’assemblea possono non avere alcuna incidenza sulla seconda. Deve quindi ritenersi che la deliberazione di distribuzione degli utili sopravvive alla caducazione della deliberazione di approvazione del bilancio.
Il tema della distribuzione fra i soci di società degli utili realizzati nello svolgimento dell’attività d’impresa costituisce il punto d’incontro di numerosi e, a volte, contrapposti interessi, interni ed esterni alla società. In primo luogo, infatti, specie nelle società di grandi dimensioni, i “desideri” dei piccoli azionisti e dei soci risparmiatori, volti ad ottenere un’alta e frequente remunerazione dell’investimento, non sono facilmente conciliabili con quelli dei soci di maggioranza, che invece mirano principalmente ad accrescere, nello arco di tempo, le risorse finanziarie della società in modo da aumentare gli investimenti e rafforzare la solidità patrimoniale della stessa.
È infatti evidente che se l’assemblea decidesse di distribuire periodicamente alti dividendi, si verificherebbe un costante impoverimento del patrimonio della società, a tutto vantaggio del patrimonio dei singoli soci. Tale condotta certamente non gioverebbe ai creditori dell’impresa che, solo nel patrimonio dei singoli soci. Tale condotta certamente non gioverebbe ai creditori dell’impresa che, solo nel patrimonio dell’ente, possono trovare la garanzia del soddisfacimento dei loro crediti.
Per tale motivo, la normativa del Codice civile condiziona la distribuzione degli utili all’osservanza di precise cautele e condizioni.
2. Il diritto alla distribuzione degli utili da parte del socio
Per quanto concerne le società di capitali (S.r.l., S.p.A.), L’art. 2350 c.c. stabilisce che: “ogni azione attribuisce il diritto ad una parte proporzionale degli utili netti”. Il riconoscimento di tale diritto trova la sua giustificazione nella nozione stessa di società, fornita dall’art. 2247 c.c., ai sensi del quale i conferimenti dei soci sono preordinati all’esercizio in comune di una attività economica “allo scopo di dividerne gli utili”.
Nonostante il tenore delle norme ora menzionate, secondo il prevalente indirizzo dottrinale e giurisprudenziale, il socio non vanta nei confronti della società un diritto alla periodica distribuzione degli utili, poiché ogni decisione al riguardo spetta esclusivamente all’assemblea. Tale orientamento si fonda sull’interpretazione che valorizza gli artt. 2433, comma 1 e 2 e 2478-bis, comma 3, c.c. secondo i quali compete appunto all’assemblea l’approvazione (o meno) della distribuzione degli utili.
Pertanto, il diritto individuale del singolo socio a conseguire l’utile di bilancio sorge soltanto se e nella misura in cui la maggioranza assembleare ne disponga l’erogazione ai soci, mentre, prima di tale momento, vi è una semplice aspettativa, potendo l’assemblea impiegare diversamente gli utili o anche rinviarne la distribuzione nell’interesse della società (in tal senso, Cass. 28 maggio 2004, n. 10271; Cass. 11 marzo 1993, n. 2959).
In particolare, prima di tale delibera, il socio vanta nei confronti della società solo un astratto diritto agli utili, ovvero un’aspettativa di mero fatto nei confronti della società, che si concretizza nel diritto al dividendo solo dopo la decisione dell’assemblea di ripartire gli utili. Pertanto, durante, la vita della società, l’assemblea può decidere di non distribuire alcun dividendo, con ciò limitando l’aspettativa del socio alla propria quota di utili, e durante la fase di liquidazione, ma prima dell’approvazione (tacita) del bilancio finale di liquidazione, l’assemblea può limitare l’aspettativa del socio alla quota finale di liquidazione, eliminando la causa di scioglimento della società e, quindi, revocando lo stato di liquidazione.
In definitiva, dunque, si ritiene che i soci non vantino nei confronti della società un diritto al dividendo per il solo fatto di essere titolari di azioni o di quote; tale diritto si costituisce per gradi ed integra una fattispecie a formazione progressiva, perché sorge solo dopo la chiusura dell’esercizio sociale, la registrazione di eventuali utili, l’approvazione del bilancio e infine la decisione dell’assemblea di distribuire o meno i medesimi a favore dei soci.
Poiché il diritto alla percezione degli utili sorge solo in conseguenza dell’atto di devoluzione assembleare, ne consegue che il dividendo spetta, in assenza di una diversa pattuizione, a colui che si trova nella posizione di socio al momento della deliberazione assembleare di distribuzione. In caso di cessione delle quote di partecipazione sociali, gli utili risultanti alla chiusura dell’esercizio spettano, ove ne sia deliberata la distribuzione, ai soci che abbiano tale qualità al momento della loro distribuzione, per cui solo nei confronti di questi ultimi e non anche verso la società il cedente può rivalersi per la quota di sua eventuale spettanza.
3. Autonomia statutaria e potere deliberativo dell’assemblea dei soci
L’art. 2433 comma 1 c.c. prevede che la deliberazione sulla distribuzione degli utili è adottata dall’assemblea che approva il bilancio. Tale norma non ha natura imperativa e, come tale, entro determinati limiti, può essere derogata dallo statuto, ai sensi dell’art. 2328 comma 1 n.7 c.c.
L’autonomia statutaria può quindi derogare all’art. 2433, 1 comma, c.c., ma non fino al punto di sopprimere il potere assembleare di distribuzione degli utili; diversamente, infatti, verrebbe violata la riserva di cui all’art. 2433, 1 comma, c.c. che attribuisce alla competenza esclusiva dell’assemblea la decisione di ripartite o meno gli utili.
In questo senso, si ritiene invalida la disposizione statutaria che preveda l’integrale ripartizione dell’utile di bilancio, la quale eliminerebbe il potere dell’assemblea di stabilire circa l’an e il quantum della distribuzione dell’utile. Si ritiene inoltre invalida la clausola statuaria secondo cui gli utili di bilancio, dedotto il 5% da destinarsi a riserva legale ai sensi di legge, siano accantonati in un apposito fondo di riserva, in quanto tale disposizione consentirebbe al socio di partecipare alla sola ripartizione del patrimonio netto, impedendogli di fatto di conseguire i dividendi nel corso della vita della società.
Si è invece ritenuta valida una norma statutaria che disponga di destinare il 5% degli utili netti risultanti dal bilancio al fondo di riserva e la rimanenza agli azionisti, sempre che la volontà assembleare non deliberi di destinarli, in tutto o in parte, a riserve e accantonamenti speciali, Tale clausola, infatti, lascia integro il potere dell’assemblea di disporre dell’utile di bilancio, essendo finalizzata esclusivamente a richiedere alla maggioranza assembleare l’obbligo di motivare l’eventuale decisone di non distribuire gli utili.
Per lo stesso motivo, la giurisprudenza si è espressa favorevolmente in merito ad una disposizione statutaria che imponga l’immediata esigibilità degli utili a favore dei soci (una volta eseguito l’accantonamento a riserva legale ed eventualmente quello a riserva statutaria), salvo deliberazioni assembleari differenti. Si è ritenuta altresì valida una clausola dello statuto che preveda la distribuzione degli utili, salvo che l’assemblea, all’unanimità, non decida diversamente.
Infine, lo statuto può disporre la destinazione di una parte degli utili a favore dei promotori o dei soci fondatori ai sensi dell’art. 2328, comma 2, n.8, c.c., ovvero a favore degli amministratori ai sensi dell’art. 2389 comma 2 c.c.
4. I limiti alla distribuzione degli utili ai soci
Come si è visto, la competenza a decidere se distribuire i dividendi spetta in via esclusiva all’assemblea dei soci.
La delibera di approvazione del bilancio d’esercizio e la delibera di distribuzione degli utili costituiscono due atti collegati tra di loro ma al contempo autonomi. La delibera di approvazione del bilancio d’esercizio costituisce il presupposto, anche in termini temporali, della delibera di distribuzione degli utili; l’approvazione del bilancio non fa sorgere automaticamente il diritto dell’azionista all’assegnazione del dividendo, poiché è sempre necessaria l’ulteriore e oggettivamente distinta deliberazione assembleare.
La delibera dell’assemblea dei soci sulla distribuzione degli utili è sottoposta ad una serie di limitazioni e vincoli, sia di carattere civile che fiscale, al fine di tutelare il patrimonio societario e garantire i creditori della società.
In primo luogo, l’art. 2433 comma 2 c.c. stabilisce che la società può distribuire i dividendi solo se:
- realmente conseguiti;
- risultanti da un bilancio d’esercizio regolarmente approvato.
In secondo luogo, lo stesso art. 2433 comma 3 c.c. precisa che qualora si registri una perdita del capitale sociale, non è possibile ripartire gli utili sino a quando il capitale non sarà reintegrato ovvero ridotto in misura corrispondente.
L’art. 2430 c.c. prevede inoltre che il 5% degli utili deve essere destinato a riserva legale fino a che questa non abbia raggiunto il quinto del capitale sociale e che tale riserva deve essere reintegrata se viene diminuita per qualsiasi ragione.
Un altro limite legislativo relativo alla ripartizione dei dividendi è posto dall’art. 2423 comma 4 c.c., secondo cui gli utili eventualmente derivanti da una deroga dalle disposizioni di redazione del bilancio dovranno essere iscritti in una riserva che può essere distribuita solo in misura corrispondente all’importo del valore recuperato.
Inoltre, l’art. 2426 comma 1 n. 5 c.c. prevede che se sono stati capitalizzati costi di impianto e di ampliamento, costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità aventi utilità pluriennale per i quali non si è concluso il periodo di ammortamento, i dividendi possono essere distribuiti solo se residuano riserve disponibili sufficienti a coprire l’ammontare dei costi non ammortizzati. Il successivo punto 8 bis della medesima norma dispone, inoltre, che gli utili su cambi dovranno essere accantonati in un’apposita riserva non distribuibile fino al realizzo.
Lo statuto o la stessa assemblea dei soci possono infine imporre ulteriori vincoli alla distribuzione degli utili, quali ad esempio:
- attribuzione di privilegi nella ripartizione degli utili a favore di speciali categorie di azioni e di altri strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali;
- obblighi di accantonamento ad apposite riserve statutarie;
- diritto di partecipazione agli utili per soci fondatori o promotori;
- attribuzione di una quota di partecipazione agli utili in favore degli amministratori (art. 2389 c.c.) o in favore dei dipendenti (art. 2102 c.c.).
Si ritiene che, qualora una clausola statutaria preveda la destinazione ai soci di una determinata percentuale di utili, ove questi risultino dal bilancio approvato, non sia necessaria la deliberazione assembleare di distribuzione in quanto, in questo caso, il diritto di credito al dividendo si realizza non per effetto di un atto giuridico (la deliberazione di distribuzione), ma in conseguenza di un fatto giuridico quale la mancata destinazione dell’utile ad un impegno diverso dalla sua divisione fra i soci.
Peraltro, la libertà di regolare la distribuzione degli utili nello statuto incontra alcuni limiti. La giurisprudenza ha affermato la nullità della clausola statutaria che imponga l’integrale ripartizione dell’utile di bilancio, in quanto verrebbe ad essere soppresso il potere assembleare di disposizione ai sensi dell’art. 2433.
Al contrario, è illegittima la clausola statutaria che, di fatto, elimini il diritto dei soci agli utili, in misura totale e in maniera costante, essendo tale clausola contraria al divieto del patto leonino (art. 2265 c.c.).
5. Il principio di correttezza e buona fede quale limite al principio della libertà di non distribuire utili
Poiché, come si è visto, il socio è titolare non di un diritto bensì di una mera aspettativa al dividendo, la maggioranza assembleare, nell’adottare la decisione circa la distribuzione degli utili, gode di una notevole discrezionalità, essendo in linea di principio libera di decidere se distribuire gli utili fra i soci oppure impiegarli per altre finalità. Nell’effettuare tale scelta, tuttavia, l’assemblea deve avere quale unico riferimento l’interesse effettivo della società.
La delibera con cui l’assemblea decida di non approvare la distribuzione degli utili è invalida qualora sia stata assunta in violazione del principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione dei diritti e degli obblighi relativi al contratto di società.
In particolare, si ritiene che la decisione dell’assemblea di non distribuire gli utili ai soci possa essere impugnata solo se il socio dimostri che la delibera era preordinata esclusivamente a fare acquisire alla maggioranza posizioni di indebito vantaggio in danno dei soci di minoranza. Ad esempio, si ritiene che la decisione dell’assemblea di accantonare per più esercizi parte degli utili per il solo fatto che la società da tempo persegua una politica gestionale di espansione nel mercato (avendo in tal modo ben remunerato i soci mediante l’accrescimento del patrimonio sociale ottenuto con l’utilizzo delle somme non distribuite) integri la fattispecie dell’abuso della maggioranza.
Il fenomeno dell’abuso della maggioranza in materia di distribuzione di dividendi si manifesta laddove sia riscontrabile che l’aspettativa al dividendo sia sistematicamente disattesa dalla maggioranza, con il fine di compromettere il valore della partecipazione dei soci di minoranza, e quindi di indurre i soci di minoranza a disfarsi della partecipazione stessa.
Come esposto, il socio acquisisce un diritto alla distribuzione di utili solo a seguito di una preventiva deliberazione assembleare, e l’assemblea può decidere sia per la distribuzione che per l’accantonamento degli utili, nell’interesse sociale. Tale decisione è impugnabile qualora sia possibile individuare un intento orientato ad ottenere dei vantaggi che comportano un danno ai soci di minoranza, che, a seguito di tale delibera potrebbero trovare più difficile il mantenimento della loro partecipazione nella società.
È dunque necessario dimostrare che la delibera di mancata distribuzione degli utili sia ingiustificata e fraudolenta, poiché sfrutta una posizione di potere di voto causando uno svantaggio ai soci di minoranza. Il voto della maggioranza deve essere caratterizzato da un elemento di premeditazione dannosa, o, anche di intenzionalità di limitare i diritti dei soci di minoranza senza un interesse della maggioranza che possa essere considerato apprezzabile.
Al fine dell’impugnazione della deliberazione assunta dall’assemblea per violazione dei principi di buona fede e correttezza, ovvero per abuso della maggioranza, grava quindi sui soci l’onere di dimostrare il potere di voto determinante del socio di maggioranza sia stato esercitato fraudolentemente allo scopo di ledere interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto.
Gli elementi idonei a far ritenere che la decisione di non distribuire utili si fonda su un abuso di potere, in quanto adottata al solo fine di privare il socio di minoranza di ogni remunerazione del proprio investimento effettuato nella società, possono ad es. ricorrere se:
- la società è finanziariamente solida sotto il profilo patrimoniale e finanziario e non sono in programma strategie di investimenti rilevanti e, quindi, non è necessario accantonare tutti gli utili realizzati;
- la mancata distribuzione degli utili non è solo parziale ma totale;
- la mancata distribuzione degli utili si ripete anno dopo anno, senza che vi siano motivi idonei a giustificarla.
La mancata distribuzione di utili può anche integrare anche la fattispecie del conflitto di interessi, nel momento in cui, approfittando dalla propria posizione di controllo, il socio di maggioranza, anche amministratore, deliberi di aumentare in modo significativo e ingiustificato il proprio compenso, ottenendo, di fatto, una remunerazione alternativa del proprio capitale investito nella società, senza remunerare i soci di minoranza.
Tale decisione rappresenta una violazione delle norme civilistiche e statutarie secondo cui la distribuzione degli utili deve avvenire proporzionalmente, in base alla percentuale di capitale detenuta da ciascun socio. In tal caso, per essere annullabile per eccesso di potere, occorre che i compensi attribuiti siano decisamente sproporzionati rispetto alle caratteristiche e ai piani della società, posto che l’amministratore ha diritto di ricevere un compenso adeguato.
6. La presunzione di distribuzione degli utili ai soci nelle società a ristretta base azionaria
Si definiscono società a ristretta base azionaria le società di capitali composta da un numero limitato di soci, legati spesso da vincoli di parentela e/o affinità. Con riferimento a tali società, secondo il tradizionale orientamento della giurisprudenza, in caso di accertamento di utili extra-bilancio non dichiarati dalla società, si presume che tali utili siano stati distribuiti ai soci, e quindi debbano essere soggetti a tassazione direttamente in capo a questi ultimi.
Tale presunzione opera in quanto le società di capitali a ristretta base azionaria sono caratterizzate da un numero esiguo di soci, dal vincolo di solidarietà tra di loro, dalla possibilità che ciascuno di essi ha di conoscere gli affari societari e dal reciproco controllo dei soci.
I soci hanno la possibilità di superare tale presunzione, dimostrando che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti.
Inoltre, i soci possono superare la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio fornendo la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria, in particolare in quanto soci di minoranza.
La giurisprudenza di legittimità ha inoltre ritenuto che la dimostrazione della ristrettezza della base societaria è condizione necessaria, ma non sufficiente per l’accertamento dei maggiori redditi di capitale a carico dei soci, in quanto la presunzione di distribuzione degli utili in capo ai soci può essere superata:
- qualora l’amministrazione non sia in grado di fornire la c.d. “prova rafforzata” della ristretta base sociale e dell’effettiva distribuzione degli utili;
- qualora il contribuente dimostri la sua estraneità alla gestione e conduzione societaria.
In altri termini, affinché possano ritenersi esistenti i caratteri di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni semplici, l’amministrazione finanziaria deve dimostrare, oltre al requisito della ristretta base partecipativa, l’esistenza di ulteriori indici dai quali possa evincersi la percezione e distribuzione di extra utili societari, quali, ad esempio, l’esistenza di movimentazioni sospette sui conti correnti oppure operazioni finanziarie o acquisti immobiliari sospette. Ciò soprattutto se l’accertamento è condotto dall’Ufficio nei confronti di un socio con partecipazione minoritaria, avente deboli poteri di gestione.
La caratterizzazione a ristretta base azionaria di una società di capitali non legittima quindi una diretta imputazione pro quota al socio dei redditi societari occultati, se non vi siano elementi di prova, idonei a dimostrare che i maggiori utili della società siano stati effettivamente ripartiti tra i soci.
7. I diritti particolari dei soci di S.r.l. alla distribuzione degli utili
L’art. 2468 comma 3 c.c. consente che al socio di S.r.l. possano essere attribuiti, con una clausola statutaria, particolari diritti riguardanti la distribuzione degli utili. Ciò significa che lo statuto può prevedere una modifica della regola generale, di cui all’art. 2468, comma 2 c.c., secondo la quale ciascun socio beneficia dei diritti che gli derivano dalla sua partecipazione al capitale sociale in relazione alla misura della propria di partecipazione.
Lo statuto della S.r.l. può quindi attribuire a uno o più soci una quantità di dividendi maggiore rispetto a quella gli spetterebbe in base all’entità della propria quota di partecipazione al capitale sociale; deve essere peraltro sempre rispettato il limite del patto leonino, ovvero il principio in base al quale nessuno dei soci può essere escluso dalla partecipazione agli utili e alle perdite (art. 2265 c.c.).
E’ inoltre possibile che lo statuto attribuisca a uno o più soci:
- una priorità nella percezione dei dividendi, garantendo a un socio il conseguimento di una misura minima del dividendo oggetto di distribuzione e mantenendo la proporzionalità nella ripartizione del residuo tra gli altri soci;
- il dividendo relativo all’andamento di uno specifico settore dell’attività della società (sul modello delle c.d. “azioni correlate”);
- una distribuzione dell’attivo di liquidazione diversa da quelle che a ciascun socio competerebbe in base all’entità della propria quota di partecipazione al capitale sociale.
Non è invece legittimo configurare il diritto particolare del socio sugli utili come una forma di “interesse”, cioè di diritto a un determinato rendimento che prescinda dal risultato positivo dell’esercizio.
Il particolare diritto agli utili attribuibile al socio di S.r.l. può riferirsi non solo ai dividendi, e cioè agli utili dei quali l’assemblea dei soci abbia deciso la distribuzione, ma anche agli utili che emergano per effetto dell’approvazione del bilancio, analogamente a quanto accade per le società di persone (nelle quali gli utili, via via che maturano, sono acquisiti immediatamente dalla collettività dei soci, a prescindere dal fatto che ne sia compiuto l’accertamento attraverso l’approvazione del rendiconto annuale e da qualsiasi decisione della società che ne stabilisca la distribuzione). Infatti, la riforma del diritto societario del 2003 ha avvicinato notevolmente la S.r.l. alle società di persone, attribuendo al socio di S.r.l. una rilevanza centrale nella disciplina di questo tipo societario.
In altri termini, è possibile attribuire uno o più soci di S.r.l. il diritto a percepire non solo “utili distribuibili“, ovvero risultanti all’esito di una formale decisione di distribuzione da parte dell’assemblea dei soci, ma anche “utili conseguiti“, ossia risultanti da bilancio regolarmente approvato ma spettanti al socio prima e a prescindere da una decisione di distribuzione.
Mentre, quindi, non è legittima, come si è visto, una clausola dello statuto di S.r.l. che imponga una integrale e automatica distribuzione degli utili, sottraendo questa materia all’inderogabile competenza della decisione dei soci, ben si può configurare un diritto particolare che attribuisca a uno o più soci di S.r.l. il diritto di prelevare la quota di utili loro riservata a seguito della mera emersione di utili dal bilancio di esercizio, prescindendo dalla loro effettiva distribuzione, e così adottando per la S.r.l. i principi operanti nell’ambito della società di persone.
8. La distribuzione degli utili nelle società di persone
Per le società di persone (società semplici, S.n.c., S.a.s.), le norme di riferimento in tema di distribuzione degli utili sono principalmente quelle di cui agli artt. 2303 e 2262 c.c. Si tratta peraltro di norme derogabili dallo statuto, che può stabilire regole diverse per la partecipazione individuale al risultato economico.
L’art. 2303 c.c., in particolare, nel disporre limiti alla distribuzione degli utili, prevede che non può farsi luogo la ripartizione di somme tra soci se non per utili realmente conseguiti e che, se si verifica una perdita del capitale sociale, non può farsi luogo la ripartizione di utili fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente.
Circa il momento della distribuzione degli utili, l’art. 2262 c.c. stabilisce che, salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto.
Entrambe le norme mirano a tutelare il patrimonio sociale nei confronti dei creditori ma, allo stesso tempo, a salvaguardare la stessa società, prevedendo l’obbligo di copertura finanziaria dei debiti prima della distribuzione degli utili ai soci.
Nelle società di persone, la ripartizione periodica degli utili è, salvo patto contrario, un diritto del socio. Il diritto alla percezione degli utili da parte dei soci è subordinato alla mera approvazione del rendiconto, cioè del prospetto redatto, solitamente alla fine di ogni anno, che rappresenta la situazione patrimoniale e finanziaria della società; si tratta, in sostanza, del bilancio d’esercizio, le cui regole stabilite dal codice civile per le società di capitali sono applicabili, nei principi generali, anche alle società di persone.
Diversamente quindi da quanto disposto, come si è visto, per le società di capitali – rispetto alle quali occorre la previa deliberazione assembleare che, preso atto della sussistenza di utili nel bilancio, ne autorizzi la distribuzione – nelle società di persone la percezione dell’utile, correttamente generato e registrato dagli amministratori, costituisce un vero e proprio diritto immediatamente esigibile: la legge infatti lo condiziona unicamente all’approvazione del rendiconto, al punto che i guadagni non possono essere nemmeno reinvestiti senza l’assenso di ciascun socio.
Prima dell’approvazione del rendiconto – ovvero prima che sia verificata l’effettiva consistenza patrimoniale della società, al termine di un anno di attività – il socio non ha quindi diritto a percepire gli utili. La distribuzione di utili non effettivamente conseguiti costituirebbe, in sostanza, un rimborso mascherato dei conferimenti, laddove, nelle società di persone, la quota di patrimonio corrispondente al conferimento a suo tempo eseguito può essere restituita al socio solo in caso di scioglimento del rapport6o sociale (per recesso, esclusivamente e morte del socio) o della società, previo, in tal caso, pagamento dei creditori sociali.
In prelievo di somme delle casse sciali da parte dei soci, che non trovi una giustificazione in utili effettivamente conseguiti dalla società, espone gli amministratori alla pena della reclusione fino a 1 anno, ai sensi dell’art. 2627 c.c.
Tale situazione comporta altresì l’insorgere del diritto della società di ripetere tali somme nei confronti di ciascun socio che abbia percepito tali acconti; la giurisprudenza maggioritaria ritiene infatti che tale prelievo di somme dalla società generi un credito restitutorio a favore della società stessa che, in quanto tale, concorre a formare l’attivo patrimoniale anche ai fini della verifica di fallibilità della società. Fa eccezione la posizione dei soci accomandanti nella S.a.s., i quali non sono tenuti a restituire gli utili accertati successivamente inesistenti, ma riscossi in buona fede secondo il bilancio regolarmente approvato.
Tuttavia l’art. 2262 c.c. – norma dettata per le società semplici, ma ritenuta applicabile analogicamente anche alle S.n.c. e alle S.a.s. dalla prevalente giurisprudenza – prevede che – lo statuto possa disporre altrimenti, indicando una maggioranza e il criterio di calcolo della stessa, e analogamente i soci all’unanimità possono rinunciare alla distribuzione a favore della società, con costituzione di una riserva.
Inoltre, sempre lo statuto può prevedere la possibilità di erogare ai soci acconti sugli utili nel corso dell’anno, senza che sia necessario attendere l’approvazione del rendiconto, ovvero la chiusura dell’esercizio, in modo da garantire loro delle entrate periodiche. In proposito, la giurisprudenza ha affermato che è possibile distribuire ai soci somme a titolo di utili, conseguiti in uno o più esercizi sociali, anche prima dell’approvazione del rendiconto, in quanto la norma di cui all’art. 2262 c.c., che ne subordina il conseguimento solamente all’esito dell’approvazione del rendiconto stesso, ammette espressamente il patto contrario.
In tal caso, le somme erogate in acconto sugli utili ai soci devono trovare copertura nell’utile effettivamente prodotto a fine esercizio, al fine di evitare che i soci siano assegnatari di somme che non trovano copertura nel patrimonio netto, con conseguente distrazione illecita di attività sociali. Qualora a fine esercizio emerga che i prelevamenti eseguiti in corso d’anno siano superiori rispetto all’utile effettivamente prodotto, si determina un deficit patrimoniale che potrebbe avere delicate ripercussioni, specie nel caso di procedure concorsuali nelle quali potrebbe essere coinvolta la società.
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Avv. Valerio Pandolfini
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